lunedì 30 novembre 2009

Palo Alto

Sabato notte, le due circa. Domenica mattina, volendo essere precisini. Le due e un quarto di domenica mattina, se proprio vogliamo fare gli svizzeri – i secondi, purtroppo, non me li ricordo. Cammino in direzione dello Zukunft, dove mi attendono dotti studiosi di ermeneutica per discutere di “Gadamer e l’interpretazione del cuba libre”. L’inquietante e borghese silenzio della città viene interrotto bruscamente da urla di guerra. Mi volto e vedo, dall’altra parte del marciapiede, un gruppo di portatori sani di vacuum cerebris che, novelli cavalieri rosso crociati, si randellano con dei pali lunghi almeno un paio di metri. Sbraitano, tirano calci ai cestini, sghignazzano garruli e si randellano. Che siano anche loro invitati al convegno? La domanda è ragionevole, ma l’amara riflessione a cui giungo subito dopo lo è molto di più: la polizia, quando serve, non c’è mai. I miei neuroni non fanno nemmeno in tempo a riprendersi da questa fatica elaborativa che, da dietro l’angolo spunta, modello A-Team, il furgone della Polizei. Fanno il giro della piazza e si fermano proprio davanti ai facinorosi che, alla vista delle divise, assumono un contegno che Monsignor Della Casa avrebbe certamente potuto citare come esempio di perfetto galateo nel suo celebre libro. Non so come sia andata a finire, ma mi immagino qualcosa del genere:

Polizei: Cosa stavate facendo con quei pali?
Facinorosi, fischiettando con fare da gnorri,i pali “nascosti dietro la schiena: Quali pali?

Polizei: Quei pali!

Uno dei facinorosi: Ah, questi pali? Ci servivano per un esperimento filosofico. Io sono convinto che la realtà non esiste e che non siamo altro che cervelli dentro a una vasca. I miei amici erano convinti del contrario e hanno cercato di dimostrarmelo percuotendomi un palo sui denti. Non sono ancora convinto che tutto questo sia reale, ma nel dubbio ho già preso appuntamento col dentista.

Polizei: Multa! La realtà esiste così come i cantoni svizzeri, per quanto ne dica Woody Allen.

Non sto a giudicare. Credo ci siano modi migliori per divertirsi, e anche più intelligenti. D’altronde, anche scolarsi una bottiglia di rum e ballare fino alle otto del mattino non è un modo particolarmente intelligente di divertirsi. E sicuramente è molto più dispendioso. Perciò, ora vi saluto e vado su eBay a vedere se riesco a ordinare un palo di due metri. E una ballerina da metterci di fianco.

mercoledì 25 novembre 2009

Un post assolutamente inutile

Vorrei spezzare una lancia… in testa a chi ha inventato l’uso dell’“assolutamente sì”. Provate a farvi un giro su qualsiasi canale italiano e sentirete:

1. la conduttrice starnazzante, ispirata dalle musa: “assolutamente sì”
2. il politico moralista, esaltato da furor divino: “assolutamente sì”
3. il concorrente mono neurone del Grande Fratello, spinto dal fatto che sia l’unica parola che può pronunciare senza dover consultare il dizionario: “assolutamente sì”
4. Il calciatore a fine partita, ma solo perché glielo hanno suggerito: “assolutamente sì”
5. Topo Gigio: “assolutamente sì”, ma d’altronde, inutile pretendere di più da un topo che passa il giorno a lavarsi le mani per paura della suina

A volte muta. “Assolutamente no”. La sostanza, però, non cambia. Questo significa che non basta più essere d’accordo o meno con qualcuno o qualcosa, ma bisogna esserlo in modo assoluto. Un assolutismo poco illuminato, direi. Perciò, non si può più essere morti, ma bisogna esserlo assolutamente, perché correre il rischio di esserlo in parte sarebbe disdicevole. Per non parlare delle donne incinta. “Sei incinta?” “Assolutamente sì”, perché l’uso semplice del solo “sì” potrebbe causare nell’altro interlocutore l’idea di un essere incinta solo parziale. Il rischio è troppo grande. E al liceo? “R., oggi lei è impreparato. Tre. Anzi, assolutamente tre”. Dura, davvero.

Purtroppo, che ci volete fare, io sono ancora un democratico di vecchio stampo. Gli assolutismi non mi sono mai piaciuti. Perciò, a breve, chiederò un referendum per l’abrogazione dell “assolutamente sì” e “dell’assolutamente no”.

“Ma che, stai scherzando?”

Assolutamente sì.

venerdì 20 novembre 2009

Il portaborsone

L’avambraccio – che, a meno che non siate nati a Černobyl' nel 1986, è quell’arto compreso tra gomito e polso – è piegato e forma un perfetto angolo di novanta gradi con il braccio; il palmo della mano è rivolto verso l’alto. O verso il basso, a seconda. Il polso ciondola, inerte, senza vita. No, non ci troviamo in piazza del Duomo e su quell’avambraccio non è appollaiato uno stuolo di piccioni cagatori pronti a essere sfamati con briciole, noccioline e cassoeula. No, quello che vi trovate davanti è il tipico esemplare di femmina milanese. Dall’avambraccio, infatti, penzola in genere una griffatissima borsa capace di contenere un intero gurdaroba. Una volta si usava la spalla per trasportare borse, borsette e borsoni. La spalla era fatta apposta per quello. La spalla era fatta solo per quello. Le più ardimentose si azzardavano ad usare la mano. Coraggiose. Poi… poi arrivò lei. Paris Hilton, immortalata dai paparazzi. E scoppiò la moda. Ora, il problema è che la Hilton è un prodotto commerciale plastificato che serve a pubblicizzare la catena alberghiera omonima. Non è umana. Il suo avambraccio è bionico: potrebbe attaccarci un’altalena con sopra un elefante cavalcato da Mike Tyson alla guida di un Hummere per lei sarebbe lo stesso. Riderebbe e continuerebbe a scoparsi mezzo mondo. È finta. Ma le ragazza milanesi? Le vedi che riempono le palestre, tirano su pesi, fanno pilates e tutto per cosa? Per far penzolare il borsone dall’avambraccio. Le vedi che si trascinano per la città, cercando di mantenere l’equilibrio e di non essere sopraffatte dal borsone. È una lotta per la sopravvivenza della milanese dura e incazzosa, è la dura legge della griffe. Ma voi avete mai visto cosa c’è dentro a quelle Louis Vuitton ipertrofiche, a quelle pantagrueliche Prada, a quelle Marc Jacobs titaniche? Di tutto: libri, mazzi di chiavi, cani, lucidi da labbra,cellulari, sedie, barche a motori, il catalogo dell’Ikea. Pare addirittura che, una volta, una di queste borse sia stata utilizzata come rifugio da Saddam Hussein. Insomma, bisogna avere il fisico. A volte, quando il caso lo richiede, il borsone si trasforma in una borsetta mignon, quella per intenderci capace di ospitare solo la carta di credito, che tanto loro non usano mai. Con quella, cambiano aspetto: i lineamenti del volto si distendono, il fisico si rilassa, compare forse un sorriso. Scompare invece dalla faccia del compagno, che ha già capito come andrà la serata. Come sempre: e io pago!

Non ho nulla contro borse, borsette e borsono, di marca o no. Semplicemente, non mi piace questa moda degli ultimi anni alla Paris Hilton. La trovo demenziale. Ho descritto la milanese perché è la tipologia di ragazza che conosco meglio, ma la globalizzazione non risparmia nessuno: stamattina, qui a Zurich, sceso dall’autobus, mi sono accorto di avere davanti a me un plotone di ragazzine starnazzanti. Starnazzanti alla svizzera. Tutte con il borsone. Sull’avambraccio. La differenza? Be’, sono quasi sicuro che qui in Svizzera, questa cosa, sia regolata da una legge. Buon fine settimana a tutti!

lunedì 9 novembre 2009

Spegnetemi il dj


Tunz tunz tunz.
Sono le sette di mattina.

Bum bum bum.
Sono le sette e un quarto di mattina. E il dj? Continua a suonare.

Tunz tunz tunz.
Sono le sette e venti.

Bum bum bum.
Sono le sette e mezza. Il mio amico ha detto che si fa chiusura. E il dj? Il dj è uno stronzo, perché continua, imperterrito, a suonare. Ci saranno dieci persone in pista che ballano completamente fuori tempo e lui è ancora lì, cuffia in testa, braccio che mulina in aria, tunz tunz e bum bum.

Tunz tunz tunz.
Sono le otto di mattina.

Bum bum bum.
Sono le otto e mezza. E il dj? E’ nel mirino del mio fucile. Bang bang bang, ma è solo un sogno.

Tunz tunz tunz…
Sono le nove di mattina. M. e io ci lanciamo uno sguardo di intesa. O meglio, il mio è di disperazione, il suo di completa rassegnazione.
“E se andassimo?”. Lampi di genio che squarciano il buio di menti offuscate dalla stanchezza. Niente più bum bum bum. Si torna a casa.

Sonno breve, corto, troppo corto. L’orecchio destro sibila, mi fischia, cartellino rosso, espulso. Fuori grigio, freddo, pioggia, silenzio. Passano i tram. Qualche macchina. Qualche passante. Usciamo in cerca di cibo, attratti dagli odori, dai sapori. Dalla pancia vuota. Dalla fame chimica. Camminiamo, avvolti da strati di vestiti, le mani in tasca, mentre… ma, scusate, e il dj?

Il dj, mi sa tanto, è ancora lì. Che suona. Tunz tunz tunz. Bum bum bum.

lunedì 2 novembre 2009

Incontenibili... emozioni



La lettura di questo post è vietata a chi possiede un quozientedi intelligenza superiore a 75. Può avere effetti collaterali, prima dell’uso consultare un ottimo psichiatra.

Sabato sera: una stanza, qualche collega, poche sedie. E lei. La bottiglia di vodka. Era lì, che aspettava, tra un bicchiere di vino e l’altro. La sua vita è stata breve, ma intensa. Ha donato gioia, serenità, amore. Ci mancherà. Ci mancherà?

Non credo. Quando abbiamo lasciato l’appartamento erano le dieci di sera. Io sono rientrato a casa parecchie ore dopo. Forse erano le sei, forse le sette. Non mi ricordo. Quello che mi ricordo, però, è che abbiamo continuato a bere vodka. Tanta vodka. E tanta red bull. Ho qualche vuoto, però mi vedo camminare per la strada deserta in stato altamente confusionario discorrendo da solo ad alta voce, concatenando parole senza un filo logico in un monologo degno di citazione nel DSM. Pura follia, e lo intendo per davvero. Il peggio, però, doveva ancora succedere.

Riflesso condizionato. Avete presente Pavlov e il cane sbauscione, quello che produceva ettolitri di saliva al semplice suono di un campanello? Ecco, io, invece, al ritorno da una notte brava, non appena infilo la chiave nella serratura della porta, provo un impellente stimolo che mi spinge con forza verso la tazza del cesso e mi obbliga, il più velocemente possibile, a svuotare la vescica. Questo quando sono ancora in grado di controllarlo, lo stimolo. Domenica mattina, invece, è stato lui a prendere il sopravvento. Ho provato a slacciare i bottoni, ma non ne ho avuto il tempo. E così, due minuti dopo, ero sdraiato sul pavimento, uno straccio in mano, nel tentativo di lavare il pavimento. Visto che la posizione non era poi così scomoda, lì per terra, ci sono rimasto anche più del dovuto.

Ho avuto serate migliori. Risvegli migliori. Mi sono detto, come centinaia di altre volte, che questa era l’ultima volta. Ho provato a sentirmi in colpa, e ci sono anche riuscito, ma tanto so che non servirà a nulla, perché sono umano, troppo umano. Perché l’anima è una scintilla divina, ma il nostro corpo è fatto di polvere. Il mio più di vodka che di polvere, ma comunque.

Epilogo. Se volete una morale da tutto ciò, non l’avrete. Però, magari, la prossima volta esco con un pannolino.