martedì 21 dicembre 2010

Gang bangs of New York - parte terza


E una bottiglia di vino se ne è andata. Il funerale è stato molto commovente, soprattutto quando gli alcolisti, radunatisi intorno al vuoto, hanno versato fiumi di lacrime amare. Lacrime di amaro. Inconsolabile, alzo la mano nel tentativo di richiamare l’attenzione del cameriere e ordinarne subito un’altra. Le ragazze mettono in scena una labile pantomima che dovrebbe arrestare l’improvvisato baccanale newyorchese, ma niente, oramai, può impedire al rito propiziatorio di andare avanti, nemmeno il Divino Otelma. E infatti, eccola, la nuova bottiglia, che si staglia sul tavolino, arrogante, boriosa, gonfia di rubizzo nettare. Nettare che ci vuol poco a prosciugare. La siccità alcolica è un tragedia con un retrogusto di vendetta che, come una ghigliottina, si abbatte sulla nostra arsura mentale. I sintomi sono facilmente riconoscibili e toccano una vasta gamma di stati interiori che partono dall’euforia e approdano, fatalmente, al disgusto per se stessi, alla penitenza, alla mortificazione e alla visione dell’ultimo film di Massimo Boldi. Ci vuole fegato e io me lo sono giocato con gli ultimi anni di cuba libre. Per farla breve, dopo avere deliziato le mie compagne di viaggio con profondi discorsi sul nulla, ho dovuto assistere a un dramma esistenziale che mi ha ostruito momentaneamente le arterie, impedendo all’ossigeno di portare nutrimento al mio cervello. Una delle due ragazze, trasformatasi nella versione sbiadita di un cadavere, pare clinicamente prossima alla morte e, fattasi muta tutta d’un tratto, inizia a ciondolare come un bravo ebreo ultraortodosso, ma più che verso l’alto dei cieli, mi sembra aneli a una prosaica tazza del cesso. Cerco di reperire informazioni sulle sue condizioni fisiche, che peggiorano con il passare dei secondi.

“Come ti senti?”

Dalla sua bocca escono dei vagiti che a fatica riesco a interpretare.

“Devi andare in bagno?”

Dallo sbiascichio impenetrabile estrapolo qualcosa che assomiglia a un ‘no’. La prendo in parola ma temo già l’inevitabile che, purtroppo, si manifesta una decina di minuti più tardi quando, aprendomi un varco nella mischia di gente, mi libero della prima linea di difesa, supero l’estremo e, spalancando a calci la porta del bagno, faccio meta infilando la testa della moribonda nel water. Da un corpo così esile e grazioso esce un getto di una potenza devastante che, come un buco nero di Kerr, curva lo spazio tempo e lo fa roteare. La ragazza ormai è un torrente in piena e io non ho nemmeno il numero della protezione civile. Quando finalmente rientra negli argini, la riporto al tavolo su cui, poco dopo, si accascia. A distanza di pochi minuti, la scena si ripete uguale, solo che questa volta il bagno è occupato e devo direzionare l’idrante sul marciapiede. Intanto, la gente si accalca all’interno del locale in attesa di un tavolo. Così, il factotum della città, Akiva, omonimo del ben più celeberrimo rabbino di cui, sfortunatamente, ha ereditato solo il nome, dopo essersi sincerato in maniera totalmente ipocrita delle condizioni della ragazza, ci invita a portare i nostri culi semiti da un’altra parte.

“C’è gente che aspetta”

Commosso da tanta umanità, mi vengono i lucciconi agli occhi. Mi converto istantaneamente al buddismo zen e cerco di risolvere un koan che domanda che rumore faccia l’applauso di una mano sola stampata con violenza sulla faccia del simpatico Akiva. Illuminato, raggiungo la consapevolezza: Akiva è uno stronzo. Non ci resta che seguire il suggerimento. Sono sicuro che due passi e un po’ d’aria fresca gioveranno al fisico debilitato della nostra amica. Mi alzo, mi infilo il cappoto e quando ho già un piede fuori dalla porta, succede l’irriparabile: l’idrovora scarica tutto il suo contenuto, o quasi, su pavimento e parte del tavolo. Con Tubular Bells in sottofondo, capisco che ormai non mi rimane che fare affidamento sull’esperienza di un buon esorcista. Padre Mayii. Pietrificato dall’imbarazzo, chiedo umilmente scusa a tutti quelli che stanno mangiando, a quelli che agognavano il nostro posto e che invece ora lo stanno cedendo generosamente agli ultimi arrivati e, già che ci sono, chiedo scusa per quella volta che mi toccai mentre mangiavo dei pasticcini alla crema guardando un film di Walt Disney. Portiamo fuori l’indemoniata che prosegue il suo lavoro, non senza aver fatto prima girare completamente la testa un paio di volte intorno al suo collo. Lo so, faccio sempre questo effetto alle donne. Poi, tramortita, sviene su una panchina. A naso, dubito che riuscirà a prendere l’autobus per tornare a Newark, dove alloggia temporaneamente presso una zia. Dopo un giro di telefonate, riusciamo a prenotare una stanza in un albergo non lontano da Time Square. L’altra ragazza propone di prendere la metropolitana, idea che boccio immantinente. Notare l’immantinente.

“Credo sia meglio se fermiamo un taxi”

A volte riesco ancora a meravigliarmi di me stesso. Alziamo un braccio e come per magia un taxi, sbucato da non so dove, accosta. Ci infiliamo dentro, la sofferente per prima, io in mezzo e l’altra a chiudere la processione. Il guidatore, che non è un idiota, intuisce subito che sotto si cela un attacco sionista organizzato dal Mossad, così ci chiede educatamente di scendere:

“Non voglio che mi sporchiate il taxi”. Riconosco le sue ragioni, perché una vita fa, quando ero ancora uno sbarbato senza patente e diritto di voto, mi ritrovai in una selva oscura, ubriaco, e dopo di quella in un tassì con il tassista che domandava al mio amico se ce la facevo ad arrivare fino a casa e il mio amico che mi domandava se ce la facevo ad arrivare a casa e io che rispondevo sì sì sì e poi io che rifacevo gli interni della macchina e il tassista che non domandava più niente e il mio amico che non domandava più niente ma solo un lungo silenzio imbarazzato. Rispondo, ostentando anche una certa spavalderia:

“Non si preoccupi. Nel caso, l’avverto in anticipo”.

Non fa tempo neanche a ingranare la seconda che la pompa antincendio alla mia sinistra sta per rimettersi in moto. Il pericolo è alle porte, devo agire con prontezza:

“Mi scusi, le spiacerebbe accostare... immediatamente!”

Il problema è che non può farlo. Non in quel momento. In queste situazioni, però, il tempismo è tutto. Mentre rallenta e cerca di trovare uno spiazzo in cui fermarsi, spalanco la portiera di sinistra, facendo così defluire il flusso canalizzatore di questa DeLorean che presenta un’evidente perdita al serbatoio. Il taxista cerca di voltarsi ma noi lo distraiamo con frasi di circostanza, luoghi comuni e una supercazzola d’autore. Il viaggio fino all’albergo è lungo e tortuoso. Una volta scaricati, paghiamo il leggendario santo guidatore e entriamo nell’atrio dell’albergo. Non è ancora finita. La signorina, dopo essere stata salvata, curata e scorrazzata, si lamenta dell’eccessivo prezzo della camera. Mah! Parte immediato giro di telefonate e ne recuperiamo un’altra pochi metri più avanti e molti dollari indietro. Ci precipitiamo all’istante. Durante la fase di registrazione, firma e ammenicoli vari, faccio accomodare la regina del conato su una poltrona, in cui affonda e scompare. Uno dei due ragazzi alla reception, che sta osservando la scena, mi sorride e mi indica la porta del bagno. Sorrido a mia volta e gli faccio presente che dentro a quel corpo ormai non c’è più niente. Niente. Finalmente, recuperata la chiave, la portiamo in stanza, la infiliamo sotto le coperte, spegniamo la luce e buonanotte. Sono esausto. Accompagno al suo albergo l’altra ragazza. Lei mi guarda negli occhi. Io la guardo negli occhi. Lei mi guarda negli occhi. Io la guardo negli occhi. Lei mi guarda negli occhi e allora io penso ma che cosa avrà da guardarmi negli occhi, sono sempre attaccati sopra il mio naso. Mi accomiato e mi incammino verso il mio, di albergo. Mezz’ora di camminata. Una volta aperta la porta della stanza, mi affloscio sul letto, esanime. Prima di entrare in letargo, penso che, tutto sommato, avrebbe potuto anche andare peggio. Per esempio... per esempio... be’, forse no. Buona settimana a tutti!


p.s: continua. Forse...


Gang bangs of New York - parte seconda


Dovete sapere che Broadway è una via piuttosto lunga. 20 chilometri circa da un’estremità all’altra di Manhattan. Perciò, meglio sapere esattamente dove si deve andare. Esattamente. Dopo aver esaminato accuratamente la cartina, sollevo il capo e con gesto teatrale, puntando il dito in avanti, indico alle mie due ospiti la giusta direzione e le invito a seguirmi. Le sferzate del vento si fanno più violente ma io, tetragono ai colpi di ventura, non mi faccio intimidire.

“È lontano?”, mi domandano cortesemente.

“No, saranno al massimo dieci minuti a piedi”. Quindici, contando la brezza contraria. Quando di minuti, però, ne sono passati venti, sul volto delle due israeliane compare un’espressione di disappunto. Mi guardo intorno, controllo di nuovo la mappa e incito le compagne di viaggio a proseguire:

“Siamo quasi arrivati!”

Altri dieci minuti. Incomincio a notare alcune discrepanze tra ciò che è stato codificato su carta e le mie facoltà interpretative. Infatti, controllando i numeri civici, mi accorgo che abbiamo abbondantemente oltrepassato la meta designata. Di centocinquanta numeri. Tuttavia, a mia discolpa, posso dire che se la Niña, la Pinta e la Santa Maria fossero state attrezzate con dei navigatori satellitari, non avremmo mai potuto affondare le fauci in un doppio cheesburger ricoperto da strati di cipolla. Di tornare indietro non se ne parla neanche. Ci infiliamo in un negozio e chiediamo consiglio per dei locali in zona a una commessa che non avrà più di sedici anni. Lei, sfoderandoci un contagioso sorriso che mette in bella mostra il suo tecnologico apparecchio ortodontico, ce ne suggerisce uno proprio girato l’angolo. Così, ci ritroviamo al pian terreno di questo stabile, davanti a un bar deserto. E chiuso. Sull’ascensore è affissa una targa con alcuni nomi.

“Ah, guardate: penso che dobbiamo salire al quinto piano”. Per l’alcol mi trasformo in un segugio da tartufo. Le due seguono ciecamente il loro vate metropolitano, anche se incominciano a mostrarsi alquanto spazientite. Quando le porte dell’ascensore si aprono, davanti a noi appare una distesa infinita di abiti da donna ordinatamente appesi su delle grucce che occupano l’intero spazio del loft. Chissà dove sono le bottiglie di rum?

“Possiamo aiutarvi?”

Come tartarughe che allungano il collo fuori dal loro guscio per brucare un po’ di erba, ci sporgiamo dall’ascensore e vediamo che alla nostra sinistra, nascosti da un bancone in legno che gira loro intorno, sono seduti, davanti a dei computer, due ragazze e un ragazzo che ci guardano con aria interrogativa. Spieghiamo il motivo per cui ci troviamo lì. Sorridono e ci dicono che il bar è a pian terreno e che questo è un atelier. All’americana, etelia.

Quindi niente rum?

Tra una frase e l’altra, noto che il ragazzo soffre di un tic all’occhio sinistro. Una delle due israeliane si avvicina e mi sussurra all’orecchio: “Mi sa che gli piaci”. Quindi, non sono in un bar e il ragazzo non soffre di alcun tic. Niente è quello che sembra, tranne il fatto che io, in quel momento, sembro un idiota, anche se tutto fosse solo un sogno. Il sogno di un idiota.

Cerco di trarre a mio vantaggio la cosa. Schiero l’esercito di incisivi, canini, pre molari e molari e, con un’oratoria che nemmeno il Marco Antonio shakespeariano con il suo “Friends, Romans, countrymen, lend me your ears”, lo incito a sfoderare il sorriso imbattibile. Chiedo quindi al ragazzo se conosce un posto carino dove bere un bicchiere e magari mangiare pure un boccone. Lui, colpito da pulsioni sessuali innominabili, vacilla; poi, ripreso il controllo, armeggia con il computer e pochi secondi dopo mi porge non solo una pagina stampata con nome e indirizzo del locale – e quello in piccolo, in basso a destra, deve essere invece il suo numero di telefono –, ma anche il plastico del ristorante con tanto di Bruno Vespa allegato e un set di pentole smaltate che mi porto a casa a soli 49 dollari più spese di spedizione. Ringraziamo, salutiamo e ci rimettiamo in cammino. Altri dieci minuti di marcia. Il posto, che si nasconde dietro a una porta anonima, è davvero carino. E minuscolo: un bancone, cinque tavolini e un cesso. Con nostra fortuna, uno dei tavolini è libero e non importa se i posti a sedere sono solo due e me ne devo stare con metà culo fuori dal divanetto e le ginocchia incastrate sotto il tavolino. Ordiniamo. O meglio, ordino. Cozze alla marinara, un assaggino di questo, un assaggino di quello e una bottiglia di ottimo e costosissimo vino rosso italiano. Le israeliane cercano di impedirmi un tale sperpero di pecunia, timorose più che altro di dover pagare a loro volta il mutuo a fine cena, ma io, pervaso di spirito tafazziano, pronuncio una frase che alcuni critici hanno definito “Un epigramma che rappresenta con icasticità la vacuità esistenziale del suo autore”:

“Siete mie ospiti”.

La folla mi omaggia con un’ovazione e il coro greco raggiunge istantaneamente la catarsi. Non mi resta che accomiatarvi invitandovi a riflettere su un pensiero così profondo e rimandarvi alla prossima puntata, dove potrete leggere di possessioni diaboliche e tradimenti platonici. Buona settimana a tutti!


lunedì 22 novembre 2010

Un mercoledì da beoni

La domanda mi frullava nella scatola cranica da un po’.

“Fra, ci sono squali a Santa Cruz?”
Francesco: “Be’, sì. Comunque l’ultimo attacco risale a una decina di anni fa”

Ottimo. Non ho idea di cosa significhi, ma ottimo. Forse che i surfisti californiani non sono più gustosi come una volta. O forse che gli squali sentono la concorrenza di avvocati e banchieri e preferiscono tenere una linea defilata.

Francesco: “Nel caso, un bel cazzotto sul muso

Adesso mi sento più tranquillo. I sei anni di pugilato mi saranno serviti almeno a qualcosa. Se mi trovo faccia a faccia con un pescecane, montante sinistro, gancio destro. Poi arriva l’arbitro a contare ed è fatta. Anche i miei compagni di viaggio, ora che ne sono al corrente, si sentono più tranquilli. Infatti domandano cortesemente se sia possibile, nel caso, arenarsi sulla spiaggia e costruire delle piste per le biglie o dedicarsi, come ultima alternativa, al gioco dei racchettoni.

Squalo o no, non rinuncerei mai all’occasione di fare surf in California. Almeno una volta nella mia vita. E la giornata limpida, con i suoi 28 gradi, non è altro che il sigillo papale finale. Un 3 di novembre che non mi scorderò facilmente. Zurigo e il suo clima polare sono una reminiscenza lontana soffiata via dalla brezza oceanica.

Di questa cosa credo che Francesco me ne parli almeno da un anno.

“Quando vieni a trovarmi negli Stati Uniti, ti porto a fare surf”. La promessa è stata mantenuta. Così, alle 4 del pomeriggio, siamo tutti in macchina in direzione di Santa Cruz: Francesco alla guida, io di fianco e dietro L, S e D. Di solito non cito mai i nomi di chi appare nei miei post, ma in questo esprimo a Francesco l’eterna riconoscenza per la realizzazione di un sogno che mi porto dietro da quando vidi per la prima volta Un mercoledì da leoni. Abbordare delle ragazze californiane.

Traffico sostenuto ma scorrevole. Siamo tutti eccitati. Francesco, dopo aver appreso delle mie arti da killer professionista, gioca un’altra carta. Quella delle onde. Due metri di altezza. E mentre D, dietro, diventa sempre più pallido, ceruleo, una mozzarella con i capelli alla Renegade, io me ne impipo, perché il mio cerebro non riesce ad afferrare il concetto. E poi, cosa volete che siano due metri di onda per uno che è sopravvissuto a dieci edizioni del Grande Fratello? Proseguiamo sulla strada tra tornanti e curve paraboliche. Il tall latte di Blockbuster, una versione a stelle strisce del nostro cappuccino creata appositamente per soggiogare gli stomaci dilatati degli americani, scorre freneticamente nel mio duodeno e per alcuni istanti ho la sensazione di essermi trasformato in qualcosa di aereo, impalpabile. Tipo un peto, ma con più denti. Francesco, che in fondo all’animo è un buono, decide di alleviare la missione kamikaze impartendoci una breve lezione di nozioni basilari da apprendere prima di entrare in acqua con la tavola. Io faccio finta di prestare attenzione e intanto mi immagino mentre cavalco l’onda e le tre conigliette di Playboy, là, sulla spiaggia, che impazziscono per le mie acrobazie e i miei bicipiti scolpiti alzando e abbassando per intere nottate bicchieri pieni di cuba libre. Devo ricordarmi di chiamare il vecchio Hugh prima di tornare in Italia. Magari gli serve una mano. L, invece, gioca distrattamente con il cellulare mentre S, che dice di sapere l’italiano, mostra segni di assenso con il capo anche se ho il forte dubbio che non capisca assolutamente nulla. D è l’unico che sembra davvero interessato alla lezione. Un interesse suscitato dal terrore, tant’è che pochi minuti dopo, posseduto dallo spirito del Furio di Bianco, Rosso e Verdone, chiede in successione: temperatura dell’acqua, direzione e velocità del vento, percentuale di umidità, peso specifico della tavola e un amaro Lucano. Se ricordo bene. Arrivati a destinazione, andiamo alla ricerca di un posto che ci affitti l’attrezzatura necessaria. Il tizio del negozio, cappellino da baseball in testa ed espressione inebetita dalla salsedine e da troppi anni passati davanti allo specchio a schiacciarsi i brufoli, non ne vuole sapere di affittarci le tavole. Le onde sono troppo alte per dei principianti. D intanto è svenuto. Francesco gli spiega che non c’è nulla da temere perché, se Michael Phelps può continuare ad abbattere un record dietro l’altro, è solo grazie al fatto che io, ragazzo modesto e di animo nobile, preferisco starmene dietro le quinte e lasciarlo fare. Quindi, nel caso le cose si mettano male, io sono il loro Mitch Buchannon. Il tizio mi lancia un’occhiata. Forse non se la beve. Il tizio dice occhei occhei. Forse se l’è bevuta. Dieci minuti dopo siamo in spiaggia. Devo ammettere che infilarmi la muta non è stato semplice e la faccenda è stata complicata ulteriormente dal fatto che la prima volta me la sono messa all’incontrario, segno evidente di precoce demenza senile. Prima di entrare in acqua, ci sdraiamo sulle tavole e proviamo a saltarci sopra mantenendo la posizione di equilibrio. I tentativi sono alquanto pietosi e, visti da lontano, sembriamo quattro foche spiaggiate. E quelle che si vedono roteare sui nostri nasi, sì, sono proprio palle. Bando alle ciance, è ora di entrare in azione. Sappiate che quando vi dicono che l’acqua dell’Oceano è fredda, mentono. Infatti, è ghiacciata e i miei piedi subiscono istantaneamente un processo di criogenia, trasformandosi in due lapidi che penzolano inerti dalle gambe. Il surf del principiante non è altro che un’attesa spasmodica dell’onda, una pagaita continua con le braccia che fiacca anche i fisici più allenati e basta, perché scordatevi di cavalcare l’onda. Per la verità, e non chiedetemi come ci sia riuscito, io ce l’ho fatta. Sono riuscito a conquistare la tanto agognata posizione e mi sono sentito sollevare verso il cielo. Avevo già il dito puntato modello Giudizio universale. Una sensazione incredibile. Ricordo di aver pensato “Che figat...”, ma non sono riuscito nemmeno a concludere il pensiero – un vero peccato, ne sono certo, per l’élite intellettuale mondiale – che il muro di acqua, una valanga inarrestabile, mi ha sbattuto giù, centrifugato a trenta gradi e per quattro o cinque secondi sono stato in balia di questa incredibile forza della natura, incapace di intendere e di volere, di riconoscere la destra dalla sinistra, il sopra dal sotto e il PD dal PDL. Insomma, il tronista perfetto.

La giornata si è conclusa poi nel modo più degno, ovvero davanti a quattro birre, lo scrosciare lontano delle onde, sottofondo ideale di un imbrunire che ha quel sapore melanconico di un qualcosa che finisce e che, ahimè, non tornerà mai più, perché sì, lo diceva già Eraclito, tutto, inevitabilmente, scorre. Come la nostra vita. Grazie Francesco perché, a 34 anni, e lo scrivo senza retorica, ho capito di nuovo cosa vuol dire essere un bambino – ecco perché il mio pene, uscito dall’acqua, era così minuscolo... Buona settimana a tutti!

lunedì 15 novembre 2010

Californicazione

Come è possibile che alle nove e mezza di un assolato e insolitamente mite sabato mattino zurighese il supermercato sia già un crocevia di persone? Non ho una risposta. Invece, ho un’altra domanda, ed è la vostra: come è possibile che alle nove e mezza di un assolato e insolitamente mite sabato mattino zurighese tu sia in un supermercato a fare la spesa? Bene, la risposta ce l’ho. Jet lag. Concedetemi un po’ della vostra attenzione e vi spiego come sono andate le cose.

Tutto ha inizio il 30 ottobre, quando dal finestrino dell’aereo Zurigo diventa sempre più piccola fino a diventare una mappa in scala. Sono certo che quel puntino in fondo è lo Zukunft. Mi attendono 12 ore di viaggio. Questo è il tempo che occorre per percorrere la migliaia di chilometri che mi separano da San Francisco. Come avrete capito, a meno che sulla vostra zucca non sia atterrata un’incudine di duecento chili, trasformandovi istantaneamente in una versione ebete di un euscherichia coli, sono diretto negli Stati Uniti. Quelli d’America. La mia prima volta nella terra dei padri pellegrini. Dire che sono emozionato non rende l’idea. Mi attende una settimana in California per quello che, sembra, trattasi di lavoro, e una di vacanza in quella città di cui, bene o male, so già tutto, essendo cresciuto con i film di Woody Allen. Ma andiamo con ordine.

Attenzione, questo post può nuocere gravemente alla vostra salute mentale.

Per i miei genitori, se mai sventuratamente dovessero imbattarsi in questo scritto: tutto quello che scriverò è privo di ogni fondamenta. C’è un nano antisemita che sotto la minaccia di una visione forzata di un intero anno di Uomini e donne mi costringe a scrivere fesserie contro la mia volontà. Amen.

Il benvenuto

Sulla strada per San Jose. Io e il mio collega D. Alla Hertz, dopo aver esordito con “Ci piace il football americano!” commentando tutte le bandiere esposte con scritto “Go Giants”, notoriamente una squadra di baseball, ci rifilano un navigatore ubriaco che funziona in differita. Lo stesso di Cristoforo Colombo. Arriviamo all’hotel verso le sette di sera, solo dopo aver circumnavigato le Indie. Lasciati i bagagli in stanza, andiamo a cena e decidiamo, per evitare di svegliarci nel mezzo del cammin di nostra vita con gli occhi sbarrati, fissi sul soffitto, di fare serata. Così, finito un caffè decisamente allungato, ci infiliamo nel locale di fianco per vivere l’esperienza di una vera festa di Halloween americana. Purtroppo non abbiamo nessuna maschera, ma sembriamo due zombie quindi il problema non si pone. Mentre sorseggio faticosamente il mio coca e rum, Cat Woman e Britney Spears in versione porno si accomodano sul divanetto davanti a me. Cat woman, dotata di un paio di protuberanze che non passano inosservate, decide che io sono l’uomo della sua vita e tenta il primo approccio con un semplice e sempre valido “Hello”. Io, narcotizzato dal viaggio e dal fuso orario, tento un accenno di saluto con il capo e non spiccico parola. Ho visto dei benjamin ficus fare figure migliori. Cat woman decide che non sono più l’uomo della sua vita e va a fare le fusa a Batman. D mi guarda esterefatto e pure Robin. Capisco la delusione cocente e realizzo che se voglio vincere la narcolessia e avere un minimo di interazione mi serve qualcosa di più forte: una sniffata di calzini e una vodka red bull. Così, qualche bicchiere più tardi, ci trasferiamo nel fighetto bar dell’hotel, ritrovo di tira tardi della zona, tediosi uomini d’affari in giacca e cravatta e ragazze in tacco 15 tirate a lucido. Con noi, due pupe che ci siamo trascinati dietro. La pupa dominante, colpita da tempeste ormonali, mi fa capire che sarebbe interessata a vedere la mia collezione di gesuiti euclidei. Investito da un improvviso attacco berkeleyano, titubo e perdo fiducia nell’esistenza della materia. Lei, seguage della scuola del dottor Samuel Johnson, si avvicina e mi sussurra “Solo sesso, però”, confutando così il mio universo ideale.

Per farla breve, ho dovuto sacrificarmi. L’integrazione impone l’accetazione di usi e costumi locali e a me piace integrarmi. E il giorno dopo, più che altro disintegrato, camminavo su e giù per le strade di San Francisco. Distrutto. La strategia per vincere il jet lag è stata un fallimento, ma almeno i miei sbadigli hanno assunto un significato del tutto inaspettato. Bene, direi che per oggi può bastare. I prossimi post saranno tutti dedicati alle mie due settimane di viaggio. Sono le tre del mattino. Proverò andare a dormire. Probabilmente non ci riuscirò. E i miei sbadigli, domani, saranno i soliti sbadigli di un monotono lunedì come tanti altri. Auguro a voi una buona settimana e a una persona a cui voglio molto bene una guarigione completa, sperando che presto possa tornare a casa e vedere la cartolina che, questa volta sì, mi sono ricordato di spedire. Ciao.


lunedì 25 ottobre 2010

Ciao, sono Tina, Nico Tina e brucio di passione ovvero la vita a Zurigo, l'amore e le vacche di Hegel


Ah, il mio ficino rumorossso!”

Questa è l’accoglienza che mi riserva, con quell’inconfondibile accento così difficile da riprodurre sulla carta e che mi fa sempre sbellicare dalle risate – non di meno, un italiano perfetto che mi fa vergognare del mio tedesco sbiascicato -, il mio vicino di casa, quello che abita sotto di me e che si innervosisce quando suono il piano con le cuffie e, percuotendo i tasti, provoco delle vibrazioni che si propagano nel parquet, si insinuano nel soffitto sottostante e, per la nota legge della palla di neve che rotola giù per il pendio nevoso, giungono alle sue orecchie così amplificate da poter essere scambiate per l’intera sezione ritmica di un concerto dei Sepultura. Abbozzo un sorriso e mi infilo in bocca una tartina enorme che mi tiene occupato per qualche minuto. La festa, però, è degli altri vicini, quelli della porta accanto che, dopo una lunga permanenza di 7 anni, hanno deciso di trasferirisi ad Argau, o qualcosa del genere, allegro paesotto di 600 anime a una mezz’ora di treno da Zurigo. Lui, E., irlandese di razza, non pare tuttavia particolarmente eccitato di trascorrere il resto della sua vita in un posto in cui sanno quante volti caghi durante il giorno e si consola scolando una birra dietro l’altra - il fatto che io volessi presentarmi con un paio di birre come gesto di ospitalità denota chiaramente, a parte le dotte nozioni apprese dai Padani con fazzoletto verde, la mia ignoranza sulla natura della stirpe celtica: nel balcone sono stipate casse su casse di birra. Sarebbero troppe anche per Argau. K e io non abbiamo niente per cui consolarci ma decidiamo di tenergli compagnia in questa staffetta alcolica e nicotinica che si protrae per alcune ore. Vi riassumo brevemente gli accadimenti per evitare di richiedere alla vostra attenzione, catalizzata ogni due minuti dagli status di Facebook, uno sforzo sovraumano. Ecco cosa è successo in quell’arco temporale compreso tra le otto di sera e mezzanotte circa:


  1. Bevuto una discreta quantità di birra

  2. Fumato una discreta quantità di sigarette

  3. Parlato per la prima volta con una coppia di svizzeri. Svizzeri veri. Non ho ancora scoperto il senso della vita, ma ora sicuramente so cosa non è

  4. Individuato la ragazza più carina ma, a parte chiacchiere di circostanza e grazie ai punti 1 e 2 che hanno il potere di rendere i tuoi discorsi una somma sgangherata di frasi senza senso, la cosa è finita lì

  5. Congelato. Letteralmente. Nessuno mi aveva avvertito che l’inverno a Zurigo iniziava a metà ottobre. Dopo quattro ore passate sul balcone in maglietta e gilet il dottore ha constato il rigor mortis. Qualcuno a un certo punto deve avermi appeso addosso anche la giacca

Verso mezzanotte e mezza ci tocca salutare la ciurma perchè per altri mari dobbiamo navigare. Infatti, a dieci minuti di tram, in quel posto esotico chiamato Valman, ci aspetta L di L&L. E anche l’altro. Mandate a letto i bambini.

Il locale è già gremito. Ordiniamo due cuba libre. Il tempo di servircelo ed ecco comparire dal nulla, in successione:




  1. L di L&L

  2. L di L&L, l’altro

  3. M, quello del mal di piedi, in compagnia di due ragazze. La prima è l’amore della sua vita. O almeno, così vorrebbe lei, giovane ma neanche tanto sciampista di Schaffausen. Ora si dice assistente parrucchiere, ma la sostanza non cambia: me la immagino, lì, sotto le cascate, mentre la forza delle acque si abbatte sulla chioma della cliente portando via tutta quella meravigliosa schiuma, duro frutto delle sue laboriose mani. La natura è crudele. L’altra, l’amica, uscita dal pennello di un cattivo pittore, è un pessimo ritratto di ragazza. Qualcuno potrebbe definirla una cozza, ma ho troppo rispetto per le cozze per azzardarmi a paragoni così arditi. In compenso è simpatica. Se tace.


Il numero di bicchieri e brindisi si moltiplica vorticosamente, mentre le nostre menti, piano piano, si offuscano. Prima che le tenebre calino sulle mie sinapsi e sopraggiunga la notte nera in cui tutte le vacche sono nere – e devo dire che mai citazione fu più azzeccata di questa –, decido di esibirmi in una girellite improvvisata. Individuata la preda, allungo il braccio e cerco di afferrarle il metacarpo. Lei sfugge alla presa, schifata. E in quel momento succede qualcosa che non mi sarei mai immaginato: la fanciulla, sotto gli influssi di una bizzarra maieutica, compie due giri su se stessa. Sto assistendo al primo caso di girellite elettrolitica, ovvero al processo mediante il quale l’elettricità contenuta nel mio corpo si abbatte su quello più armonioso della cavia che, una volto scomposto nei suoi elementi costitutivi, produce una reazione chimica che culmina in una girellite primordiale e autoreferenziale. Per un istante mi sento come Dio davanti a un balbuziente Mosè elvetico: “Io sono il Signore, tuo Dio, che ti fece uscire dalla terra di Valman, dalla casa degli schiavi. Non avrai altro Dio all'infuori di me e non pronuncerai mai invano la parola ‘Assolutamente sì’”. Non appena mi riprendo dallo stato di onnipotenza, mi accorgo di essere ubriaco ma non ci faccio più di tanto caso, la normalità mi fa sbadigliare. E giunge l'ora che volge il disio ai navicanti e 'ntenerisce il core. Tutti allo Zukufnt tranne le due signorine – di cui ce ne infischiami, non avendo nessun ruolo in questo post – che preferiscono l’apparire all’essere (ubriachi) e si involano per lidi più convenzionali e noiosamente svizzeri. Prima di salire in taxi, spettacolo improvvisato di L di L&L – lui o l’altro? –che, con una tovaglia rubata da non si sa dove, si lancia in un’improbabile imitazione di Antonio Rezza. Una volta tributatogli i giusti applausi, ci facciamo portare a Helvetia Platz perché i portafogli necessitano di rifornimento. Fortuna che ho sempre dietro i passamontagna. Intermezzo giocoso con sottofondo musicale raveliano Jeaux d’eau: io che innaffio L di L&L alla fontana e lui che, pochi minuti dopo, ispirato da una musa non particolarmente sagace, se ne va in giro trasportando un carrello colmo di bottiglie di plastiche pronte per il riciclo. E io che pensavo che in Svizzera si riciclasse solo il denaro. Mancano pochi metri alla nostra Mecca dei divertimenti, ma le sorprese non sono ancora finite: L di L&L, colpito da Boltite fulminante e senza neanche aspettare lo start, scatta e cercando di battere il record mondiale dei 100 metri entra nel Kiosk – versione elvetica dei nostri tabaccai – arriva al bancone, si ferma, si volta ed esce camminando con nonchalance. La persona alla cassa, pietrificata, mostra un’espressione di stupore misto a terrore che scomparirà dal suo volto solo dopo una settimana. È ancora lì a chiedersi il significato della misteriosa apparizione: un cliente insoddisfatto? Un rapinatore estroverso? Un folle che protesta contro il caro prezzo delle sigarette? E mentre il dubbio attanaglia la mente del negoziante, noi siamo al bar dello Zukunft impegnati in una serie massimale di cuba libre. Intanto qualcuno fa conoscenza con un gruppetto di sudamericane discretamente carine. Una di loro cerca di farsi offrire da bere da K che, con garbato tatto, la manda a quel paese. Prego, in fondo a destra. L di L&L, non so se l’uno o l’altro, coglie l’occasione al volo e, con ardore italico, ordina sei shot di Jagermaister. Io, nel frattempo, vago senza meta per la pista e mi fermo solo quando mi convinco di poter essere in grado di coordinare i miei movimenti con il ritmo della musica elettronica sparata a tutto volume . Convinzione, ahimè, che si infrange subito alla prova dei fatti. Il risultato è più o meno quello che si osserva su un essere umano colpito in pieno da un fulmine. Le ore passano, i miei sensi si ottundono. Una ragazza mi si avvicina.

“Esco a fumare una sigaretta!”

Le do la mia approvazione e le consiglio anche di non esagerare perché è risaputo che fumare fa male. Essendo oramai un infuso di alcol, nemmeno mi domando come mai una ragazza che non ho mai visto nella mia vita senta il bisogno di comunicarmi la sua impellente necessità di aspirare nicotina. Si vede che chiedere il nome non si usa più. Quando torna, si lancia in una sfrenata lap dance di cui io sono il palo. Qualcosa, dentro di me, inizia ad animarsi e non sono i neuroni. Sorrido, ebete, in preda a fantasie sessuali indicibili. La realtà prende nuovamente il sopravvento: per quanto possa desiderare un lieto fine dove tutti vivono felici e contenti almeno per un paio d’ore, questo potrà avverarsi solo nel migliore dei mondi possibili, perché in questo, purtroppo, ho più rum che anima e il mio encefalogramma sessuale indica la cessazione di ogni attività. Sconsolato, mi allontano e, come i leoni quando intuiscono che il loro momento è giunto, raggiungo l’angolo più nascosto del locale e, faccia al muro, esaurisco le ultime energie in danze tribali dal profondo quanto oscuro significato rituale. Non ho più molti ricordi se non quello di una pista vuota, le luci accese, silenzio. Qualcosa dentro di me mi dice che è ora di tornare a casa.

Il giorno dopo, ancora a letto, in una stanza in penombra, fisso il soffitto e ripenso alle occasioni mancate della mia vita. A cosa sarebbe potuto succedere se quella volta avessi agito in modo diverso. Al bivio. E poi, dal nulla, ecco uscire fuori la voce di Enrico Ruggeri che mi dice “Per me è un no”. Eh no, Enrico, dai, hai sbagliato programma! Buona settimana a tutti!

lunedì 18 ottobre 2010

Un fastidioso silenzio

Mi piace il silenzio. Come il tempo, anche il silenzio, sopraffatto dalla cacofonia del quotidiano, è diventato ormai un lusso: le nostre città sono diventate un vociare continuo, una fucina di decibel che non si ferma mai. E se questo già non bastasse, ci si sono messi pure quei maledetti quattro corvacci grassi come maiali – ma come fanno a volare?!! – che con il loro funereo ‘cra cra cra’ ammorbano quel momento della giornata in cui i miei parametri vitali rasentano lo zero e necessitano di un’assoluta assenza di rumore che altro non fa che eccitare i miei istinti omicidi: il risveglio. ‘Cra cra cra!’. ‘Cra cra cra!’ ‘Cra cra cra!’. Ogni volta, con gli occhi ancora chiusi a doppia mandata, incollati, muovo la mano nella vana ricerca di un fucile a pallettoni. Una bomba a mano. Qualsiasi cosa possa servirmi a eliminare i tenori piumati da un mondo crudele e indifferente. Ore dopo, rinsavito, mi vergogno amaramente di pensieri così abominevoli. Le armi da fuoco lasciamole ai soldati, ai poliziotti e ai miei amici che così sanno farmi capire quando il tempo concessomi per le battute è terminato. Meglio una bella fionda: d’altronde, io mi chiamo David e vi assicuro che quei panzerotti alati sono davvero enormi, altro che Goliath. Perciò, mi rimane un solo posto dove poter godere appieno del silenzio e rigenerare il mio logorato spirito. Lo spogliatoio della palestra. Oltre, c’è solo il cimitero. Perché qui, a Zurigo, il boudoir è un tempio sacro. Appena varcata la soglia, te ne stai lì, immobile, colpito dalla ieraticità del luogo. Calma. Quiete. Pace. Tutto così lontano dall’atmosfera che si respira in Italia: gente che urla, canta, battute e battutacce e i discorsi che vertono tutti sempre sullo stesso argomento tanto caro al maschio italico medio. E non sto parlando del calcio. A Zurigo, invece, non vola una mosca e se volasse, verrebbe sicuramente multata per disturbo della quiete pubblica. Qui, la gente è muta. Bisbiglia al massimo. Si sente solo lo scrosciare dell’acqua delle docce, ricordo forse delle cascate di Schaffhausen. Ammetto che la cosa, a volte, possa inquietare. Mi guardo intorno e scruto queste salme in pantaloncini e scarpe di ginnastica alla ricerca di una risposta. La domanda, però, mi sfugge. Quando poi sono scosso dai tremiti dell’horror vacui, fischietto garrulo, provocando violente tempeste emozionali tenute a bada solo dalla proverbiale educazione elvetica. Non che le cose cambino particolarmente nello spogliatoio della piscina, quella di Oerlikon, la più importante della città, dove si svolgono le gare ufficial, dove si possono incrociare i nuotatori della nazionale, dove tutti i vostri sogni possono diventare realtà e allora, forza, gente, chiamate, alle prime 100 telefonate in omaggio il manuale su come diventare una testa di cazzo svizzera sniffando raclette per tre giorni. A Oerlikon si allenano molte squadre agonistiche e master. Finita la tortura in acqua, quando vedi queste ciurme di baldi giovanotti uscire con la lingua di fuori, il fiatone e il tipico colorito violaceo che segnala esplosione imminente, pensi, bene, adesso inizia il divertimento. Invece, niente. Sì, c’è un vociare più sostenuto e scappa pure qualche risata, ma il livello dei decibel è ancora risibile. Niente a che fare con quello che succede a Milano, quelle rare volte che riesco ad allenarmi con la mia cara, affezionata squadra. Non ci sono parole per descrivere l’uragano sensoriale che si abbatte in quella zona compresa tra docce e armadietti. Posso solo dire che, se in quel momento qualcuno di voi aprisse la porta per dare una sbirciata, perderebbe istantaneamente fiducia nel genere umano e si ritirerebbe nella più sperduta delle grotte, in un eterno e funereo silenzio. E siamo così tornati da dove eravamo partiti, in questo eterno ritorno dell’uguale, che, come direbbe Nietzsche, mi ha rotto l’escatologico. Mi piace il silenzio. Però, fatelo almeno un urlo in quel cazzo di spogliatoio, zombie! Buona silenziosa settimana a tutti.

lunedì 11 ottobre 2010

L'insostenibile leggerezza dell'etere

Lo sappiamo, sottile è la linea che separa la vita dalla morte. Un colpo di sonno mentre si guida a fari spenti nella notte. Flirtare con la ragazza di quell’australopithecus gigantesco che si esprime solo a monosillabi e a colpi di mazza ferrata. Citofonare la domenica mattina per portare la parola di Geova. La nostra esistenza è appesa a un filo e se il filo si spezza, ci sfracelliamo al suolo e dopo non potremo mai più pronunciare parole come supercalifragilistichespiralidoso, sternocledomastoideo e precipitevolissimevolmente. Ne sa qualcosa una donna di Avion, piccolo paese del nord della Francia, che qualche giorno fa... Ma andiamo con ordine. Davanti al computer, do un’occhiata alla versione online francese di 20 minuten. Ci tengo a essere informato sul nuovo calendario sexy delle contadine svizzere e ai morbosi casi di cronaca nera che appestano il paese. Infatti il giornale è lungo due righe e mezzo. Comunque, la mia attenzione è fagocitata da un titolo che si insinua nel mio labile cervello come un imperativo categorico. Devo leggere l’articolo. Siamo ad Avion, che Wikipedia dice trattarsi di “un comune francese di 18.298 abitanti situato nel dipartimento del Passo di Calais nella regione del Nord-Passo di Calais.”. E basta. Non deve essere molto eccitante vivere ad Avion: qualche voilà, un po’ di parbleu e tutti a seguire Second chance su TF1. E quando l’oscurità cala su Avion, be’, non succede niente. Si va a letto. E infatti il dramma di cui voglio raccontarvi si svolge tutto all’interno di una camera da letto. Lui e lei. Lui me lo immagino sulla cinquantina, un pancione irsuto dedito a quella nobile arte che è lo sfregamento delle gonadi. Utilizzare però luoghi comuni per agire sull’immaginario collettivo è tristemente banale. Diciamo che lui è un intellettuale che, vestito di tutto punto con il suo pigiama di seta se ne sta da una decina di minuti comodamente sdraiato a leggere la proustiana À la recherche du temps perdu. Ha quasi finito una frase. Lei, accanto, cerca di dormire sfinita dopo una intensa giornata passata a studiare L’arte della fuga di Bach. Una coppia come tante altre. Forse nottambula visto che 20 minuten riferisce che erano circa le 5 del mattino, ma il post è il mio e ci scrivo quello che voglio. All’improvviso, la pace coniugale viene minata da un evento a dir poco terribile. L’uomo emette una flatulenza dall’odore particolarmente nauseante. In gergo tecnico, una loffa: silenziosa e micidiale. Non resta che la fuga. Ora, io ritengo che chi produce gas di tale nocività senza almeno avvertire e concedere ai presenti una possibilità di sopravvivenza dovrebbe essere perseguibile penalmente. Ve lo dice uno che sul volo di ritorno da Istanbul, lo scorso capodanno, fu sottoposto dal vicino areofagitico a questa tortura per tutta la durata del viaggio. Quattro ore di allucinazioni visouditive. Perciò, ben capiamo la moglie che, asfissiata, fa quello che tutti noi avremmo fatto: si allontana dal luogo mefitico e spalanca la finestra, prendendo grandi boccate di aria e decontaminando l’area. Il problema è che il marito non la prende affatto bene. Anzi, la prende come un’offesa. Forse era la loffa perfetta. Non essendo riuscito a eliminare la consorte con questa tecnica fatale, decide di portare avanti l’intento criminale strangolandola direttamente. Ma non abbastanza. Insomma, tragedia sfiorata ma evitata e, come scriveva Shakespeare, tutto è bene quel che finisce bene. La notizia mi ha fatto tornare in mente, e non chiedetemi perché, il tizio che l’altra sera, nello spogliatoio della piscina, inondava le sue ascelle con uno tsunami di deodorante. Niente di male, ci mancherebbe, vorrei solo capire perché lo facesse prima di entrare in acqua. Buona settimana a tutti!

p.s: per chi non lo sapesse, Avion, in francese, significa aereo. Piuttosto azzeccato con il protagonista di questo post. Post anche loro, in fondo, aerei, eterei, impalpabili e che svaniscono alla prima finestra spalancata.

Ora chiamatelo Lord-enzo (parte seconda)

Riprendiamo da dove avevo lasciato. Il grande buco nero dell’Amber, parte seconda. Dicono che avremmo continuato a bere, infischiandocene della leggi della fisiologia umana che vorrebbero che, parlando di liquidi, nel corpo umano la quantità di sangue fosse superiore a quella alcolica. Eppure testimoni oculari giurano averci visto fare avanti e indietro al bancone reggendo bicchieri che di certo non contenevano solo coca cola. Dicono che avremmo intrattenuto amabili conversazioni con simpatiche signorine. Dicono. Se solo mi ricordassi qualcosa. Dicono che all’entrata dello Zukuft avremmo convinto altrettante simpatiche signorine che se ne stavano andando a casa a tornare in pista e a ballare insiema a noi. Dicono che queste signorine fossero molto più che carine del normale e che dopo un po’, visto che noi viaggiavamo sullo Shuttle in direzione di galassie sconosciute, si siano arrese davanti all’evidenza e abbiano imboccato la via d’uscita. Dicono che, anche lì, i brindisi non siano mancati. Dicono un sacco di cose, ma la verità è che davvero io non riesco a ricordarmi niente. Non so come e quando sia tornato a casa. So solo che sono uscito dal coma verso le due, quando mi sono svegliato con la testa che andava in frantumi e, dopo aver vegetato per più di un’ora, ho dovuto impiegarne altre due a zonzo per Zurigo per farmi passare quella sensazione di morte che mi attanagliava la mente e lo stomaco. Finito? Niente affatto, contando che questa è l’ultima serata ufficiale di L di L&L da italiano a Zurigo con permesso B. L’appuntamento è verso le 11 al Talacker, una specie di bar radical chic dove potersi bere caraffe da un litro di birra e osservare fauna locale che non balla al suono della musica messa su dal DJ spaparanzato sui divanetti. Grazie al concerto degli U2, che ha intasato tutti i tram trasformandoli in saune su rotaie, mi devo fare tutta la strada a piedi. Prendo il microfono, ringrazio i fan e impreco per i restanti quindici minuti. Al Talacker si ricompatta il gruppo. K, tornatosene a Milano – l’ho incrociato nel pomeriggio che, in condizioni disperate, scendeva le scale e pregava Dio di concedergli la forza necessaria per arrivare in stazione –, viene sostituito da M, amico di L di L&L, l’altro, in trasferta nella cittadina svizzera per questioni legate al cuore. O a qualcosa situato più in basso. L di L&L mette subito le mani avanti:


“Ragazzi, io massimo a mezzanotte e mezza vado a casa”

Risata generale.

“No, dico sul serio”

Noi tre, in coro greco: “Scusa?!”

“Devo ancora finire di fare la valigia”

“E poi?”

“E poi devo mettere a posto l’appartamento, sistemare alcune cose burocratiche, salvare il mondo e calibrare i miei poteri di super eroe”

Un po’ vago. Noi annuiamo e cinque minuti dopo siamo seduti di fianco all’entrata con una caraffa da un litro di birra davanti a noi. Si abbassano le luci, inizia lo spettacolo. La giuria italica, grazie alla tecnologia moderna – il cellulare – giudica le graziose e meno fanciulle che ci passano accanto. 5. 7+. 3, non ci siamo. 8/9, ovazione generale. Neanche ce ne accorgiamo e stiamo finendo la seconda caraffa. Io mi dimeno al ritmo della musica, almeno come può dimenarsi qualcuno sprofondato in una poltrona. Sono un criceto sulla sua ruota. Gli altri tre apprezzano e vengono contagiati dalle mie movenze epilettiche. Qualche signorina si fa trasportare dall’entusiasmo – il nostro – e abbozza tiepidi sorrisi, mentre il gruppo di sfingi svizzere osservano la scena e, come al solito, se ne rimangono immobili, mummificate, confidando nel loro enigmatico carisma. Senza speranze. Tempo di cambiare aria. Valman? E Valman sia. L di L&L non ha nulla da obiettare e, pur essendo già ora di rincasare, ci concede ancora l’onore della sua presenza, sacrificando così tempo prezioso per piegare mutande e calzettoni. Ma si sa, la vita non è un parco giochi e richiede sacrificio. Così, andiamo a tastare il polso della situazione. Quello che tasto io e che appartiene a una biondina in pantaloni di pelle che faccio turbinare verticosamente non è affatto male. La donzelletta vorrebbe approfondire l’argomento ma la girellite è effimera e non concede deroghe a nessuno. Magari più tardi, prima dobbiamo esaurire le scorte di alcolici e applicare la girellite con metodo chirurgico fino a quando non incomincia a girare anche il locale. Ci buttiamo nella mischia e apriamo le danze. Una nipponica esteticamente interessante si divide tra due baldi giovanotti e, infilatasi in testa un casco da speleologo, ne esplora le cavità orali. Squinzie della Zurigo bene ammiccano e sculettano, esacerbando il mio lato più prosaico: se potessi, mi metterei a quattro zampe e inizierei a ululare alla luna. Non è detto che non l’abbia fatto. Quando la tensione diventa insostenibile, bisogna prendere una decisione radicale. Zukunft. L di L&L, però, non ci sta.

“Vado a casa”

Fosse una persona come tutte le altre, potremmo anche prenderlo in parola, ma con lui la Lorenzata è dietro l’angolo. L’angolo dove il taxi ci lascia, tutti e quattro, e da dove ci incamminiamo per raggiungere il nostro santuario. L’ingresso ce lo fanno sudare un po’, ma tanto sudiamo alcol e ci fa solo che bene. Veniamo accolti al ritmo di musica balcanica che ci accompagnerà per tutta la notte. Impossibile non farsi trascinare. Trenta minuti di danze di quell’intensità – che io ballo, ignorandone il motivo, a metà tra il klezmer e lo ska – mi riducono a una spugna imbevuta di sudore. Fortuna che al bancone è possibile fare rifornimeto di energetici. Altri trenta minuti e siamo costretti a prenderci una pausa. Noi, alla salute, ci teniamo. Saliamo al fumatoio dello Zukunft, dove possiamo ordinare qualche bicchierino. La cameriera ci guarda stupita, visto che non riesce a capire dove sia l’altra settantina di persone con cui, evidentemente, dobbiamo essere usciti stasera. Mistero. Ne discuteranno nella prossima puntata di Voyager. Si abbassano le luci, inizia lo spettacolo. Il secondo. M, che avevamo perso, torna tra noi, ma è ufficialmente perso e, incapace ormai di intendere e volere, tiene in mano il bicchiere di coca e rum solo per darsi delle arie. Distrutto, sussurra un “Ho male ai piedi”. Ho male ai piedi?! Ce ne facciamo una ragione e ricominciamo con la diffusione del virus della girellite: scoliamo l’imbevibile e facciamo l’impensabile. Per uno svizzero. Esauriti i numeri circensi, scendiamo di nuovo in pista. Appena varcata la soglia, mi trovo davanti a un sinuoso essere dalla lunga chioma bionda e che, lo dico per evitare fraintendimenti, non è K, a quest’ora già da un pezzo a letto nel milanese. L’occasione è ghiotta, l’agguanto e la faccio subito ruotare intorno al suo asse, provocandole una deviazione dell’orbita ormonale che sortisce un effetto devastante. Dopo averla introdotta agli L&L, che le riservano la stessa terapia d’urto, l’empatica figliola, posseduta da spiriti demoniaci, mi rapisce per un’oretta, dandomi dimostrazione intanto dell’esistenza di una giustizia divina e della mia trasformazione in uomo ogetto, nel senso che, una volta stufatasi della situazione, mi o-getta via – come direbbe Heidegger, o-gettato nel mondo - e se ne va, lasciandomi con un senso di incompiuto che stenta a svanire. Ma non è finita qui, the best is yet to come. La mente diabolica di L&L, sempre in ebollizione nonostante lo aspettino mutande e calzettoni da infilare in valigia, ne escogita una delle sue. Armato del suo inseparabile drink, scatta come Bolt, passa sotto a un bancone che serve solo da cimitero dei bicchieri vuoti, e poi si getta a volo d’angelo sopra ai divanetti. L’altro L di L & L raccoglie la sfida ma fa di meglio: una volta passato sotto al bancone, si tuffa in perfetto volo d’angelo e scaraventa con violenza il bicchiere che aveva tra le mani, bicchiere che va a schiantarsi contro il muro producendo il classico effetto Pollock. Non c’è il due senza il tre, però, non si dice a caso. Sbuffo dalle narici e sono pronto all’incornata finale, aga David! Prendo la rincorso e senza neanche versare una sola goccia del mio inseparabile cuba libre, passo sotto al bancone, punto la ragazza seduta e lasciata ingenuamente da sola che sta sorseggiando il suo cocktail e…

“Cin cin!”

Mi volto e sarei pronto anche a tornare indietro come se nulla fosse se la ragazza non attaccasse discorso. Essendo particolarmente carina, decido che tutto sommato vale la pena fare conoscenza e scambiare due chiacchiere con la pupa. Dopo circa un minuto il mio ego riempie completamente il locale. Dopo due minuti, viene subito ridimensionato dagli amici: mentre sono lì che parlo, vengo portato via di peso dai due L di L&L che, prendendomi sottobraccio da una parte e dall’altra, mi trasportano dalla parte opposta della sala accompagnandosi con urla guerriere mentre la ragazza ci fissa allibita e io muovo i piedini penzolanti. Sono due gran bastardi, ma mi hanno fatto ridere e perciò li perdono. Dopo una roba del genere, niente è più come prima, come quando dall’adolescenza si passa improvvisamente all’età adulta. Come quando si passa dal pannolino al vasetto al cesso e poi si regredisce di nuovo al pannolone. Come quando si resta incollati al televisore a guardare Buona Domenica. Insomma, è ora di tornare a casa. Baci, abbracci e un altro giorno sta per iniziare. Buonanotte.

Il giorno dopo mi ci vogliono due ore di pedalate per riprendermi. Perso in qualche paesino di morti viventi, arranco con la lingua fuori. E penso. Penso allo Zukunft, nel senso del futuro. Il mio. E alla vita. E allora capisco. La vita è come una bicicletta. Non importa quanto pedali e se la strada è in salita o in discesa. No, quello che importa è quanti cazzo di cuba libre ti sei bevuto la sera prima, ed è sempre uno di troppo, capito? Io no, perciò non mi resta che augurarvi una buona settimana, ciao!

lunedì 20 settembre 2010

Ora chiamatelo Lord-enzo (Parte prima)

L di L&L se ne va. Ci abbandona. Destinazione Londra. Niente più cioccolato, rösti e orologi a cucù, lo aspettano fish and chips, porridge e il Big Ben. E allora, bisogna festeggiare, ed è proprio quello che facciamo. Alla nostra maniera. Venerdì sera ci troviamo a casa di L di L&L, l’altro. A cena, tanto per incominciare. Il quartetto è al completo: L di L&L, L di L&L, K e io. A darci man forte, M ed E, una simpatica coppia di meranesi, e H, pazzoide tedesca che si adatta perfettamente al clima vagamente demenziale del gruppo. La cucina di L di L&L è, come sempre, una manna per il palato e della pasta che straborda dalla pentola non rimane più neanche il ricordo. Come contorno, cinque bottiglie di vino che vengono svuotate fino all’ultima goccia. Si mangia, si beve, si ride. Intanto, la bottiglia di rum e di vodka attendono, pazientemente. Non per molto. Il livello alcolico incomincia ad alzarsi, vertiginosamente. M ed E, bevuto il bicchiere energetico, ringraziano, salutano e se ne vanno, avendo già previsto tutto nei minimi dettagli. Noi continuiamo nella maratona alcolica fino a quando non tagliamo il traguardo delle bottiglie vuote che mettono sempre profonda mestizia. Lacrime. Poi, qualcuno tira fuori la scatolina rossa infernale: il generatore di effetti sonori. Da lì inizia il delirio il cui epilogo… o forse non l’ha mai avuto un epilogo? Insomma, mentre L di L&L, o forse K, schiaccia il tasto che riproduce il suono di una molla – BOING! BOING! BOING! –, L di L&L, l’altro, parte con una serie di salti da record tipo astronauta sul suolo lunare che vengono presto imitati dal gruppo. Saltiamo sul pavimento, sui divani, sul letto. Qualcuno salta la cena, ma ignoro chi sia. La simpatica inquilina del piano di sotto, quella che a metà tirava delle gran scopate contro il soffitto in una riproduzione elvetica del codice Morse che significa all’incirca mi avete rotto i coglioni, è in stato di choc ed è stata portata via oggi dai pompieri che l’hanno trovata ancora con la scopa in mano, catatonica e bavosa. Poco soddisfatto della prestazione da canguro, L di L&L, al suono armonico della molla, incomincia a far saltare in aria quadri, specchi, vasi Ming, un Ming in carne ossa un po’ ammuffito e puzzolente, bombe e petardi che io prontamente agguanto al volo con tecnica prodigiosa, ebbro catcher in the Rye. Ridiamo divertiti, anche se al padrone di casa scendono copiose gocce di sudore freddo. Dotati ancora di quel minimo di padronanza neuronale, intuiamo che è il caso di abbandonare l’appartamento prima di creare una piccola Beirut nel condominio. Tutti all’Amber a ballare! Tutti meno H, che si diverte ma come ci si può divertire quando si va allo zoo a vedere le scimmie urlatrici. Questa non l’ho capita, ma volevo infilarci le scimmie urlatrici perché mi fanno ridere. Ah ah ah! Gentilmente, ci mette a disposizione i suoi servigi da taxista. Prima di montare in macchina, il gran finale della molla, che vede L di L&L saltare con perfetta tecnica Fosbury e sprofondare in una siepe, seguito subito a rotta dall’altro L di L&L e dal sottoscritto. Qualche braccio che penzola inerte, per il resto siamo ancora vivi. Il viaggio verso la discoteca è un parossismo alcolico: cori da stadio, grida, latrati, molle, salti. H si diverte e molto, ma come ci si può divertire quando il tuo aereo sta precipitando e poi, miracolo, il pilota riesce a farlo atterrare. Una volta basta e te lo ricordi per sempre. Giunti davanti all’Amber, sento robe tipo ‘saltiamole sul cofano’, che è alla prima pagina del manuale ‘I cento modi per entrare subito in discoteca e saltare la fila’. Lasciamo perdere, anche se l’idea aveva un suo fascino. Perverso. Cerchiamo di darci un contegno e ci fiondiamo verso l’entrata. Il buttafuori ci guarda e, non so se terrorizzato dallo sguardo psicotico dei quattro o semplicemente perché fiuta grandi affari al bancone del bar, ci fa entrare. Immediatamente. Neanche un secondo di attesa. Incredibile, qui non ci era mai successo, neanche quando arrivavamo con il brandy in mano declamando, in un inglese dal perfetto accento oxfordiano, tutta l’opera di Shakespeare. O forse un semplice ‘Can we enter?’, non ricordo. Prima che cambi idea, accettiamo il cortese invito e ci infiliamo dentro al club. Da quel momento in poi… Avete presente il film Una notte da leoni (Hangover)? È la storia di 4 amici – guarda caso – che decidono di celebrare l’addio al celibato di uno di loro a Las Vegas. Se non l’avete già visto, fatelo. Quello che mi è successo è molto simile, a parte la tigre in bagno e il cinese nel bagagliaio della macchina, ma solo perché non ho una macchina. Amnesia totale. Il grande buco nero. L’ultima cosa che mi ricordo è il biglietto di ingresso, 25 franchi senza consumazione, ladri! E un panino, nel bel mezzo della notte, nel tentativo disperato di riprendere coscienza. Quella umana. Ora, incrociando le testimonianze, ho cercato di riempire quel lasso temporale consegnato all’oblio e che mi costringe a passare dal reale al possibile. Gran maestro di cerimonia, il condizionale. Dicevamo, pare che, dopo aver lasciato le giacche in guardaroba… ma questo ve lo racconto nella prossima puntata, anche perché c’è ancora un sabato che merita da raccontare. Come sempre, buona settimana a tutti!
p.s: stiamo degenerando. Aiutateci!

martedì 14 settembre 2010

Zio si nasce, non si diventa

Tre settimane di vacanza. Molte o poche, questione di punti di vista. Al mio ritorno mi sono portato dietro una valigia piena di sbadigli. Dormire non è stata di certo l’attività più praticata. Tre settimane di vacanza. Il mio taccuino è pieno di appunti, di storie da raccontare e di fatti che, forse, è meglio non vengano troppo pubblicizzati. Davanti al foglio bianco, crocevia di ansie pseudo letterarie ed euforie creative, mi domando da dove iniziare, quali ricordi trasformare in parola. Non devo attendere molto. Mercoledì 18 agosto. Una vita fa, ma a me sembra molti di più - sarà l’aria estiva e vacanziera che si respira tutto l’anno a Zurigo. Ibiza, meta scelta scrupolosamente con l’intenzione di rilassarmi dopo dodici giorni di pazze feste a Tel Aviv. Città di Ibiza, meta scelta scrupolosamente con l’intenzione di infilare qualcosa nello stomaco e lanciarsi poi in pista, su le mani fino alle otto del mattino. Per chi non lo sapesse o avesse fatto ultimamente un frontale con il Frecciarossa, perdendo temporaneamente l’uso dell’emisfero sinistro del cervello, Ibiza e Zurigo non sono esattamente simili. A Ibiza si parla spagnolo – o catalano –, c’è il mare e gli orari sono quelli tipici mediterranei, cioè niente cena prima delle undici e mezza. A Zurigo, invece, si parla qualcosa che dovrebbe essere una lingua, anche se, secondo il mio modesto parere, assomiglia di più a una serie di sputi gutturali, il mare sembra non ci sia e gli orari sono quelli tipici della svizzera tedesca, cioè a letto senza cena dopo le nove e mezza, anche se hai fatto il bravo tutta la settimana. E infatti eccoci seduti a tavola a mezzanotte e mezza mentre ordiniamo in un tipico ristorante francese che nella carta dei vini ha solo quelli spagnoli. La globalizzazione. Vi chiederete, eccoci seduti chi? Come sapete, però, i nomi degli amici, nei miei post, non li rivelo mai, non per una questione di privacy, ma semplicemente perché conoscere una persona che scrive robe del genere è già motivo di onta, meglio non perseverare – che è diabolico – con la gogna mediatica. Vi basta sapere che la compagnia è quella delle migliori e delle più pazienti, visto la tolleranza a una settimana di mie battute continue. Poveri, vi voglio bene. Verso le due, satolli, alziamo i nostri reali culi e decidiamo di andare a berci una schifezza, cosa che facciamo senza troppa fatica, non senza prima essere passati per la zona omosessuale della città, pieni di simpatici individui travestiti da marziani in lattice che amano prendere a frustate il didietro dei baldi giovanotti di belle speranze. Il popò mi duole ancora. Terminati brindisi e chiacchiericcio, siamo pronti ad affrontare il vero scopo della nostra peregrinazione notturna: trovare i biglietti per l’Amnesia, tempio dedicato al ballo – o meglio, movimenti a caso indotti da abuso di dopanti che solo a volte, per congiunzioni astrali particolari, rispecchiano il nome con cui vengono chiamati - che conta migliaia di adepti. La serata si chiama La Troya – nessun riferimento alle rispettabili professioniste del settore – ed è internazionalmente conosciuta perché alle sei, nella sala principale, chi vuole e non si lava da settimane può usufruire dell’ottimo servizio di schiuma sparata a chilate da un paio di cannoni. Insomma, roba da intellettuali. Così, per non perderci anche noi la nostre dose di Badedas mattutino, ci mettiamo alla ricerca del Santo Graal del discotecaro. Che troviamo, passando tra i vari locali pre tunz tunz della cittadina. Infatti, notando il tipico atteggiamento dell’esploratore, vengo avvicinato da un ragazzo dal marcato accento lombardo.

Giovane: “Italiano?”
Io: “Sì”
G: “Ah, di dove?”
Io: “Di Milano”
G: “Ah, Milano, tantarrobba!!!”

È un topos. Lo trovi anche sul vocabolario, “Milano, definizione: tantarrobba”. Finchè ce n’è.

G: “Io sono di Cinisello”. Cos’è non lo fanno entrare a Milano? “No, io Milano? Mai vista. Non ho il timbro per entrare”. D’altronde, è sempre un problema. “Eh, no, volevo, ma mi è scaduto il bollo del passaporto”.
Io: “Stiamo cercando i bilgietti per l’Amnesia”

Il futuro premio Nobel – per come ha pronunciato tantarrobba – ci fa segno di seguirlo, scende le scale del locale accanto e urla come un pescivendolo al tizio pingue e barbuto seduto dietro a un bancone:

Oh, zio, ti mando giù cinque zii, sono amici, dagli i biglietti per l’Amnesia!”

Ci ho riflettuto un attimo e sono giunto alla conclusione che è bello essere degli zii. La ziitudine è una proprietà importante e ci rende tutti fratelli. Essere zii ci rende fratelli anche se il fatto di essere fratelli non ci rende per forza degli zii. Per esempio, non è detto che vostro zio sia uno zio. Magari, invece, vostro cugino lo è. E agli zii piace Milano perché c’è tantarrobba. Bella zio. E così, noi cinque zii, siamo scesi, abbiamo fatto l’acquisto, ci siamo scolati cinque shot offerti dallo zio ma solo perché siamo degli zii, abbiamo raggiunto la macchina, siamo partiti in direzione Amnesia, abbiamo trovato il parcheggio degli zii, siamo entrati e ci hanno lasciato passare per l’ingresso del privè perché lo zio aveva visto che eravamo degli zii e quando ha capito che venivamo da Milano deve aver sicuramente pensato “tantarrobba”. E, dentro, sì che ce n’era, di robba. Tanta. Che ballava con micro bikini sculettando a destra e a sinistra. Ho cercato di capire, inutilmente, se erano delle zie. Forse no. Poi, quando la gente in pista ha finito con le abluzioni, ci siamo diretti verso l’altro lato del privè. Da lì si dominava una pista completamente diversa. Piena di uomini grandi e grossi gonfiati con l’aria compressa e semi nudi. Forse loro erano degli zii. Quando li ho visti però tutti appiccicati con le lingue che mulinavano all’impazzata, mi sono reso conto che c’era ben poco dello zio, molto più della zia. Alle sette e un quarto si è spenta la musica e si sono accese le luci. Come dire, andate a casa che è meglio.

Il risveglio, sei ore dopo, ha un che di traumatico. Mi trascino verso il bagno, piscio, e mi guardo allo specchio, la faccia scavata, le occhiaie, i capelli arruffati e lo sguardo decisamente ottuso. Profondamente ottuso. Alla mia età mio padre aveva due lauree in tasca e e due figli a casa, io ho solo un gran mal di testa post sbronza. Poi, però, continuando a guardare, è incominciato a cambiare qualcosa dentro di me. Ho incominciato a capire. E alla fine, come un fulmine che squarcia il cielo, l’illuminazione è arrivata: “Minchia”, mi sono detto “ma come faccio a essere così zio?!!”. Buona settimana a tutti, zii, e tantarrobba!

p.s: un saluto speciale ai coinquilini di Ibiza, era da tempo che non ridevo così tanto. Almeno da quando non mi sono rimesso a seguire la politica italiana...

lunedì 6 settembre 2010

Anno che viene, anno che va

Di nuovo sul treno, di ritorno verso Zurigo. Sarà la domenica , ma oggi mi sento particolarmente malinconico. E mi manca Milano. Più del solito. So che ci sono mille ragioni per odiarla, forse di più, ma quella cosa che a fatica pompa il sangue nel mio corpo se ne frega. Tra qualche giorno, quando, munito della mia fidata lancia alcolica di rum e cola, scenderò sul campo di battaglia pronto al singolar tenzone, penserò tutt’altro. Oggi, però, è così. Venerdì scorso ho compiuto 34 anni. Non saranno ancora un’eternità, ma ho amici che conosco da più di vent’anni e questo fa impressione. Almeno un po’. E il torcicollo che ho avuto come regalo di compleanno non è stata una ventata di ottimismo. Allora, cosa è successo in questo anno? In parte lo sapete, se mi avete seguito nei deliri del lunedì: viaggi di lavoro; sbronze epiche; chilometri macinati in piscina; ragazze conosciute e poi mai richiamate, ragazze chiamate e da cui non ho mai ricevuto risposta; nuove amicizie; libri che mi hanno fatto sognare, incazzare, riflettere; musica ascoltata, suonata e pensata; buoni propositi rimasti chiusi nel cassetto; soldi inutilmente sperperati; stupidamente; risate, pianti, gioie, delusioni, felicità fugaci e dolori che ancora mi accompagnano. La lista è piuttosto lunga, ma non voglio tediarvi più del dovuto. Qualcuno non c’è più. Si dice che così è la vita, ma in questo non ci trovo nulla di consolatorio. Si dice che il tempo sia il rimedio, ma io invece lo considero il più feroce serial killer di sempre. Il tempo ci seppellirà tutti e invece di stare tanto a capire il come e il perché facciamolo giudicare da un tribunale internazionale. Niente attenuanti. E io? Sono cambiato? Difficile rispondere. Probabilmente sì, ma non saprei in cosa. Più pessimista, può essere. Ho perso fiducia in molte cose e a volte mi sembra che nulla, di quello che viviamo, rimanga, ma scivoli via, come quando prendete della sabbia nella mano e i granelli incominciano a uscire, uno a uno, poi tutti insieme, fino a quando non rimane più niente. Per il resto, mi sento il solito idiota di sempre. Proprio oggi, poco prima di uscire di casa, mi ha chiamato mia nonna. “E allora, quando te la trovi una fidanzata?”. Già, quando? Ma la fidanzata non è un obbligo. Crescendo, poi, sono diventato molto più selettivo. A volte penso che sarà più facile raggiungere la pace in Medio Oriente. Certo, ogni tanto mi sento solo e mi piacerebbe avere in casa qualcuno con cui parlare. Penso che mi comprerò un pappagallo, almeno non soffre della sindrome dei piedi ibernati. E poi? E poi, domani è un altro giorno, un altro giorno che finirà e poi domani sarà un altro e così via. Intanto, continuo a sognare a occhi aperti e mi domando ancora cosa farò da grande. Già, ma quando si diventa grandi? Forse quando smetterò di farmi questa domanda, anche se è più probabile che, quel giorno, non sarò grande, ma solo un vecchio dentro a una bara. Strano, per uno che pensava una volta di essere immortale, invece ha poi scoperto che di immortale, a questo mondo, c’è solo Silvio. Tutto sommato, nonostante il mio pessimismo cosmico, amo la vita, e preferisco essere vivo che morto anche se ammetto che, da morto, hai alcuni vantaggi, come smettere di pagare le tasse e non essere assillato dai programmi della De Filippi. Io, per esempio, adoro fare colazione e da morto questo sembra sia molto più complicato. So che è una cosa stupida, ma la mattina, quando mi alzo, sono contento perché so che in dieci minuti mi siederò davanti a una bella tazza di latte e cornflakes, fette biscottate, marmellata e deliziosi biscotti di burro con cioccolato belga. E in quel momento sono felice. E allora, che cos’è la felicità? Dove si trova il senso della vita? Non lo so, forse in un biscotto al burro e scaglie di cioccolato o, come diceva il filosofo Bertrand Russell, nel fatto di andare due volte al giorno di corpo, con regolarità. Non pensavo di essere tanto felice! Insomma, godiamoci la nostra finitezza e godiamocela infinite volte. Intanto, voi godetevi il fatto che anche questo post è giunto alla sua fine. Mi spiace avervi deluso, vi aspettavate qualcosa di più ameno. Be’, oggi ne ho fatto a meno, ma vi prometto che da lunedì prossimo proverò di nuovo a strapparvi qualche sorriso. Vi lascio con una poesia molto bella di un autore che io amo particolarmente. L’autore è mio papà e la poesia è scritta in occasione del mio compleanno come ormai, da consuetudine, fa da una vita. Buona settimana a tutti!

Il Vento


Il vento soffia via il mese di
agosto; finisce presto l’affanno
con piccole trombette un lunedì
a mezze tinte da Capo d’Anno

Echeggia settembre con temperati
miti modi il vento del deserto
che brusco porge agli antenati
i corni del dilemma aperto

fra essere e apparire: sfinge
turbinante, fenomenale
che il clima fresco non restringe

a pura idea essenziale.
Solo con alfabeto che Mem comprime
fra Alef e Tav il soffio esprime.

אמת Emet

lunedì 26 luglio 2010

Some sing and Sang Som

Sabato sera. Cena a casa di L di L &L. Come antipasto, assistiamo al varo della turbo nave da parte della Contessa Serbelloni Mazzanti Viendalmare per chi non se lo ricordasse, apice tragicomico de Il secondo tragico Fantozzi – che ci procura lesioni di secondo grado al congiuntivo (“Capovaro, vado?” “Vadi, contessa!”), crampi allo stomaco e lacrimazione copiosa. Dopo, ci sediamo a tavola. Alla mia destra, L di L&L, gran cerimoniere della serata; di fronte a me, L di L&L, l’uomo creato a immagine e somiglianza dello Zukunft. Il menu prevede pasta al dente condita con pomodorini e mozzarelle. Deliziosa. Divina. FA-VO-LO-SA, ma questo lo dico solo quando mi metto i tacchi a spillo. Dominati dall’ingordigia, invochiamo ad alta voce il bis e affondiamo nuovamente le nostre fauci nell’italico carboidrato. Con la gonfia panza a denotare importanza, ci accingiamo quindi ad affrontare il piatto forte della serata: il Sang Som. Solo a pronunciarne il nome si rischiano effetti collaterali: sudorazione incipiente, vuoti di memoria, euforia. Il primo shot di questo rum tailandese incenerisce lo stomaco. Il secondo provoca una crisi di astinenza. Il terzo è concesso solo agli impavidi, agli eroi e ai condannati a morte. Noi, giustamente, infiliamo nel gargarozzo il quarto, mentre naso e orecchie ci fischiano come locomotive dell’Ottocento. Direi che siamo pronti per uscire. Ed è proprio quello che facciamo. Giunti alla fermata del tram, L di L&L, colto da visioni mistiche, compie uno scatto da centometrista e gli viene conferita direttamente la medaglia d’oro per l’impresa sportiva, mentre l’altro L di L&L e il sottoscritto gli arrancano dietro. Intanto, gli svizzeri si controllano il portafogli. La parlantina si fa fastidioso cicaleccio, i toni si alzano. Arrivati a destinazione, L di L&L, si trova davanti a un Sang Som gigante che lo investe cavaliere dell’ordine di Koh Samui: così, scende facendo bungee jumping dal tram e compie un altro scatto da centometrista mentre Usain Bolt si dispera per lo smacco, l’altro L di L&L e il sottoscritto gli arrancano dietro e gli svizzeri si controllano il portafogli e pure l’orologio. Poco soddisfatto della prestazione mediocre, L di L&L, non L di L&L, in procinto di avvicinarsi al semaforo, scatta come un proiettile espulso dalla canna di una pistola, cento metri di sudore accompagnati da urla guerriere che tanto ricordano le temibili scimmie urlatrici. Questa volta, L di L&L gli arranca dietro, me compreso, mentre gli svizzeri si controllano il portafogli, l’orologio, le chiavi di casa, della macchina e le fidanzate. Due ragazze, pensando a un attentato terroristico, saltano per aria per poi cadere in preda al panico. Sang Som! Raggiungiamo amiche e amici per un bicchierino, poi, quando a stento riconosciamo la destra dalla sinistra, ci dirigiamo tutti verso il Jade, tipica discoteca fighetta zurighese dove le donne possono entrare solo accompagnate da gonna modello mutanda e tacco 15 mentre gli uomini solo se hanno il borsellino gonfio di stress settimanale e sono incarogniti con la vita. Il comune denominatore è il microcefalo mono neuronale. Occasione del nostro ingresso, salutato dalla folla con deferita indifferenza, è la partenza di F.P., buon amico di L&L – entrambi – per Damasco. Medio Oriente canaglia. Procedendo a fatica in mezzo all’assembramento di persone – il locale sembra uno di quei tacchini ripieni a puntino e che sembrano sempre sul punto di esplodere –, arriviamo al tavolo di F.P., un campo minato da bottiglie di vodka. Baci, abbracci, cin cin e Sang Som. Sang Som! La mia attenzione, però, viene attirata dal tavolo di fianco, circondato da fanciulle sculettanti e starnazzanti dal cervello ibernato. Meno trenta gradi. Presumo. Colpito dalle loro sinapsi spumeggianti, recupero la lingua, che nel frattempo si era srotolata come un tappeto rosso, e gonfiandomi come un pavone, spalleggiato da L di L&L, mi faccio avanti. Sang Som! Anche qui, baci, abbracci, cin cin e Sang Som. L’idillio, però, dura giusto il tempo di accorgerci che ci troviamo di fronte a un gruppo di dure e pure fighette zurighesi di denominazione di origine controllata che si caratterizzano principalmente per spiccata territorialità e relazioni endogene. Cosa ho scritto?!! Infatti, un paio di loro, portavoci di questo sistema tetragono alle spinte rinnovatrici esterne, ci fanno sciò con la manina, spingendoci al di là della corda tirata tra i due pali che delimita l’area del loro tavolo, giustificando il tutto con un “Abbiamo prenotato”. Come non capirle, d’altronde, sono fatte così. Può capitare di andare in giro per la città e vedere questi nugoli di principesse sul pisello biologico – niente ogm, per piacere – che se ne vanno a zonzo sempre con questa corda dietro, pronte alle circoscrizione dell’area. Il loro problema è dato dalla parola ‘prenotare’, che suscita in loro istinti elvetici primordiali, sentimenti legati alle cassete di sicurezza, fobie di persecuzione da cacao. Per esempio, prenotano una visita dal dentista. Be’, loro si siedono sulla poltrona della tortura, ma il medico non riesce ad avvicinarsi: loro hanno prenotato e steso subito la corda per ribadire il concetto. Prenotano un tavolo al ristorante, ma poi andate a spiegarlo voi ai camerieri come versare il vino da due metri di distanza. Nella stagione degli amoreggiamenti, il disagio arrecato allo svizzero in corteggiamento amoroso è notevole, tant’è che una volta che l’oggetto dei suoi desideri è sdraiata sul divano con questa cazzo di corda, lui non sa più che pesci pigliere, nemmeno il suo. Un pericolo sociale. Per concludere degnamente la serata, assistiamo in diretta a un tragico melodramma con protagonista una nostra amica che, dopo essere stata sbattuta fuori dal Jade per non si capisce quali motivi, scoppia in un pianto dirotto che viene fermato solo grazie all’intervento di Bertolaso e della protezione civile. C’è da dire che in genere il buttafuori medio, più vicino a un orango che a un professore universitario nella scala dell’evoluzione, non spicca per doti di sensibilità, quello zurighese non è certo un eccezione, anche se, mentre la accompagnava verso l’uscita, mi è parso che le sussurrasse all’orecchio qualcosa tipo “Due cose riempiono l'animo di ammirazione e venerazione sempre nuova e crescente, quanto più spesso e più a lungo la riflessione si occupa di esse: il cielo stellato sopra di me, e la legge morale in me”, ma non ne ho la certezza, non quella noumenica. Per risollevarci l’animo, sprofondato nella cupezza dei Grigioni, andiamo a fare due salti allo Zukunft, giusto per non perdere le buone abitudini e gettare lo stomaco oltre l’ostacolo. Sapete benissimo come va a finire senza che ve lo stia a raccontare, anche perché, non me lo ricordo affatto.

Bene, è giunto il momento di congedarmi. Temporaneamente. Dal lavoro, e da questi post, che impegnano parte dei miei fine settimana da ormai un paio di anni. È stato un periodo lungo, faticoso, disseminato dalla solita lunga scia di frustrazioni, delusioni, speranze, tristezza, gioie –non tantissime – e soddisfazioni. Non ho ancora risolto niente della mia vita e le domande che mi ponevo qualche anno fa si ripropongono oramai con sempre più insistenza. Purtroppo, come sempre, le risposte non arrivano mai anche perché, se ci sono, spesso sono banali e noiose, e allora meglio continuare l’eterna ricerca e rimanere nel mio limbo spirituale che si nutre di un pessimismo cosmico ormai inarrestabile. Domenica prossima – 1 agosto 2010 –, sul volo El Al per Tel Aviv, iniziano finalmente le mie vacanze. Non resta che salutare voi, pochi e pazienti lettori delle mie idiozie settimanali, e rimandare l’appuntamento del lunedì a fine agosto. Ah, dimenticavo, ho appena ordinato un nuovo modello di televisore: il Sangsom, che promette delle visioni davvero eccezionali. Buone vacanze a tutti e Sang Som!!!

lunedì 19 luglio 2010

La tempesta elvetica, il prete che è noi e l'ambasciatore eunuco

A Zurigo si muore di caldo. So che davanti a questa affermazione molti si staranno sbellicando delle risate, eppure è così. Sono ormai più di due settimane che la colonnina del termometro raggiunge e supera sgommando i trenta gradi. Incredibile. Sono ormai più di due settimane che il sottoscritto, sprovvisto di condizionatore o del più semplice ventilatore - del tutto inutili, in genere, da queste parti -se ne va a letto, cuffia e occhialini, e si immerge in un bagno di sudore. Una situazione insostenibile: ragazze in gonna e infradito, gente in bermuda attaccata a bottigliette di acqua gelata, piscine stracolme. Lo ha capito bene il governo cantonaledella città, che ha dichiarato il caldo afoso illegale. Così, due sabati fa un temporale, invocato per legge, si è abbattuto sulla capitale finanziaria della Svizzera.

Saranno state le otto e mezza. K. e io ci prepariamo per uscire. Il programma prevede pizza, birra e poi si vedrà. Notiamo il cielo cupo, plumbeo, che non promette nulla di buono. Cade qualche goccia.

Io: “Dici che ci conviene prendere l’ombrello?”
K: “Io la rischierei. Poi, se no, dobbiamo starcene tutta la serata in giro con l’ombrello”
Io: “Hai ragione. Tanto sono solo due fermate. Andiamo, dai, che sto morendo di fame!”

Tempo due minuti, tuoni e fulmini e ho finalmente capito il significato di ‘diluvio universale’. Credo che l’effetto sia simile a quello che si ottiene standosene sotto le cascate del Niagara. Con scatto da centometristi, raggiungiamo il portone riparato di una casa. Altre tre persone, oltre a noi, vi trovano rifugio. L’intensità dell’acquazzone aumenta secondo dopo secondo, il vento pure. Piove dentro il negozio di fiori a fianco a noi, sgocciola copiosamente dalla tettoia sopra le nostre teste.

K: “Speriamo che finisca in fretta”
Io: “Sì, sì, tranquillo, è un temporale estivo. Scroscia così per cinque minuti, poi smette”

Infatti, quaranta minuti dopo siamo ancora lì sotto. Poi, la furia della natura si placa, lentamente. Raggiungiamo la pizzeria.

Qualche ora dopo K. alza bandiera bianca: la battaglia contro la palpebra calante è irrimediabilmente persa. L di L&L – che, dopo cena, ci aveva raggiunto per aiutarci a raggiungere l’unico Stato che io veramente riconosco, quello d’ebbrezza – ce ne andiamo in direzione Bar 3000, usuale ritrovo di nottambuli alcolizzati e di avventori del club sottostante che salgono a farsi una sana fumata. Io, modestamente, faccio parte di entrambe le categorie. Seduti al bancone, iniziamo il solito girone infernale di cuba libre. Non chiedetemi il perché e il per come, ma dieci minuti più tardi confabuliamo con un ragazzo locale, genitori spagnoli, che ci tira la pezza della vita. Per essere simpatico, è simpatico, ma non penso diventerà il mio nuovo migliore amico. Tranne per quei cinque minuti di gloria. Insomma, visto che già ci diamo del tu, passiamo pure alle presentazioni.

“Hi, I’m Lorenzo”
“Hi, I’m David”

Lui ci guarda, sfodera un sorriso così grande che ci si potrebbero infornare un paio di pizze e sentenzia, alquanto sibillino:

You are me

Prego?

“You Lorenzo and you David, you are me”

Una volta almeno con gli acidi ti facevi dei viaggi, vedevi gli gnomi e parlavi con Dio incarnato in un barattolo di sottoaceti. Il punto interrogativo aleggia sui nostri sguardi.

“My name is David and my surname is Lorenzo. I’m David Lorenzo. You are me”

Intrigo svelato. La scoperta ci commuove a tal punto che saremmo quasi tentati di abbracciarlo, ma ci asteniamo per pudore. Parlando del più e del meno, scopriamo che è pure sposato.

“Sì, ma non sono un prete” dice ammiccando. E pensare che per un momento l’ipotesi ci era balenata per la testa. Difatti, un paio di ore dopo lo vediamo andarsene via mano nella mano con una specie di comodino dotato di un paio di tette modello mongolfiere. A celebrare la messa, credo.

Serata conclusa, come al solito, con trascinamento verso casa sui gomiti.

Termino il pezzo in maniera sconclusionata con una perla freudiana del commentatore di RSI ascoltata in diretta da L di L&L durante il Tour de France e che non potevo non citare: “Ambasciator non porta pene”. Poveraccio. L’ambasciatore. Buona settimana a tutti!!!

p.s: lunedì prossimo pubblico l’ultimo post prima delle mie tanto attese vacanze. Potete andare a festeggiare!