lunedì 25 gennaio 2010

Questo post nuoce gravemente alla salute. Mentale


Non so ancora se Dio esista o meno. Non ne ho idea. Nel caso, non riuscirò mai a ringraziarlo abbastanza per averci reso impossibile – a differenza della maggioranza di tutti gli altri mammiferi – qualsiasi tipo di pulizia igienica ottenuta appoggiando le papille gustative in zona natiche. Non ci lecchiamo il culo. Lo considero un profondo atto di amore e misericordia. Di giustizia. Certo, ci sono i contorsionisti. Questa, però, è un’altra storia, alla voce “La mi dolce – ripiegata a – metà: contorsionismo e l’arte di risparmiare viaggiando”.


Sono andato a giocare a curling. Non so se lo sapete, ma il curling è quello strano sport simile alle bocce, solo che invece delle bocce si usano delle pietre di granito da venti chili. E si gioca sul ghiaccio. L’età media dei nostri istruttori poteva essere calcolata tramite dendrocronologia applicata alle rughe. Non credo avessero meno di un paio di secoli a stessa. Ammetto però che nella fase iniziale di stretching ci hanno dato del filo da torcere. La cosa che mi ha lasciato perplesso è l’origine di questo gioco. Di questo gioco inutile. Avevo sempre creduto che la paternità spettasse agli svizzeri. Mi sembrava un gioco da svizzeri. Invece il peccato originale è degli scozzesi. Un’invenzione partorita da una mente eccelsa dopo pinte di birra e fiumi di whiskey. Confesso di essermi divertito, ma non ripeterò a breve: gioco troppo statico, niente fatica, sudore, scontro fisico. Il bridge e gli scacchi li ho trovati fisicamente impegnativi. Scivoli, procedi per inerzia e, dopo aver mirato con precisione da cecchino, molli la pietra. Altri due idioti, nella speranza di far conquistare qualche metro in più alla pietra, spazzano come ossessi per terra. Degli invasati dell’igiene.Non ho mai scopato un pavimento così bene e con così tanto trasporto in tutta la mia vita. Nemmeno ora che mi sono trasferito a Zurigo. Potrei aggiungere l’altra battuta, ma la lascio per i commenti dei miei amici intellettuali.


Giovedì sera. Eurocity, direzione Milano. Dopo due ore passate prive di sensi, stravaccato sul sedile, bocca aperta, testa penzolante, torno alla dura realtà. Recupero un minimo di dignità, apro il libro che ho davanti e mi immergo nella lettura. L’immersione, purtroppo, è resa alquanto problematica dalla tizia dietro di me che, con una parlata in puro stile Gervasoni, allieta il suo fortunato compagno di viaggio – e non solo – con mirabolanti racconti che hanno come protagonisti famelici figli, patate pelate e pesci meticolosamente mondati di ogni mortale lisca e pronti per la padella. A difesa della mia evasione dal reale e dalle sue pericolose tossine, sfodero l’iPod e sigillo i miei padiglioni auricolari con le cuffie, regolando il volume un pelo sopra ai decibel consentiti dal Comune di Milano per i concerti a San Siro – che, diciamolo pure, sono pateticamente ridicoli. Niente da fare, la voce della signora echeggia per il vagone e la pulitura del branzino si mischia alle parole di Nabokov, costringendomi alla resa. Un’ora. Una cazzo di conferenza sulla sbucciatura del tubero. A volte mi sento un pesce fuor d’acqua. Questa volta sono finito nella padella della sciura. Le lische, per fortuna, ce le ho ancora tutte.

C’è gente che ignora l’esistenza della Basilicata. Potrei capire il Molise. In Molise sono certo si nasconda Bin Laden. Se solo gli americani sapessero dov’è il Molise. Ma la Basilicata? La terra dei Sassi di Matera, inserita nella lista dei patrimoni dell’umanità dell’UNESCO? Pier Paolo Pasolini – notare che il correttore automatico mi scrive Pier Paolo Pisolini, passando dalla causa all’effetto – ci ha girato “Il Vangelo secondo Matteo”. Quel simpatico antisemita di Mel Gibson ha scelto i Sassi per le riprese del suo truculento e antisemita “La Passione di Cristo”. Insomma, è difficile non conoscere la Basilicata. D’altronde, confesso anche io la mia abissale ignoranza in geografia. Dopo anni passati sui banchi a studiare gli affluenti dei fiumi, tutto ciò è piuttosto desolante.
p.s: Boiano è in Molise. Si potrebbe scriverci un libro sopra, o almeno, io so chi potrebbe farlo. Divertimento assicurato. Detto questo, ma il Molise dov’è?!!


Milano. Fuori da un locale a fumare insieme a un amico. Freddo e umidità tiranneggiano al punto che, se mi infilassero uno stecco nel sedere, potrebbero benissimo vendermi al bancone surgelati dell’Esselunga. Un bellimbusto, narcotizzato dalla sua pettinatura da idiota, si avvicina in maniche di camicia al mio amico.

“Fratello, ce l’avresti una sigaretta da darmi?”

Fratello? Ora, i casi sono tre:

1 Siamo ad Harlem, andiamo in giro con le braghe allacciate alle ginocchia e le macchine con gli ammortizzatori che vanno su e giù. Yo! Possibile, soprattutto se ti sei sniffato pure la forfora, ma poco probabile
2 Il mio amico è davvero suo fratello. In senso lato siamo tutti figli di Dio, quindi, metaforicamente parlando, siamo tutti fratelli. Al momento, però, mi considero un agnostico. Perciò direi che, in senso letterale, l’opzione è improponibile
3 Il bellimbusto pettinato da idiota è effettivamente un idiota

Scegliete voi quella che vi piace di più. A me la terza non dispiace.

Presentazioni di rito. Mani che si stringono.

“Bla bla bla, piacere”
”Eugenio, piacere”

Arriva il mio turno.

“Bla bla bla, piacere”
Eugenio, piac…”

Come?!! Sorriso imbarazzato. Stato confusionale. Presentarsi, soprattutto con chi non si rivedrà più per il resto dei proprio giorni, è diventato ormai un rito sociale svuotato di ogni significato. Si inserisce il pilota automatico, pochi secondi e i nomi non sono nemmeno più uno sbiadito ricordo. Tabula rasa. “Era Paolo o Mario? Stefano o Elena? Ha i baffi? Il cappello? È Frank!”. Siamo zombie che stringono mani ad altri zombie.

“Piacere, David”
“Molto piacere, io sono molto piacere”

“Piacere, David”
“Piacere, sopra la panca capra campa”

Poi ti volti. Come cazzo si chiamano? Ti sembra di ricordare qualcosa di strano, ma niente più di quello. Continui a sorseggiare il tuo cocktail e a pensare al sesso ogni 52 secondi, almeno secondo quanto dicono i sondaggisti. Zombie.

O forse no. Forse voglio solo essere Eugenio. Possibile? Se per Leibniz questo è il migliore dei mondi possibili, allora la risposta deve essere no: Euge beve un sacco di champagne e lo sanno tutti che a me, lo champagne, fa schifo.

lunedì 18 gennaio 2010

Sono garbage manager. Cioè? No, niente, faccio lo spazzino


Tra cinque miliardi di anni la Terra non ci sarà più. Qualcuno dice sei. Forse sette. In Svizzera sette miliardi di anni, tre giorni e cinque ore. Non manca poi così tanto. Ma neanche così poco, quindi potrebbero benissimo allungare la durata del mutuo. O no? Io, intanto, mi organizzo.

Questo non è un problema per lo scettico radicale. Lui pensa che neanche esista, la Terra. È tutto un sogno. Un inganno. Sì, però il mutuo lo paga pure lui.

L’altro giorno ho sentito una mia amica. Sono molto contento per lei, un’importante azienda americana le ha offerto un’ottima posizione. Quale? Be’, all’inizio non ci ho capito molto e credo neanche lei. Oggi qualsiasi ruolo all’interno di un’azienda ha il suo specifico nome in inglese. Tu sei lì, a colloquio, e il tizio ti sfodera fuori questo fichissimo, altisonante nome anglosassone. Sorridi, dici frasi di circostanza, stringi la mano e te ne torni a casa felice. Sono auannaghenuatzdeamerican manager. Chiami tutti gli amici per condividere il tuo straripante entusiasmo. Poi loro ti domandano:

“Sì, ma in pratica?”

Panico. Silenzio. Il punto di domanda ti avvolge e non ti molla fino al terzo, quarto, quinto mese di ufficio, quando finalmente sei in grado di spiegare per cosa diavolo ti pagano. E poi, quando davvero capisci fino in fondo, be’, allora è troppo tardi per tornare indietro.

Le aziende americane, e non solo, hanno la mania di infilare la parola “manager” dovunque. Country manager. Sales manager. Product manager. Project manager. Content manager. Coffe manager. Toilet manager. Affari. Carriera. Pensiamo tutti di essere chissà chi, di fare chissà cosa. Il nulla nulleggia, ma mica tanto. Poi, mentre camminiamo con il petto gonfio come quello di un tacchino ripieno, ci cade un vaso da dieci chili in testa. Rimaniamo lì, stecchiti. E ci ritroviamo poi sottoterra. Grazie al gravedigger manager.

L’altro giorno, a Davos, stavo scendendo giù per una pista. Maschera in testa. Il tizio davanti a me, sculettando a destra e a sinistra, mi alza un muro di neve. Perdo visibilità per qualche secondo, giusto il tempo di trovarmi sull’orlo del non ritorno. Curva di emergenza con freno a mano. E mi ritrovo disteso per terra, uno sci qualche metro più sopra. In quel momento ho capito davvero. Quando si dice che c’è chi cade sempre in piedi. Ecco, io cado sempre per terra come un sacco di patate, sbatto il culo, rotolo. Poi mi rialzo. Sempre. Con fatica. Ma cadere, cado. Tante, tante di quelle volte. Sarà sempre così. Dovrebbero inventare un airbag esistenziale.

Mi piacciono le donne. E mi fanno soffrire. Loro, invece, non s’offrono. A me.

Brunetta vorrebbe proporre una legge che obblighi i figli a uscire di casa a 18 anni. Questo è proprio scemo. A me pare davvero una crudeltà impedire ai propri figli di uscire di casa fino a 18 anni. Capisco il problema del bullismo e dei pedofili, ma la soluzione è un davvero troppo radicale. Talebano!!!

Mi si preannuncia una settimana difficile. Complicata. Vorrei sparire. Farmi piccolo piccolo piccolo. Come il ministro Brunetta.

Ho scoperto che sniffare le Air Max dopo averle indossate un’intera giornata può essere letale.

Cosa vuoi fare da grande?”. Non lo so ancora e non sono più così piccolo. Forse non saprò mai dare una risposta certa. Ma le risposte sono poche importanti, tranne quando le chiedi se vorrà sposarti. “E cosa vuoi fare da morto?”. Non ha senso? Sì, forse, ma perché, l’altra domanda ce l’ha? Auguro a tutti una felice settimana. Spero che abbiate più certezze, nella vita, di me.


lunedì 11 gennaio 2010

Grandi aspirazioni

La mia vicina di casa parla fluentemente tedesco, inglese, francese, italiano, spagnolo più qualche altra lingua che non ricordo. L’inuit e il mapudungun, forse. Io sbiascico qualcosa in inglese, francese e tedesco. Tre parole di ebraico. Sbiascico pure in italiano, ma solo dopo il quarto cuba libre. La mia vicina di casa è diplomata in flauto barocco. Da qualche mese ha iniziato a suonare il clarinetto. All’inizio pensavo ci fosse una mucca nascosta nel suo appartamento. Possibile, siamo in Svizzera. Poi, mi è parso di udire la sirena di una nave. Questo, lo ammetto, è più complicato. Un giorno l’ho incontrata sul pianerottolo e mi ha spiegato che faceva pratica con il clarinetto. Mi sono tranquillizzato, non amo avere una stalla dietro il mio letto. E nemmeno un porto coi camalli. Io strimpello la chitarra e suono, male, il pianoforte, però quando chiudo le mani e ci soffio dentro, sono un musicista di tutto rispetto. La mia vicina di casa è una ragazza tutta casa e famiglia. Ecco, della famiglia non ne so gran che, ma alla casa ci tiene eccome. Lava, pulisce, stracci, mocio, spugna, dai la cera togli la cera metti l’apostrofo e allora c’era. Cose così. La mia vicina di casa ha grandi aspirazioni. E infatti, aspira. Diamine, se aspira! Il sabato mattina. Tutti i sabati mattina. Alle nove. Quando il sottoscritto, adagiato nel suo sarcofago, è in quello stato vegetativo noto come coma vigile. Uno stato che, il sabato mattino, preferirei prolungare il più possibile. Ma non posso, perché la mia vicina di casa, la poliglotta, la polistrumentista, deve passare l’aspirapolvere. Dal rumore che fa, poi, non deve essere un aspirapolvere comune, ma qualche congegno progettato alla NASA. Un aspirapolvere stellare. Un buco nero casalingo. Un elettrodomestico gravitazionale. Secondo me, se non ci fa attenzione, un giorno mi risucchia tutta la stanza. Adesso mi si è pure fidanzata. Così, il sabato mattina, alle nove, aspira e parla. Ride. Parla, parla. Anche lui parla, ride. E poi non parla più. Anche lui. Aspirato.