lunedì 29 marzo 2010

Il figlio del papi, la sfinge e il serial killer

Oggi vorrei trattare un argomento che mi sta molto a cuore, occupa i miei pensieri giorno e notte e a cui ritengo sia dedicato troppo poco spazio in relazione all’importanza che riveste: il fighetto zurighese. Non è però possibile una comprensione approfondita del tema senza il paragone con l’omologo milanese. Analizzeremo prima le somiglianze per poi trattare le differenze.

Somiglianze


Il fighetto ha un papi alle sue spalle che foraggia l’erede con una paghetta degna di un dirigente d’azienda. Il papi, che gira con un SUV delle dimensioni di un Titanic e come auto da città utilizza un BMW serie 7. Al massimo, il parcheggio se lo compra. Il fighetto, se è stato bravo e ha preso almeno un 19 al primo esame – rigorosamente economia, giurisprudenza o medicina, lettere o filosofia se è proprio un radical chic e il verbo ‘lavorare’ sa che esiste nel dizionario ma ne ignora il significato -, riceve in premio il Porsche, che a Milano chiamano ‘il porschino’ perché, paragonato alla macchina del papi, sembra un giocattolo per bambini dell’asilo. Il fighetto abita in centro in un modesto appartamento di 500 metri quadrati pieno di antichi tappeti persiani, arazzi, argenteria, mobili di antiquariato, soffitto a cassettoni, quadri del Seicento, foreste di benjamin ficus, collezioni chilometriche di orologi di lusso e squadra di calcio di domestici filippini che vengono smistati, a seconda, tra Santa, Curma, Forte e St. Moritz. Quelli dello zurighese, tra Santen, Curmen, Forten e St.Moritzen perché aggiungere la desinenza tedesca fa molto fighetto. Il golf è un dovere. Le vacanze in barca a vela, un piacere, ma solo se la barca è un trenta metri con equipaggio e il massimo che il fighetto deve fare è stappare le bottiglie di Cristal. Il fine settimana il fighetto si riunisce con altri fighetti in quei luoghi di socializzazione culturale chiamati discoteche, prende un tavolo e ordina qualche litro di Grey Goose o Belvedere con contorno di red bull, lemon soda e donne con micro gonne, micro tanga e micro cerebri. Poi inizia la serata. E finiscono le somiglianze.

Differenze

Il fighetto milanese

Lo dobbiamo riconoscere, il fighetto milanese, temprato da anni di dura gavetta con la fighetta milanese, quella che al posto di una vagina ha un diamante da 900 carati, è uno che, con le ragazze, ci sa fare. Beve due o tre bicchieri, poi il testosterone sale e parte l’assalto alla diligenza femminile. Munito di parlantina brillante - indispensabile a Milano per la sopravvivenza della specie del fighetto, grande adepto del Darwin Charles -, il nostro seduttore si avvicina alla sua vittima con mosse da provetto ballerino sordo e senza senso del ritmo che qualcuno osa definire ‘ballo’, fa partire il suo vacuo bla bla, si esibisce in una pantomima, avvinghia la preda, la fa girare come una trottola e dopo una ventina di minuti la ipnotizza con le chiavi del Porsche. Se a quel punto lei ancora non cede, passa al piano b: l’amica della preda. E se non lei, l’amica dell’amica della preda, e così via. In genere, il fighetto milanese, dovunque sia – soprattutto all’estero -, è in grado di fare conoscenza con tutta la fauna del locale, almeno fino a quando non riesce a conquistare il trofeo – se è una modella, meglio -, mostrarlo a tutti e poi portarlo a casa e scoparselo modello orango per cinque ore consecutive, probabilmente con le narici ancora infiammate dalle sue stupefacenti aspirazioni. Il giorno dopo, ancora intontito, aggiorna il suo status di Facebook: “Uè, figa, schiacciata paura!”. In fondo, è un poeta.

Il fighetto zurighese: il serial killer

È il primo prototipo di fighetto zurighese. Sta in piedi, immobile, jeans, camicia, scarpa pettinata, e fissa la sua vittima. Beve il suo drink, e fissa la sua vittima. Immobile. Beve un altro drink, e fissa la sua vittima. Nelle sue pupille si può già vedere l’immagine del delitto: lui che frusta lei, nuda, con il Rolex, poi la tramortisce con una bottigliata di Cristal, la fa a pezzi, con quelli crea un Picasso della fase cubista e nasconde poi il quadro nel caveau dell’UBS. Al decimo bicchiere, il fighetto è ancora lì, fermo, a fissare la bionda con tacco dodici che intanto si fa toccare le tette da qualche milanese di esportazione che ha passato la serata a dimostrare la tesi secondo cui l’uomo è pur sempre un animale. La differenza la fa solo il Rolex. Il serial killer vorrebbe dire qualcosa, ma non può far altro che sbiascicare frasi senza senso che qui prendono il nome di svizzero tedesco. Quando il locale chiude, lui è sempre lì, immobile, a fissare un punto nel vuoto. Per farlo uscire, l’impresa di pulizie lo solleva di peso e lo sbatte nel cassonetto delle sostanze riciclabili. La sera dopo il nuovo serial killer riciclato è ancora in pista, muto, fermo. Plastificato. Una carta di credito vivente.

Il fighetto zurighese: la sfinge

Ed eccoci al secondo prototipo di fighetto zurighese: la sfinge. Ricorda molto il serial killer, ma se ne differenzia per un approccio psicologico di fondo. Anche lui se ne sta in piedi, immobile, jeans, camicia, scarpa pettinata. Quella che fissa, però, non è una vittima. Più una preda, direi. La guarda con sguardo enigmatico e, almeno secondo lui, seducente. Il bel tenebroso. Al terzo bicchiere si avvicina. Non pronuncia parola, lo sguardo parla per lui. E a me dice, che, fondamentalmente, è un babbo di minchia, come mi insegnavano alle lezioni di letteratura comparata a Oxford. Al decimo bicchiere, la distanza si accorcia ulteriormente. Potrebbe cingerla alla vita, sussurrarle qualche amenità del caso e farle fare due risate. Invece no, prosegue il suo film muto nella convinzione che il suo sguardo ipnotico magnetizzi la bionda tacco dodici – che, tra l’altro, il serial killer sta fissando da ore dieci metri più in là – attirandola inesorabilmente verso di sé. Naturalmente, l’avrete già capito, la bionda si sta facendo calibrare le tettoie dal milanese, l’uomo del coito ergo sum. Della sfinge, a fine serata, non rimane che l’eterno enigma, leggermente modificato: il nostro fighetto è quell’animale che al mattino ha due gambe, la sera, causa testosterone in eccesso, tre, e a notte fonda, quando l’alcol è salito del tutto, quattro. Perché è così, a carponi, che se ne ritorna a casa. O quello sono io? Buona settimana a tutti.

Nota: questo post non sarebbe stato possibile senza le nottate di follia creativa passate, negli ultimi anni, con due assi del non sense come il Cioccio e il Bat – il personaggio del Papi, più che un’idea, è l’idea di un progetto – e senza il supporto inventivo di L di L&L, geniale coniatore e ispiratore di definizioni e neologismi urbani. Questo post è anche il loro.


lunedì 22 marzo 2010

Paura e delirio a Zurigo

Si accendono le luci. Signorie e signore, la festa è finita. Riluttanti e a malincuore, abbandoniamo la pista da ballo che, devo ammettere, questa notte ci ha visto protagonisti. E non parlo di piroette alla Roberto Bolle. Lo sbalzo termico tra interno ed esterno ti colpisce come un gancio destro in piena mandibola. Se sei una persona normale. Se, invece, il tuo corpo è un’autostrada percorsa da litri di vodka, il gancio te lo prendi lo stesso, ma rimani lì, fermo, impassibile. Porgi l’altro gancio. Quello che invece serve, in momenti come questi, è qualcosa di grande e grosso da infilare in bocca. Sto parlando di uno di quei panini grossi come un disco volante che colano salse da ogni lato. Direzione Burger King, 200 metri più in là. Il gruppo di filologi è composto da un milanese trapiantato a Londra e folgorato sulla via del kebab, un pettinato maledetto alle prese con una gastrite da bollicine e un’alitosi da alcolizzato, L&L, miei fedeli compagni di bisbocce zurighesi affetti, come me, da vampirismo, e il sottoscritto che si era ripromesso, almeno per una volta, di bere e fumare poco e invece, come al solito, ha ceduto ai vizi più sfrenati. Le diserzioni sono due. La prima ha avuto luogo un paio di ore prima, quando Mr.X, dopo aver scaldato gli animi con il numero dell’orologio, la pantomima del sodomita belga e la teoria della prestidigitazione alla thailandese, ha abbandonato improvvisamente le luci della ribalta, ripiegando per non si sa bene dove. La seconda si è svolta pochi minuti prima della spedizione verso hamburger e patatine fritte, quando Mr.C, dopo aver passato metà serata seduto, in silenzio, a scolarsi una vodka dietro l’altra e l’altra metà a dimenarsi come un tarantolato in preda al canto delle sirene orientali, ha provato a sbiascicare disperatamente qualcosa prima di infilarsi dentro a un taxi e perdere l’uso neuronale per un discreto numero di ore. Pochi metri prima di raggiungere l’agognata meta, L, quello del famoso protocollo uno, due e tre, l’ideatore della lumacosi conclamata e di quella addirittura incancrenita, ha un’idea a dir poco geniale: per nulla sensibile all’effetto dell’alcol, prende la rincorsa e, con una perfetta azione da giocatore di hockey, si lancia contro un cartellone pubblicitario, subendo l’azione di una forza uguale e contraria che lo sbalza con violenza per terra. La scena suscita l’ilarità generale e il ricorso all’uso della forza della polizia zurighese, pronta a intervenire decisa alla prossima cazzata etilica con elicotteri e agenti anti sommossa. Visto che sono l’unico, qui, ancora dotato di quel minimo di civiltà necessaria per ordinare, entro e mi metto in fila. Peccato che la civiltà mi abbandoni a causa di un attacco narcolettico fulminante, immortalato alla maniera nipponica da quei gran bastardi con cui mi tocca andare in giro. Le riprese non vengono gradite dall’uomo della sicurezza, che li avverte che, per molto meno, ha costretto diversi clienti a seguire l’intero festival di Sanremo. La minaccia non sortisce alcun effetto ed evapora senza lasciare alcuna traccia, come certi discorsi che mi tocca sorbire ogni tanto. Intanto, nella catena che unisce l’uomo alla scimmia, vengo superato dall’uomo terribilmente pettinato e pingue che, visto che io mi piego come un canneto sotto folate sempre più narcolettiche, fa un passo in avanti verso la condizione umana e prende il mio posto davanti alla cassa. Finalmente ordiniamo, perché si sa, l’appetito vien mangiando, mentre l’ape tito vien con l’ape ritivo. Il tentativo di darsi un contegno è però vanificato da un altro intervento a d’uopo di L, quello del famoso protocollo uno, due e tre, l’ideatore della lumacosi conclamata e di quella addirittura incancrenita, l’inventore del placcaggio del cartellone pubblicitario. Novello Pierino, si avvicina alla cassa con noncuranza, fischiettando ‘L’anello del Nibelungo’ di Wagner, tutte e quattro le opere . O forse non fischietta, ma è come se lo facesse. Insomma, arriva davanti al bancone e appena la ragazza è distratta, mimetizzato dietro a un muro, inizia a schiacciare tasti a vanvera sulla cassa, manco stesse suonando un Notturno di Chopin. Quando finalmente riapro gli occhi, mi ritrovo davanti a una cassiera che urla improperi in russo, all’esageratamente pettinato che blatera scuse di circostanza e a uno scontrino lungo almeno due metri. Non che mi importasse molto del resto, però quando ho visto quel papiro srotolato mi sono saggiamente chiesto “Ma quanto cazzo abbiamo speso?”. Mai giudicare dalle apparenze… In qualche modo, non chiedetemi quale, ne usciamo vivi. Io mi presto ancora a qualche scatto fotografico artistico in cui addobbo la mia stempiata incipiente con pezzi di pane, cipolle, patatine. Perché artisti si nasce. Quando cala la palpebra, però, non c’è più salsa che tenga, si torna a casa. Non senza aver fatto prima sosta al bar all’angolo per cappuccino digestivo e croissant. Ho uno stomaco multiculturale e democratico, evviva il melting pot culinario che fa stramazzare i dietologi e collassare i cardiologi. E poi tutti a nanna. Trasciniamo il piccolo grande pettinato, a fatica, su per le scale. Una volta mi è sembrato di avere visto una salma con più vita, ma forse ero io davanti a uno specchio, adesso non ricordo bene. Temo che il mio amico possa scoppiare da un momento all’altro, causando una catastrofe biologica. Almeno nel mio bagno. Invece, acqua, aspirina e pochi secondi dopo se la dorme, angelico, come un bebé, di cui, tra l’altro, conserva le fattezze, pancia a parte. L’altro, di amico, a malincuore si infila sotto il piumone e, investito da una fiatella che lo fa seriamente riflettere sulla possibiltà di chiamare un esorcista, cade in uno stato catatonico che qualcuno definirebbe sonno solo giusto per il fatto che il suo naso produce una russata del settimo grado della scala Richter che, in effetti, i più associano allo stato di riposo notturno. O ai bombardamenti in Afghanistan. E io? Io chiudo gli occhi e penso a quello che è stato, a ciò che è e che è già passato, a quello che sarà ed è già ora. E, come al solito, non ci capisco niente. Buona settimana a tutti.

lunedì 15 marzo 2010

L'iro-noia, tra sbadiglio e ironia

Milano. Ritrovato un uomo dentro a un caffè. Ristretto.

La Chiesa dice ancora no al profilattico. Pare che spaventi i bambini.

Una donna su tre simula l’orgasmo. Le altre due non sanno bene cosa sia.

Ahmadinejad da piccolo non riusciva a pronunciare il suo cognome. Per la verità, neanche adesso. Pare che la colpa sia da attribuire agli israeliani che, con l’aiuto dei massoni e dei sionisti, hanno ordito un complotto per abbassare il quoziente intellettivo del presidente iraniano a quello di un escherichia coli. L’ONU ha emanato una risoluzione di condanna che obbliga lo stato ebraico a farsi scrivere i comunicati internazionali da un bambino di tre anni.

Nuovo decreto legge interpretativo del PDL sul concetto di legalità. È legale tutto quello che a padre nostro che non sta in SKY ma ad Arcore piace. Bersani convoca subito una conferenza stampa dichiarando la sua fiera opposizione al decreto, visto che in questo modo Rosy Bindi risulterebbe illegale. Tuttavia, a detta dei politologi, l’argomentazione non risulta particolarmente efficace. Napolitano firma, anche lì dove c’è scritto che la firma di Napolitano è illegale. Nasce una diatriba sul paradosso del mentitore e il PDL ne esce fuori grazie a un decreto interpretativo in cui si stabilisce che il mentitore è Di Pietro. Grazie al nuovo decreto Berlusconi, appena reduce da un trapianto di anima, può governare fino al 2150. Bersani convoca subito una conferenza stampa dichiarando la sua fiera opposizione al decreto, anche se non si ricorda bene il motivo. Tuttavia, a detta dei politologi, l’argomentazione non risulta particolarmente efficace, visto che è molto probabile che l’opposizione degli attuali dirigenti del PD, una volta chiusi dentro a una bara, risulterà molto più fruttuosa.

La donna più vecchia del mondo ha 130 anni vive in un piccolo villaggio della Georgia, beve vodka e gioca a backgammon. Pare però che a breve, su consiglio dei medici, smetterà di giocare a backgammon.

lunedì 8 marzo 2010

Tanto Chiasso per nulla


Sono sull’EuroCity che mi porta da Zurigo verso Milano. Il treno cambia nome – addio vecchio Cisalpino – ma i problemi sono sempre gli stessi. Cinque minuti dopo la partenza, vengo investito da folate di aria gelida. Le porte automatiche che separano il vagone in cui mi trovo da quello successivo sono aperte. Mi alzo e provo, senza successo, a chiuderle. Sconfortato, torno al mio posto e mi doto di sciarpa e cappellino, indispensabili per affrontare la tormenta che si abbatte sullo scompartimento. E meno male che viaggio in prima classe. Passa il controllore. Mostro il biglietto e lo informo dell’inconveniente.

“Lo so, purtroppo sono bloccate. Se vuole può spostarsi qualche fila più indietro”

Dove, di fianco ai quattro tizi in giacca e cravatta in riunione da un quarto d’ora? O vicino a quell’energumeno che ha allestito un picnic a base di würstel e patatine e che ci inebria con odori pestilenziali? No grazie, ci tengo alla mia salute psicofisica. Mi infilo la giacca e, pregando di non cadere vittima di malattie respiratorie fulminanti, chiudo gli occhi. Buonanotte.

Chiasso. L’Italia a due passi. Treno fermo. Il mio indice fa girare vorticosamente la rotella dell’iPod alla ricerca di qualche brano che uccida un’ora di noia che ancora mi separa da Milano. Un’ombra minacciosa si manifesta improvvisa. Alzo lo sguardo. Un uomo di corporatura massiccia, barba di tre giorni e sguardo omicida mi scruta, in silenzio. Io lo guardo. Lui pure. Io lo guardo, lui pure. Trenta secondi così. Probabilmente è amore. Poi, lui decide di rompere gli indugi.

Dogana!”

Cosa? Soggetto, verbo, oggetto. Così mi hanno insegnato alle elementari e credo che sia un principio ancora valido. Attendo, con espressione interrogativa.

“Qualcosa da dichiarare?”, mi domanda con tipica arroganza italica e cadenza che ricorda il Vito Catozzo di anni fa, ‘… che se io saprei che mio figlio mi diventerebbe un orecchione, porco il mondo che c'ho sotto i piedi, vivo ce lo faccio mangiare il certificato di nascita!’.

“No”“È sua quella valigia lì?”
Eccoci. Mi sembrava.
“S씓Mhh… Bene”

Se ne va, a passo marziale, senza proferire altro. E la valigia, non me la controlli? Ci rimango malissimo e, disperato, provo a vedere se per caso ho scaricato la canzone di Pupo, Emanuele Filiberto e del tenore.

Milano. Tre meno un quarto del mattino. Forse tre. Sicuramente quattro, ma quelli sono i cuba libre ingurgitati. Sorseggio il mio concentrato di benzina mentre mi dimeno alle note di qualche motivetto anni ottanta. Una bionda ossigenata mi si para davanti. Io la guardo. Lei pure. Io la guardo. Lei pure. E siccome questa scena mi sembra di averla già vista, ho l’illuminazione: è la dogana! Invece, il controllo che vuole fare è ben altro.

“Proprio adesso che sto andando via mi devo innamorare?”

Allora l’effetto Axe funziona per davvero. Da gentiluomo educato alle arti e alla letteratura quale sono, scoppio in una fragorosa risata. Riflettendoci un attimo, capisco che non è la reazione più adatta, almeno non secondo le regole dei cavalieri dell’età cortese. Così, aggiungo delle parole riparatrici.

“Eh, mi spiace”

La ragazza mi abbandona e, per lenire il dolore provocatole, si getta nelle braccia di qualcun altro. Non credo sia vero, però mi faceva ridere scriverlo. Una mezz’ora più tardi, quando le luci si accendono e i cervelli si spengono, fa la sua entrata in scena AmmazzachemMazza, soprannome affettuoso donatogli non so se per doti naturali che non conosco e che ho avuto la fortuna di non sperimentare, ma certamente in virtù del caro nomen omen. Saluti, baci e abbracci, tutto questo mentre una squinzia di rara bruttezza e che da ore sta cercando di esprimere a parole un concetto reso oscuro da uno sbiascico continuo e incomprensibile mi si aggrappa a mo’ di scimmietta sul braccio sinistro, causandomi la sublussazione dell’emisfero cerebrale destro. Agito il braccio cercando di liberarmi dalla presa, ma quella ci fa due giri come una ginnasta provetta, atterra, suona i piatti, il tamburello e poi si accascia da qualche parte. Pronuncia ancora qualche suono che solo un gorilla fatto di crack oserebbe definire ‘parole’.

La serata è conclusa. Mi infilo sotto le coperte. I soliti pensieri si rincorrono nelle caverne vuote del mio cervello. Vale la pena di vivere? Non saprei rispondere e a volte ho qualche dubbio a riguardo ma, certamente, vale la pena di farsi un gran bella risata, perché, come scriveva Oscar Wilde, ‘La vita è una cosa troppo seria perché si possa parlarne sul serio’.

lunedì 1 marzo 2010

Il dono più bello

Olimpiadi invernali di Vancouver. Slalom parallelo di snowboard. Il commentatore di RSI2 – la rete svizzera italiana, per chi non conosce altra verità che la santissima trinità di canale cinque, italia uno e rete quattro – si perde nei meandri dell’italiano: “Dalla nostra postazione vedavamo…”. Vedavamo? Io vedavo, tu vedavi, egli vedava. Noi vedavamo. In effetti. Le atlete scendono e a fatica non ruzzolano giù per la pista nascosta dalla nebbia, ma quello che inforca il paletto, almeno con la lingua, è il telecronista.

Carolina Kostner è una che, agli appuntamenti importanti, non sbaglia mai. Una vera campionessa. Axel, caduta. Toe-loop, caduta. Flip, caduta. Il pubblico mormora. E lei cade. “Sento che ho ancora dentro da dare, non mi arrendo”. Sì, però la prossima volta, tiralo fuori. Saluta, addolorata, il giornalista e poi, credo, cade. La pubblicità interrompe il calvario. Sbuffo, e aggiorno il mio status di Facebook con frasi che lasciano il segno, tipo “Sopra la panca la capra campa”, “I trentatre trentini erano trentadue” o “Caos è il nome che indica un peculiare pre-oggetto del mondo nella sua totalità e del signoreggiare cosmico”. Non so quale fenomale prodotto sia reclamizzato in questo momento ma il mio orecchio sinistro, pur continuando a contenere un discreto quantitativo di acqua che potrebbe tranquillamente riempire una piscina olimpionica, capta queste due parole: “… sguardo penetrante…”. Fermi tutti! Mi raccolgo a riflettere. Un millesimo di secondo. Che cos’è esattamente uno sguardo penetrante? Qualcosa che ha a che fare con un maniaco sessuale, dal vago retrogusto spermatico? Lo sguardone penetrante. E poi cosa penetra? Domande senza risposta che afflosciano il mio, di sguardo, lasciandomi con quella tipica espressione ottusa dell’ebete. Non so perché, ma mi vengono in mente quegli occhiali a raggi x che venivano pubblicizzati su giornali culturali come L’Intrepido o Il monello e che millantavano la possibilità di penetrare i vestiti e guardare quello che c’era sotto. Io ero piccolino ma l’idea di poter vedere tette per tutta la città erà gia qualcosa che esercitava un discreto fascino. Adesso ci sono i body scanner negli aeroporti, ma non è la stessa cosa: se vado in giro con una roba del genere montata sopra un paio di occhiali, mi sa che non passo inosservato.

Ho ricevuto dalla mia famiglia un foglio. Su questo foglio sono scritte alcune frasi. Frasi per me. Frasi su di me. Frasi scritte da mio padre. Da mia madre. Da mia sorella. Sono parole bellissime, ma non riesco a ricordarle. E non ci riesco perché era un sogno. Era un sogno, ma non importa, perché questo è stato il regalo più bello che qualcuno mi abbia mai fatto. E anche se la luce del mattino si è portata via questo dono, me ne ha lasciato il ricordo. Un giorno, forse domani, forse tra dieci, venti anni, chissà, un giorno, io non ci sarò più. La mia vita, in quel momento, non sarà stata altro che un sogno, mio, o delle persone che mi hanno voluto bene. Purtroppo, non sarò lì a svegliarmi. La luce del mattino sorgerà di nuovo, e poi di nuovo e di nuovo ancora. Magari, però, proprio come quelle parole, sfuggenti, svanite eppure così presenti, il mio ricordo rimarrà come malinconico compagno, struggente pensiero, in qualcuno. In fondo, almeno un po’ - anche se non sapremo mai perché siamo gettati in questo stupido mondo per poi doverlo abbandonare, sempre troppo presto - si vive per questo. Anche per questo. E per questo io ricordo e ricorderò. Fino a quel giorno – Dedicato a chi non c’è più