mercoledì 30 settembre 2009

No chiavi? No parti, ja?!!


Quando, a maggio, mi hanno consegnato le chiavi, ho pensato: “Che figata”. Sì, perché a Zurigo la tecnologia la fa da padrona: niente mazzi di chiavi grossi come meteoriti da trasportare con il carrello della spesa. Una chiave con un codice per aprire la porta dello stabile, quella del proprio appartamento, il garage, il lucchetto della valigia e, credo, anche le macchine parcheggiate entro un raggio di due chilometri. Efficienza svizzera. Precisione. Economizzazione. Ogni condomino ne riceve quattro copie. Io, sempre con la testa tra le nuvole, ho pensato bene fosse il caso di affidarne una ai miei genitori e una al mio vicino. Metti che rimango chiuso fuori. L’ultima copia vagante, riposta nel cassetto della scrivania, viene utilizzata, con un sistema ingegnoso, dall’uomo delle pulizie - ebbene sì, da due settimane a questa parte ho finalmente qualcuno che passa l’aspirapolvere, lava i pavimenti e fa odorare di civiltà quel buco del mio appartamento - : io lascio la mattina le chiavi nella cassetta della posta che lui, poi, passerà a ritirare. Quando rincaso, la sera, apro la cassetta, recupero le chiavi e così via. Fino a ieri: le chiavi si sono volatlizzate. Panico. Panico reale, perché nel caso le avessi perse, devo cambiare, a mie spese, serratura del garage, del portone, di casa mia e, con molta probabilità, dell’appartamento di ogni condomino. 12 appartamenti. Si parla di migliaia di franchi. Forse milioni. Forse la galera. Forse sarò compagno di cella di Roman Polanski. La prima cosa che mi è venuta in mente è stata: forse lui si è dimenticato di lasciare la chiave nella cassetta della posta. SMS immediato. Risposta: ho lasciato la chiave nella cassetta. Porca puttana. Io, però, non ne sono così sicuro. Ricordo, giovedì scorso, di essere tornato a casa. Ricordo di avere aperto la cassetta. Ricordo di avere preso una busta cablecom e ridcordo anche di avere moderatamente imprecato perché quella sicuramente era un’altra fattura da pagare. Ricordo di avere fatto il bucato, di essermi mangiato una pesca, di aver fatto una gira volta e di averla fatta un’altra volta, ma non mi ricordo affatto di quella chiave. Tuttavia, non avendo prove del contrario, prendo per buona la sua versione. Dunque, la chiave deve essere per forza nel mio appartamento, da qualche parte. Ieri notte, perciò, è iniziata la ricerca. Ho controllato dovunque: cassetti, tasche dei pantaloni, tappeti, persino nel frigorifero e dentro le calze. Niente. In più, venerdì sono tornato a Milano, quindi non posso neanche pensare che me la sia mangiata in preda ai fumi alcolici. Poi, il colpo di genio: ho lavato i pantaloni con la chiave dentro. Eccerto, ecco risolto l’enigma! In pigiama e ciabatte, mi precipito giù per tre piani, scalino dopo scalino. La stanza è immersa nel buio. Romantico, ma io preferisco la luce. Eccola, la lavatrice. Eccola, l’asciugatrice. E la chiave? Niente. Porca. Puttana. Stamattina ho ricominciato le indagini. Nessun esito. Necessito di RIS e perito nominato dalla Procura. La situazione, al momento, è questa. Ora, non ho nessuna intenzione, almeno non ora, di ammettere la mia colpa davanti al tribunale dell’agenzia immobiliare, né, tantomeno, di farmi prosciugare il conto in banca. La “figata” iniziale ha mostrato il rovescio della medaglia. Purtroppo, prima o poi, tutti i nodi vengono al pettine - almeno fino a quando non diventate completamente pelati -, perciò mi sto preparando, nel caso mi venga posta la fatidica domanda: e la quarta chiave?


* Mi spiace, non capisco il tedesco

* Quale quarta chiave?

* È stata rapita dagli alieni

* Ha fatto le valigie e se ne è andata via questa mattina

* Ma è qui, non la vedete anche voi?

* Parlo solo in presenza del mio avvocato

* Era giunto il suo tempo, ma ha vissuto una vita piena e serena

* Se volete rivederla viva, seguite attentamente le mie istruzioni

* Voi volete sapere troppo

* È a un festino con Papi

venerdì 11 settembre 2009

C'è chi si adatta e chi no


Io ho un problema e non è l’ipocondria. Almeno, non solo. Tempo fa mi sono abbonato a cablecom, svizzero fornitore di servizi internet, programmi digitali e via cavo. L’offerta televisiva non manca: canali svizzeri, tedeschi, francesi, italiani, inglesi, americani, turchi – sì, proprio quelli che fumano tanto –, serbi, croati, russi, polacchi, ungheresi e persino un canale coreano. È bello non capire niente in tante lingue, ti dà quel senso di ignoranza globalizzata. La sera mi sdraio sul divano e rimango così, ipnotizzato davanti allo schermo, lo sguardo vagamente ebete. Ora, ci sarebbe anche la possibilità di ordinare, su richiesta e a pagamento, dei film. Il catalogo è piuttosto variopinto: da “Madagascar” a “Lei suona il piano, lui la tromba”. Già, peccato che abbia tentato in tutti i modi, senza successo, di ordinarne uno – Sbatman e Trombin mi ispirava molto. Che fare? Chiamiamo il servizio clienti.


“Per il tedesco digitare uno. Per il francese, digitare due. Per l’italiano, digitare tre. Per il bagno, sempre in fondo a sinistra”. Dopo una decina di minuti di attesa durante i quali sono riuscito a imparare a memoria “Home” di Michael Bublé, posso finalmente parlare con un operatore, a cui espongo minuziosamente il problema.

Ha per caso l’adattatore VOD?”, mi domanda, con un accento che farebbe invidia a Huber, Gervasoni e Rezzonico. Di brutto brutto butto, eh!

“Eh?!”, ma avrei potuto solo scrivere “?!”, solo che al telefono viene male.

“Video on demand, è un adattatore fatto apposta per questo tipo di servizio”

“Non credo. Ho un adattatore, ma non so se sia VOD o no”

“Può controllare?”“Non sono a casa in questo momento”

Com’è il suo adattatore?”

Boh, com’è? Carino? Insomma, l’andazzo è questo per altri cinque minuti. Il VOD, comunque, non ce l’ho. L’operatore dice che me lo invierà a breve per posta. Meno male, potevo rimanere offeso!


Tornato dalla settimana milanese, trovo un foglietto nella cassetta della posta. Viene da cablecom, devo andare in posta a ritirare il VOD. E così faccio: vado, ritiro, trono a casa e apro la busta. Eccolo qui, il famigerato VOD. Lo attacco alla presa, poi prendo i cavi del modem e del decoder e… e niente. Non entrano. Spingo, ma non ne vogliono sapere. Le provo tutta, anche con la vaselina, ma ho la sensazione che ci sia qualcosa che non va. Anzi, ne ho la certezza. Non mi resta che andare fisicamente al servizio clienti e chiedere delucidazioni.


Il giorno dopo, uscito dall’ufficio, mi reco al servizio clienti, situato al primo piano di un negozio di elettrodomestici. Dopo aver superato con coraggio un’ardua rampa di scale, percorro alcuni metri fino a quando mi ritrovo davanti un bancone con la scritta “cablecom”. Che sia questo? Dietro al bancone un tizio paffutello sulla quarantina, con più peli nel naso che in testa, sta cercando di capire se sia meglio cedere all’abbiocco, decifrabile dal suo sguardo vispo, o continuare a sfogliare il giornale. Per non farlo consumare nel dubbio, arrivo in suo soccorso:

“Do you speak English?”

“Nein”Ah. Momento di panico. E adesso, come glielo spiego tutto l’ambaradan? Posso chiedergli come sta, dov’è la fermata del tram o se ha voglia di darmi un altro bacio, ma come gli spiego di cavi, prese e adattatori?

“I can translate for you”

Mi volto. Il mio salvatore ha le sembianze di un biondo ragazzo che, a sua volta, sta aspettando il turno per lamentarsi con cablecom. Inizio a esporgli il caso. Lui, mano sull’auricolare, traduce. Non capisco una parola, ma credo che dica qualcosa del tipo: “Sono molto onorato di essere qui, amo il vostro paese, w la pace nel mondo”. L’impiegato rotondetto annuisce col testone. “Ja, ja”. Poi, inizia il suo monologo pieno di ch, tz e unt. Stavolta, ad annuire sono io. “Yes, yes”. Il ragazzo mi spiega che quello di cui ho bisogno sono degli adattatori per le prese dell’adattatore. Ah! Un meta adattatore, fichissimo, sehr gut!


Venti minuti più tardi sono a casa con i miei due fichissimi adattatori. Super fichissimi. Infilo l’adattatore nella presa. Infilo gli adattatori nelle prese dell’adattatore. Non entrano. Riprovo. Non entrano. Spingo. Non entrano. Ma… ma i super fichissimi adattatori? Ma… ma vaffankulen!!!

mercoledì 9 settembre 2009

In Gamba!!!


Il dolore, più che altro un fastidio, ha iniziato a farsi sentire circa tre mesi fa. Gamba sinistra, vasto laterale. Sospendo gli allenamenti per un periodo, un po’ di riposo non può che farmi bene. Dopo un mese, però, le cose non sono affatto cambiate: la gamba è sempre la sinistra, il dolore è ancora localizzato lì, nel vasto laterale. Vasto laterale… adoro imparare nuove parole. Sembra il ruolo di un giocatore: c’è il terzino e c’è il vasto laterale, che però parte dalla panchina. A Milano, un caldo giorno di fine luglio, decido di farmelo vedere, questo vasto laterale. Il mio ortopedico, il dottor Gamba – nomen omen – è in vacanza. Così, armato di buona volontà, inizio il giro degli ospedali.

Auxologico: solo su appuntamento, peccato che mi vogliano appuntare la settimana dopo e io devo tornare a Zurigo

Gaetano Pini: al momento il pronto soccorso non è attivo, potete morire da un'altra parte.


Il Fatebenefratelli mi accoglie a braccia aperte, ma solo perché sono ingessate. Nella sala d’attesa siamo in tre. Bene, penso, mezz’ora e me ne torno a casa. Invece, ecco arrivare il cinese con una caviglia gonfia come un pallone aerostatico; ecco la nonna moribonda sulla sedia a rotelle; ecco la sciura che non riesce a muovere nemmeno un dito ma riesce, però, a parlare un’ora di filata al cellulare. Due ore dopo entro nello studio. Il medico, dopo avere abusato della mia gamba, sentenzia: “È uno stiramento. Per stabilire l’entità del danno, ho bisogno di una ecografia. Perderai un po’ di forza da quella gamba. Fai l’ecografia, poi telefona e prendi un appuntamento”


Sono un invalido, ho capito.

Passa l’estate. Torno a Milano. Faccio l’ecografia. Vado dal dottor Gamba. “È una contrattura”. Miosite distale al vasto laterale. O, miosite al vasto laterale distale. O qualcosa del genere. Niente stiramento, niente perdita di forza. “Devi fare un ciclo di tre onde d’urto”

A Zurigo, di fianco al mio ufficio c’è una clinica di medicina dello sport. Eccellente. Munito di ecografia e reperto, faccio il mio ingresso trionfale.


“Du iu spic inglisc?”

“Ies ai do” Inizio il mio racconto zeppo di dolore, visite, ecografie, dottor Gamba e onde d’urto.

“Uot?”

“Scioccueivs, ai thinc this is iz neim in inglisc” Silenzio. Provo a spiegarmi meglio. Silenzio. Mi esibisco in una pantomima. Silenzio.

“Hev iu got scioccueiv?”. Silenzio. Silenzio assenso? O silenzio assenzio, lobotomizzata da chissà quali sostanze?

“Scioccueivs cam from Suitzerland. Itz laic e littel gan with e sort of piston det meic bum bum bum bum bum. Du iu anderstend?”. Bisogna essere prorpio ottenebrati cerebralmente per non capire una spiegazione scientificamente così ineccepibile. La ragazza mi guarda, persa nel bum bum bum bum bum. Forse sta pensando a qualcos’altro. Una volta riavutasi dall’effetto dell’acido e dei pensieri impuri, mi fa:“Iu nid to visit e doctor hiar. Den, hi chen prescraib e tritment. We send de tritment tu iour insciurans, so iu dont hev tu pey for de tritment” .E non me lo poteva dire prima? E le scioccueivs? E l’ecografia? E il dottor Gamba? Quindi, ricapitolando, lunedì prossimo dovrò pagare un dottore che mi dirà che ho una contrattura al vasto laterale e che devo fare un ciclo di tre onde d’urto. Me lo dirà in tedesco, così io non capirò un cazzo. Speriamo almeno che non si chiami doktor Bein*…

*gamba, in crucco, ecchevelodicoaffare!

giovedì 3 settembre 2009

Dica "Trentatre"!


“Gentile Sig. Rosenberg, questo giorno le appartiene. Se lo goda appieno. Orange la augura buon compleanno.”.


Quando uno riceve sul suo numero svizzero un messaggio del genere, capisce che è arrivato. Comunque, quando è suonata la sveglia, ho sentito tutto il peso dei miei 33 anni. Alzarsi, lo ammetto, è stato faticoso. Mi ci è voluto circa un secondo più del solito. Sono cose che ti segnano. Fuori dalla mia stanza mi si presenta una scena apocalittica: polvere, roba accatastata dovunque, calcinacci, un paio di mutande che camminano. I picconatori, in una pausa di demolizione, si scambiano starnuti e frasi di circostanza in pugliese stretto. Mia madre sta parlando con un tizio alto, grosso e con la barba bianca che o è Babbo Natale o è il capo di tutta la baracca. Probabilmente è Babbo Natale. Di fianco a lui un ragazzo, quello delle porte. Cioè, si prende cura delle porte: le leviga, le pittura e le mette a letto dopo le otto e mezza.


“Tanti auguri, tesoro!”


“Grazie”, rispondo, con bacio, abbraccio e le palpebre ancora incollate.


“Cento di questi giorni”, mi urla il barba, felice come pochi ho visto a queste ore del mattino.


Ora, non ho ancora capito come prendere questo augurio. In teoria bene. Però… Cento giorni sono davvero pochi. Tre mesi e qualcosina. E poi? Ci ragiono su. Ho la tendinite a entrambi i polsi, una contrattura alla gamba sinistra e la sinusite: in questo caso cento di questi giorni sono davvero una enormità.


E giungiamo all’epilogo, perché c’è sempre un epilogo. Come mi faceva notare prima l’amico Freddi, qualcuno, molto tempo fa, a 33 anni suonati, resuscitava. E questo mi porterebbe a fare alcune considerazioni. Diverse. Per esempio, che Alessandro Magno, a 33 anni, concludeva a Babilonia la sua avventurosa vita. E Mozart componeva i suoi ultimi capolavori, Schubert, Keats e Shelley manco ci arrivavano e un tale che mia sorella si ostina a chiamare papà diventava padre del sottoscritto e prendeva la sua seconda laurea. Considerazioni, pensieri. Così penso, e penso, e penso ancora, e… e tutto sommato, riflettendoci bene, non posso affatto lamentarmi: io, almeno, ho gli auguri della Orange…


Tanti auguri a me e a tutte le persone a cui voglio bene.


martedì 1 settembre 2009

Ma oltre alla tua fidanzata c'è un altro cesso? Il mio lo stanno ristrutturando...

Stamattina mi sono svegliato avvertendo violenti movimenti tellurici. Tremava tutto. Una volta aperti entrambi gli occhi e assunta la tipica posizione dell'homo sapiens – quella dell’homo sexual, invece, è tutta un’altra storia e assomiglia di più a quella dell’homo impiegatus e, ahimè, ultimamente, a quella dell’homo rossonerus – mi sono imbattuto nella cruda verità: alcuni uomini prendevano a picconate il bagno di casa dei miei. Il sogno di una vita. Uomini pagati per demolire una casa. La nostra. Pensare che io lo avrei fatto gratis… Comunque, torno da Zurigo una settimana per cercare di rilassarmi e mi trovo in una casa messa sotto attacco. Ottimo. E questa è la buona notizia. Ora passiamo alla cattiva. Dialogo tra mia madre e il sottoscritto, sempre che si possa chiamare “dialogo” quella serie di vocali e consonanti sbiascicate che la mia bocca è in grado di emettere prima di mezzogiorno.

“Mhhhhhh?” Traduzione: “Mamma, non è che questi vengono a rompere i coglioni anche il fine settimana?”

“No, non dovrebbero”

“Uhhhhhh!” Traduzione: “Ah, meno male!”


Ore undici e quarantacinque del mattino, il mio cellulare vibra sulla scrivania: è quasi peggio delle picconate al bagno. Mia madre. Sono impegnato, però, in un’altra conversazione piena di “mhmh”, “ahah” e “yes”. Richiamo.


“Mamma, mi hai ahahmhmh?”. Quasi mezzogiorno, le mie frasi iniziano a essere molto più elaborate.

“Sì. Niente, volevo solo dirti che gli operai verranno a lavorare anche sabato

“A casa?”. Sì, lo so che non è una domanda molto intelligente, ma la speranza è l’ultima a morire. “Mi spiace… se vuoi farti ospitare da qualcuno…”


Ecco, come direbbe il mio amico Sandro, il pezzo è fatto. Magari vi fate anche due risate e, sappiatelo, ridere sulle disgrazie altrui non è affatto divertente. E se qualcuno vuole ospitarmi a casa sua venerdì notte, è il ben accetto.