lunedì 26 luglio 2010

Some sing and Sang Som

Sabato sera. Cena a casa di L di L &L. Come antipasto, assistiamo al varo della turbo nave da parte della Contessa Serbelloni Mazzanti Viendalmare per chi non se lo ricordasse, apice tragicomico de Il secondo tragico Fantozzi – che ci procura lesioni di secondo grado al congiuntivo (“Capovaro, vado?” “Vadi, contessa!”), crampi allo stomaco e lacrimazione copiosa. Dopo, ci sediamo a tavola. Alla mia destra, L di L&L, gran cerimoniere della serata; di fronte a me, L di L&L, l’uomo creato a immagine e somiglianza dello Zukunft. Il menu prevede pasta al dente condita con pomodorini e mozzarelle. Deliziosa. Divina. FA-VO-LO-SA, ma questo lo dico solo quando mi metto i tacchi a spillo. Dominati dall’ingordigia, invochiamo ad alta voce il bis e affondiamo nuovamente le nostre fauci nell’italico carboidrato. Con la gonfia panza a denotare importanza, ci accingiamo quindi ad affrontare il piatto forte della serata: il Sang Som. Solo a pronunciarne il nome si rischiano effetti collaterali: sudorazione incipiente, vuoti di memoria, euforia. Il primo shot di questo rum tailandese incenerisce lo stomaco. Il secondo provoca una crisi di astinenza. Il terzo è concesso solo agli impavidi, agli eroi e ai condannati a morte. Noi, giustamente, infiliamo nel gargarozzo il quarto, mentre naso e orecchie ci fischiano come locomotive dell’Ottocento. Direi che siamo pronti per uscire. Ed è proprio quello che facciamo. Giunti alla fermata del tram, L di L&L, colto da visioni mistiche, compie uno scatto da centometrista e gli viene conferita direttamente la medaglia d’oro per l’impresa sportiva, mentre l’altro L di L&L e il sottoscritto gli arrancano dietro. Intanto, gli svizzeri si controllano il portafogli. La parlantina si fa fastidioso cicaleccio, i toni si alzano. Arrivati a destinazione, L di L&L, si trova davanti a un Sang Som gigante che lo investe cavaliere dell’ordine di Koh Samui: così, scende facendo bungee jumping dal tram e compie un altro scatto da centometrista mentre Usain Bolt si dispera per lo smacco, l’altro L di L&L e il sottoscritto gli arrancano dietro e gli svizzeri si controllano il portafogli e pure l’orologio. Poco soddisfatto della prestazione mediocre, L di L&L, non L di L&L, in procinto di avvicinarsi al semaforo, scatta come un proiettile espulso dalla canna di una pistola, cento metri di sudore accompagnati da urla guerriere che tanto ricordano le temibili scimmie urlatrici. Questa volta, L di L&L gli arranca dietro, me compreso, mentre gli svizzeri si controllano il portafogli, l’orologio, le chiavi di casa, della macchina e le fidanzate. Due ragazze, pensando a un attentato terroristico, saltano per aria per poi cadere in preda al panico. Sang Som! Raggiungiamo amiche e amici per un bicchierino, poi, quando a stento riconosciamo la destra dalla sinistra, ci dirigiamo tutti verso il Jade, tipica discoteca fighetta zurighese dove le donne possono entrare solo accompagnate da gonna modello mutanda e tacco 15 mentre gli uomini solo se hanno il borsellino gonfio di stress settimanale e sono incarogniti con la vita. Il comune denominatore è il microcefalo mono neuronale. Occasione del nostro ingresso, salutato dalla folla con deferita indifferenza, è la partenza di F.P., buon amico di L&L – entrambi – per Damasco. Medio Oriente canaglia. Procedendo a fatica in mezzo all’assembramento di persone – il locale sembra uno di quei tacchini ripieni a puntino e che sembrano sempre sul punto di esplodere –, arriviamo al tavolo di F.P., un campo minato da bottiglie di vodka. Baci, abbracci, cin cin e Sang Som. Sang Som! La mia attenzione, però, viene attirata dal tavolo di fianco, circondato da fanciulle sculettanti e starnazzanti dal cervello ibernato. Meno trenta gradi. Presumo. Colpito dalle loro sinapsi spumeggianti, recupero la lingua, che nel frattempo si era srotolata come un tappeto rosso, e gonfiandomi come un pavone, spalleggiato da L di L&L, mi faccio avanti. Sang Som! Anche qui, baci, abbracci, cin cin e Sang Som. L’idillio, però, dura giusto il tempo di accorgerci che ci troviamo di fronte a un gruppo di dure e pure fighette zurighesi di denominazione di origine controllata che si caratterizzano principalmente per spiccata territorialità e relazioni endogene. Cosa ho scritto?!! Infatti, un paio di loro, portavoci di questo sistema tetragono alle spinte rinnovatrici esterne, ci fanno sciò con la manina, spingendoci al di là della corda tirata tra i due pali che delimita l’area del loro tavolo, giustificando il tutto con un “Abbiamo prenotato”. Come non capirle, d’altronde, sono fatte così. Può capitare di andare in giro per la città e vedere questi nugoli di principesse sul pisello biologico – niente ogm, per piacere – che se ne vanno a zonzo sempre con questa corda dietro, pronte alle circoscrizione dell’area. Il loro problema è dato dalla parola ‘prenotare’, che suscita in loro istinti elvetici primordiali, sentimenti legati alle cassete di sicurezza, fobie di persecuzione da cacao. Per esempio, prenotano una visita dal dentista. Be’, loro si siedono sulla poltrona della tortura, ma il medico non riesce ad avvicinarsi: loro hanno prenotato e steso subito la corda per ribadire il concetto. Prenotano un tavolo al ristorante, ma poi andate a spiegarlo voi ai camerieri come versare il vino da due metri di distanza. Nella stagione degli amoreggiamenti, il disagio arrecato allo svizzero in corteggiamento amoroso è notevole, tant’è che una volta che l’oggetto dei suoi desideri è sdraiata sul divano con questa cazzo di corda, lui non sa più che pesci pigliere, nemmeno il suo. Un pericolo sociale. Per concludere degnamente la serata, assistiamo in diretta a un tragico melodramma con protagonista una nostra amica che, dopo essere stata sbattuta fuori dal Jade per non si capisce quali motivi, scoppia in un pianto dirotto che viene fermato solo grazie all’intervento di Bertolaso e della protezione civile. C’è da dire che in genere il buttafuori medio, più vicino a un orango che a un professore universitario nella scala dell’evoluzione, non spicca per doti di sensibilità, quello zurighese non è certo un eccezione, anche se, mentre la accompagnava verso l’uscita, mi è parso che le sussurrasse all’orecchio qualcosa tipo “Due cose riempiono l'animo di ammirazione e venerazione sempre nuova e crescente, quanto più spesso e più a lungo la riflessione si occupa di esse: il cielo stellato sopra di me, e la legge morale in me”, ma non ne ho la certezza, non quella noumenica. Per risollevarci l’animo, sprofondato nella cupezza dei Grigioni, andiamo a fare due salti allo Zukunft, giusto per non perdere le buone abitudini e gettare lo stomaco oltre l’ostacolo. Sapete benissimo come va a finire senza che ve lo stia a raccontare, anche perché, non me lo ricordo affatto.

Bene, è giunto il momento di congedarmi. Temporaneamente. Dal lavoro, e da questi post, che impegnano parte dei miei fine settimana da ormai un paio di anni. È stato un periodo lungo, faticoso, disseminato dalla solita lunga scia di frustrazioni, delusioni, speranze, tristezza, gioie –non tantissime – e soddisfazioni. Non ho ancora risolto niente della mia vita e le domande che mi ponevo qualche anno fa si ripropongono oramai con sempre più insistenza. Purtroppo, come sempre, le risposte non arrivano mai anche perché, se ci sono, spesso sono banali e noiose, e allora meglio continuare l’eterna ricerca e rimanere nel mio limbo spirituale che si nutre di un pessimismo cosmico ormai inarrestabile. Domenica prossima – 1 agosto 2010 –, sul volo El Al per Tel Aviv, iniziano finalmente le mie vacanze. Non resta che salutare voi, pochi e pazienti lettori delle mie idiozie settimanali, e rimandare l’appuntamento del lunedì a fine agosto. Ah, dimenticavo, ho appena ordinato un nuovo modello di televisore: il Sangsom, che promette delle visioni davvero eccezionali. Buone vacanze a tutti e Sang Som!!!

lunedì 19 luglio 2010

La tempesta elvetica, il prete che è noi e l'ambasciatore eunuco

A Zurigo si muore di caldo. So che davanti a questa affermazione molti si staranno sbellicando delle risate, eppure è così. Sono ormai più di due settimane che la colonnina del termometro raggiunge e supera sgommando i trenta gradi. Incredibile. Sono ormai più di due settimane che il sottoscritto, sprovvisto di condizionatore o del più semplice ventilatore - del tutto inutili, in genere, da queste parti -se ne va a letto, cuffia e occhialini, e si immerge in un bagno di sudore. Una situazione insostenibile: ragazze in gonna e infradito, gente in bermuda attaccata a bottigliette di acqua gelata, piscine stracolme. Lo ha capito bene il governo cantonaledella città, che ha dichiarato il caldo afoso illegale. Così, due sabati fa un temporale, invocato per legge, si è abbattuto sulla capitale finanziaria della Svizzera.

Saranno state le otto e mezza. K. e io ci prepariamo per uscire. Il programma prevede pizza, birra e poi si vedrà. Notiamo il cielo cupo, plumbeo, che non promette nulla di buono. Cade qualche goccia.

Io: “Dici che ci conviene prendere l’ombrello?”
K: “Io la rischierei. Poi, se no, dobbiamo starcene tutta la serata in giro con l’ombrello”
Io: “Hai ragione. Tanto sono solo due fermate. Andiamo, dai, che sto morendo di fame!”

Tempo due minuti, tuoni e fulmini e ho finalmente capito il significato di ‘diluvio universale’. Credo che l’effetto sia simile a quello che si ottiene standosene sotto le cascate del Niagara. Con scatto da centometristi, raggiungiamo il portone riparato di una casa. Altre tre persone, oltre a noi, vi trovano rifugio. L’intensità dell’acquazzone aumenta secondo dopo secondo, il vento pure. Piove dentro il negozio di fiori a fianco a noi, sgocciola copiosamente dalla tettoia sopra le nostre teste.

K: “Speriamo che finisca in fretta”
Io: “Sì, sì, tranquillo, è un temporale estivo. Scroscia così per cinque minuti, poi smette”

Infatti, quaranta minuti dopo siamo ancora lì sotto. Poi, la furia della natura si placa, lentamente. Raggiungiamo la pizzeria.

Qualche ora dopo K. alza bandiera bianca: la battaglia contro la palpebra calante è irrimediabilmente persa. L di L&L – che, dopo cena, ci aveva raggiunto per aiutarci a raggiungere l’unico Stato che io veramente riconosco, quello d’ebbrezza – ce ne andiamo in direzione Bar 3000, usuale ritrovo di nottambuli alcolizzati e di avventori del club sottostante che salgono a farsi una sana fumata. Io, modestamente, faccio parte di entrambe le categorie. Seduti al bancone, iniziamo il solito girone infernale di cuba libre. Non chiedetemi il perché e il per come, ma dieci minuti più tardi confabuliamo con un ragazzo locale, genitori spagnoli, che ci tira la pezza della vita. Per essere simpatico, è simpatico, ma non penso diventerà il mio nuovo migliore amico. Tranne per quei cinque minuti di gloria. Insomma, visto che già ci diamo del tu, passiamo pure alle presentazioni.

“Hi, I’m Lorenzo”
“Hi, I’m David”

Lui ci guarda, sfodera un sorriso così grande che ci si potrebbero infornare un paio di pizze e sentenzia, alquanto sibillino:

You are me

Prego?

“You Lorenzo and you David, you are me”

Una volta almeno con gli acidi ti facevi dei viaggi, vedevi gli gnomi e parlavi con Dio incarnato in un barattolo di sottoaceti. Il punto interrogativo aleggia sui nostri sguardi.

“My name is David and my surname is Lorenzo. I’m David Lorenzo. You are me”

Intrigo svelato. La scoperta ci commuove a tal punto che saremmo quasi tentati di abbracciarlo, ma ci asteniamo per pudore. Parlando del più e del meno, scopriamo che è pure sposato.

“Sì, ma non sono un prete” dice ammiccando. E pensare che per un momento l’ipotesi ci era balenata per la testa. Difatti, un paio di ore dopo lo vediamo andarsene via mano nella mano con una specie di comodino dotato di un paio di tette modello mongolfiere. A celebrare la messa, credo.

Serata conclusa, come al solito, con trascinamento verso casa sui gomiti.

Termino il pezzo in maniera sconclusionata con una perla freudiana del commentatore di RSI ascoltata in diretta da L di L&L durante il Tour de France e che non potevo non citare: “Ambasciator non porta pene”. Poveraccio. L’ambasciatore. Buona settimana a tutti!!!

p.s: lunedì prossimo pubblico l’ultimo post prima delle mie tanto attese vacanze. Potete andare a festeggiare!

martedì 13 luglio 2010

Vodka Redbullshit

Sapete cos’è lo Zuri Fäscht? Neanche io, almeno fino a settimana scorsa. Il sito ufficiale parla di “Das Fest der Feste”, che non traduco per rispetto verso i vostri neuroni. È considerata la più grande festa popolare della Svizzera, dopo la sagra del Bratwurst e l’Heidi Swiss Festival, dove se prendi la roba giusta, ti sorridono i monti e le caprette ti fanno ciao. In Italia, invece, visto l’ultima manovra, della bella roba te la devi prendere comunque, visto che i risparmi ti fanno ciao, i politici ti incaprettano e al massimo ti sorride Tremonti. Ma non divaghiamo troppo. Insomma, prendete la fiera degli obei obei, aggiungetele concerti, discoteche all’aperto e fuochi pirotecnici per le strade, le piazze e le zone lacustri della città – Zurigo, non Milano – e capirete che cos’è lo Zuri Fäscht. Voci di corridoio mormorano che due milioni di persone siano affluite tra venerdì e domenica: stranieri, boscaioli, montanari, banchieri, contadini, paesani, tronisti, la carica dei 101, il gatto, il topo e l’elefante, solo che non… che non si vede un cazzo, perché la gente scorre come un fiume in piena, si accalca dovunque e rende impossibile qualsiasi movimento. Se starnutisco, sono quelli accanto a me che si soffiano il naso. Aggiungo che io odio la folla. Non mi piace il contatto ravvicinato con le persone, soprattutto con quelle che non conosco. Per questo non amo le manifestazioni. Per questo vado sempre più raramente a un concerto rock. Per questo non partecipo alle riunioni di condominio. Però… però non potevo non andarci. L’integrazione. Obbligata, visto che tutti i locali della città erano chiusi per l’occasione, e io non avevo nessuna intenzione di rimanermene in casa ad aggiornare lo status di Facebook.

Incominciamo da venerdì sera. Dopo una succulenta cena con il mio vicino annaffiata da ottimo vino francese e qualche bicchiere di rum e cola – cena che si svolge fuori, in balcone, con la luce estiva che si affievolisce, piano piano, una leggera brezza a smorzare l’insolita afa. Tutto perfetto, ci vorrebbero solo un paio di tette in più ad allietare il simposio –, decidiamo di raggiungere L di L&L, capocannoniere dei mondiali di… ecco… capocannoniere. Già vagamente alticci, ci facciamo trasportare dalla massa di gente riversa nelle strade. Dopo i tipici salamelecchi, ci muoviamo in direzione del tunz tunz. Ed eccoci arrivati, una discoteca a cielo aperto, Timo Maas alla console e di fianco a me una signora sopra la cinquantina che, con la grazie di un ippopotamo, si esibisce in movimenti scoordinati che difficilmente qualcuno oserebbe definire ‘ballo’. Qualcuno sobrio, intendo. Le faccio due piroette davanti, mi libro in aria e atterro al bancone degli alcolici.

“Dreimal Cuba Libre, bitte”, ordino gentilmente alla graziosa fanciulla che si avvicina con aria interrogativa. Purtroppo, l’aria interrogativa sembra non volerla abbandonare.

“Dreimal Coca und Rum, bitte”. Specifichiamo che non si sa mai. La sua espressione denota il dubbio scettico per eccellenza mischiato a dell’ottusità di un certo spessore.

“Wir haben keine Rum, entschuldigung”

Cosa? E quella bottiglia di Bacardi cos’è? Gliela indico. Lei la osserva, stupita, ma il suo encefalogramma rimane piatto. Po,i va a consultarsi con l’esperta di alcolici della zona, con cui confabula per un paio di minuti. Forse un paio di ore. Ignoro cosa si siano dette, fatto sta che ritorna da me reggendo tre bei bicchieroni pieni di coca e rum. Brava, adesso puoi tornare a servire le spume.

Vi risparmio il proseguio della serata, tanto basta che aggiungete il numero di bicchieri e sapete all’incirca come è andata. Così, passiamo direttamente a sabato. Verso mezzanotte, satollo di pizza e del solito paio di birre medie, mi incontro con alcuni amici, pronto a godermi un’altra nottata a base di musica elettronica. Tunz tunz tunz. Trema la terra e tremano pure i miei padiglioni auricolari. Davanti a noi, un prato invaso da zombie che muovono in aria le mani e oscillano pericolosamente a ogni battito sparato da casse grosse come condomini. Qui urge trovare una soluzione. Sono il signor alcol, risolvo problemi. Mi avventuro verso il bar con cautela, stando ben attento a non calpestare i corpi esanimi che minano il terreno. Finalmente, raggiungo il mio obiettivo. Attendo con pazienza il mio turno.

“Einmal Vodka Redbull, bitte”

Questa volta la ragazza addetta alla produzione di intrugli pare andare sul sicuro. Afferra una bottiglia di Smirnoff – che schifo fa la Smirnoff?! – e ne versa un goccio nel bicchiere pieno di ghiaccio. E quando scrivo ‘un goccio’, lo intendo per davvero. Se ci sputo, riesco a riempirlo molto di più, il bicchiere. Poi, annaffia il tutto con una cascata di Redbull. Appoggia il succo di frutta sul bancone e cerca di estorcermi 14 franchi. La guardo sbigottito. Guardo il bicchiere, e lo sbigottimento non fa altro che aumentare.

“Io veramente avevo chiesto una vodka redbull, questa cos’è? Vodka Redbullshit?!!”

Mi sarebbe piaciuto dirlo. Sarei stato osannato dalla folla, portato in trionfo sul palco e attaccato a una flebo di sei litri di Belvedere. Invece, non ho proferito parola e sono tornato in mezzo al prato, alla musica frastornante, ai fattoni frastornati. Lì, solo in mezzo a tutti, il succo di frutta in mano e il mio viso, afflitto, provato, una maschera di mestizia.

Questa storia mi ha insegnato una cosa. Una cosa importante. Una grande lezione di vita. Solo che non mi ricordo più quale, perché i cocktail successivi hanno fatto il loro sporco lavoro. Buona settimana a tutti!!!

lunedì 5 luglio 2010

La calza che benda perfettamente o la benda che calza perfettamente?

Delle ultime otto settimane, sei le ho passate viaggiando. Londra, Berlino, Londra, Interlaken, Milano, Berlino. Una volta l’aeroporto esercitava un forte fascino su di me. Rappresentava l’agognata vacanza. I ricordi adolescenziali legati all’Inghilterra. La scoperta delle capitali europee. Il mare della Grecia, l’ouzo, Israele con i suoi umori, odori e sapori. E le ragazze, incontrate, incrociate o seplicemente sognate. Fino a pochi anni fa, ancora, quando vedevo un aereo sorvolare il cielo meneghino, pensavo a quei fortunati che, con le loro cinture di sicurezza ben allacciate, abbandonavano, almeno per un periodo, il fardello della logorante quotidianità. E li invidiavo. Me ne stavo lì, con la testa all’insù, fantasticando. Nell’attesa, quella cara a Leopardi.

Ora, invece, mi viene in mente solo una schiera di uomini d’affari incravattati, seduti al loro posto, bocca aperta, testa penzolante, la 24 ore sotto il sedile e il trolley da viaggio nero stipato insieme a un centinaio di altri trolley neri, tutti uguali. Benvenuti nel mondo degli adulti.

Così, tanto per cambiare, martedì scorso mi ritrovo a Malpensa – ero a Milano per un fantastico fine settimana a base di estrazione di dente del giudizio –, in attesa di imbarcarmi sul volo diretto a Berlino. Volo delle nove e dieci di sera, giusto il tempo di atterrare, prendere un taxi, fare il check in in albergo e infilarsi a letto. Una meraviglia. Comunque, cena che prevede insalatona e bicchiere di vino rosso, il tutto condito con un salatissimo conto di oltre trenta euro che mi fa capire che, forse, il dente del giudizio mi sarebbe tornato utile ancora per qualche giorno. Poi, attesa. Mi rimbambisco di notizie di gossip urlate da un paio di televisori che nessuno, intorno a me, ascolta. Sembra che quell’attrice reciterà in quel film. Quell’altra, invece, pare di no. Il bellimbusto ha l’unghia incarnita: me ne dispiaccio e mi domando come sia potuto capitare. Una tedesca sulla ventina, vestita con poco o niente addosso, urla come la peggio delle pescivendole pensando di essere divertente. Infatti lo è, almeno nella mia fantasia, quando un’incudine di cinquanta chili le cade in testa, trasformandola istantaneamente nella miniatura di se stessa in scala uno quaranta. Visto che la fantasia non riesce facilmente a tramutarsi in realtà, le compro due branzini e un’orata. Cinque minuti prima delle nove ci imbarcano. Posto rigorosamente sul corridoio, così posso allungare una gamba e, nel caso, procedere a operazioni di svuotamento vescica senza dover saltare sopra corpi inerti colpiti da narcolessia fulminante. La mia vicina, da cui mi separa un sedile, è di una bruttezza rara. Non penso di aver mai visto una donna così brutta nella mia vita. Anzi, non credo proprio che esista una donna così brutta , e in effetti forse sono ancora gli effetti dell’anestetico. Mi saluta, poi guarda fuori dal finestrino. Forse vuole suicidarsi fissando la sua immagine riflessa. Dopo la solita pantomima sulla sicurezza, l’aereo ingrana la quinta e decolla. Lo ammetto, non mi abituerò mai: ogni volta che il mio culo si alza dal suolo, provo sempre quella entusiasmante sensazione di morte imminente. Intanto, noto dei movimenti alla mia sinistra. La vicina si leva le scarpe. La comodità prima di tutto. La vicina si toglie pure le calze. Facciamo prendere aria alle estremità inferiori, ossigeniamo gli alluci. La vicina prende le calze, le annoda tra di loro e si lega la benda improvvisata sugli occhi. Neanche MacGyver sarebbe mai arrivato a tanto. A metà viaggio me la ritrovo che russa sdraiata su due sedili, bocca spalancata in una imitazione mal riuscita dell’Urlo di Munch, la testa appoggiata alla mia gamba sinistra e quelle cazzo di calze pregne di microbi e odori annodate sempre intorno agli occhi. Oh, Dio, ti prego, fammi perdere i sensi. Ora! A questa scena a dir poco orripilante pone fine, prima dell’atterraggio, una delle hostess, che sveglia il cadavere roncopatico utilizzando, se non ricordo male, un defibrillatore.

Un’ora più tardi, spengo la luce della camera d’albergo e ripenso alla vicina, all’aereo, all’aereo e alla vicina e mi torna in mente il volo di ritorno da Mykonos del 2001, quando la ragazza seduta accanto a me, fresca di recente Nobel, mi chiese: “Ma gli aerei per decollare utilizzano una pista in salita?”. Eh, certo… Buona settimana a tutti!