lunedì 21 giugno 2010

Una rottura mondiale di palle

Eccoci qui di nuovo. Quattro anni dopo. Campionato del mondo di calcio. Un mese durante il quale l’homo sapiens, genere maschile, si incatena al divano e guarda qualsiasi partita che venga trasmessa in televisione nutrendosi solo di birra, pizza e patatine.

“David, possiamo parlare del progetto tra dieci minuti?”
“Eh, no, tra dieci minuti inzia Grecia-Corea del Sud”

Tra l’altro, visto come vanno le cose là nel Peloponneso, se i giocatori greci vincessero mai i mondiali, probabilmente verrebbero a testa. Dubito, però, che questo possa accadere facilmente. Molto più facile, invece, che io mi compri un’isola delle cicladi. Tipo Krotalofonissos, Figànissa o Eunatikòs, come mi rammentava poco tempo fa il mio carissimo amico Cioccio.

“David, ti ricordi vero della riunione?”
“No, dai, c’è Serbia-Ghana”

Serbia-Ghana?!!Sì, perché in questo periodo siamo posseduti dallo spirito di de Coubertin e neanche un esorcismo può esserci di aiuto. Rimaniamo incollati anche davanti alla partita più soporifera perché l’importante è partecipare. Dobbiamo partecipare e non importa se di alcune squadre non siamo capaci nemmeno di localizzare geograficamente il paese di origine. Per non parlare poi di quando gioca l’Italia. Parte l’inno e tutti in piedi a cantare e chi se ne frega se la nostra marcetta è un obrobrio musicale – avrebbero potuto distribuirle meglio quelle sette note, ma va bene lo stesso, stringiamoci a coorte, siam pronti alla morte, siam pronti alla morte, l’Italia chiamò. Poi, tutti insieme a soffrire e a gioire, a dare del cornuto all’arbitro e del coglione a Lippi, a incitare i giocatori come se ci potessero sentire e a suggerire tattiche, schemi e sostituzioni, convinti che il prossimo allenatore sulla panchina azzurra sarà uno di noi. Ci frulla ancora fra le orecchie il poo po po po po poo po, siaam campioni del moon-do. O forse, ci frullava, perché il leit motiv sonoro di questi mondiali sudafricani è una specie di scoreggione spacca timpani emesso all’unisono da migliaia di trombette di plastica chiamate vuvuzela. Un barrito continuo e incessante. Peeeeee!!! Peeeee!!! Ammetto la mia ignoranza in materia, almeno fino al fischio di inzio di questi campionati, quando mi sono avvicinato al televisore assestandogli due pappine mica da ridere. Mi ero addirittura convinto che gli stadi sudafricani fossero invasi da sciami di api geneticamente modificate. Invece no. Sono le vuvuzela. Maledette vuvuzela! C’è poi chi, succube del politicamente corretto e di quello spirito terzomondista sempre pronto a colpevolizzare noi occidentali di tutti i mali del continente africano – una parte di ragione c’è sicuramente, ma cerchiamo di contestualizzare, per Dio! – strombazza ai venti prediche moralistiche che vedrebbero nelle vuvuzela una sorte di riscatto dei neri sudafricani nei confronti delle terribili politiche segregazioniste degli anni passati. Politiche terribili, ma se la vuvuzela fa parte di questo riscatto, siamo messi bene. Allora sì che, rispetto a questi strombazzamenti, preferisco quelli delle vuvuzela. Che, però, lo confesso, mi hanno veramente rotto i coglioni. Buona settimana a tutti!

p.s: non posso negare che, questi mondiali, senza gli amici storici che mi hanno accompagnato per tutti questi anni fin da quando ero un ragazzino magro magro, alto due mele e poco più, senza un’ombra di barba e con la voce da femminuccia… be’, sono un’altra cosa, e loro mi mancano. Ma la vita è fatta così, si iniziano nuove e stimolanti avventure consapevoli che quella vissuta fino ad adesso è stata affrontata con i migliori compagni di viaggio che si potessero trovare. Questo post è dedicato a tutti voi. Forza azzurri!


lunedì 7 giugno 2010

Psicopatologia della vita d'ufficio quotidiana

Giro come una trottola. Londra. Berlino. Milano. Ancora Londra. La sveglia non è un incubo perché non faccio nemmeno in tempo a sognare. Suona sempre troppo, dannatamente presto. Trolley pronto. Zaino pronto. Si parte. Casa, autuobus, treno, aeroporto, taxi, ufficio, albergo, taxi, aeroporto, treno, autobus, casa. Manager azzimati con 24 ore e financial times, banchieri incravattati, donne algide in tailleur ingessati e tacco dodici. Indescrivibile noia mortale. In tutto questo girovagare, gli assoni giocano brutti scherzi. Dopo quattro ore di sonno, abbandono la piovosa Zurigo e vengo accolto da un’insolita calda e soleggiata capitale inglese. Azzarderei ‘estiva’. Sono commosso. Il taxista mi fa da Cicerone e gli dimostro il mio apprezzamento con degli sbadigli che impressionerebbero il più audace dei domatori di leoni. Dopo essermi sorbito un’ora e dieci di traffico e chiacchiere letargiche, arrivo finalmente – si fa per dire – in ufficio. Tempo di accendere il computer, aprire la posta, bere un bicchiere di acqua e sono già in riunione. Entro nella stanza, stretta di mani. Lui, il responsabile del progetto per cui sono stato costretto a prendere l’ennesimo volo, è un bell’uomo dall’inglese fluente e il marcato accento tedesco. Omosessuale. Irrilevante, ma non per la mia storia. Andiamo a pranzo. Comodamente seduti su un paio di gradini, mastichiamo un panino ripieno di pollo e pomodoro e ingurgitiamo coca. Coccolati dal tepore del meriggio, osserviamo il lento e antico fluire del Tamigi. Il tedesco mi parla della sua vita. Professionale. È di Amburgo. Quando si dice il caso: proprio in mattinata avevo conosciuto un altro ragazzo di Amburgo. La tentazione è troppo forte e infatti, non resisto.

“From Hamburg? Really? You know, there is also another gay that…”

Cosa ho detto? Cosa cazzo ho detto?!!

Il tempo collassa. Lo spazio pure. Non capisco cosa stia succedendo. Mi sto rimpicciolendo? Brunetta mi guarda dall’alto e fa ciao ciao con la manina, io continuo a rimpicciolirmi. Litigo con un battere, mi scontro con un microbo e vengo abbattuto da un paio di nerboruti globuli bianchi.

Non posso averlo detto. E invece sì. Caro Freud, sarà pure un lapsus, ma il fatto di saperlo non mi aiuta a evitare l’immensa figura di merda. Stratosferica. Galattica. Aiutatemi con le iperbole, grazie.

Colpo di tosse nervoso. ‘Ehm, a guy that comes from Hamburg’

Lui non lascia trapelare nulla. Il suo volto è una tabula rasa di emozioni. Io, intanto, sto cercando una voragine in cui sprofondare. Non la trovo, ma intanto mi tocca assistere allo spettacolo orripilante di una ragazza inglese cresciuta a fish and chips e bevande caloriche che affonda le fauci in quattro chili di hamburger mentre il suo giro vita straripa dalla diga di contenimento della tenda che usa come maglietta. Direi che, come punizione per il mio linguistico atto mancato, può bastare.