lunedì 22 novembre 2010

Un mercoledì da beoni

La domanda mi frullava nella scatola cranica da un po’.

“Fra, ci sono squali a Santa Cruz?”
Francesco: “Be’, sì. Comunque l’ultimo attacco risale a una decina di anni fa”

Ottimo. Non ho idea di cosa significhi, ma ottimo. Forse che i surfisti californiani non sono più gustosi come una volta. O forse che gli squali sentono la concorrenza di avvocati e banchieri e preferiscono tenere una linea defilata.

Francesco: “Nel caso, un bel cazzotto sul muso

Adesso mi sento più tranquillo. I sei anni di pugilato mi saranno serviti almeno a qualcosa. Se mi trovo faccia a faccia con un pescecane, montante sinistro, gancio destro. Poi arriva l’arbitro a contare ed è fatta. Anche i miei compagni di viaggio, ora che ne sono al corrente, si sentono più tranquilli. Infatti domandano cortesemente se sia possibile, nel caso, arenarsi sulla spiaggia e costruire delle piste per le biglie o dedicarsi, come ultima alternativa, al gioco dei racchettoni.

Squalo o no, non rinuncerei mai all’occasione di fare surf in California. Almeno una volta nella mia vita. E la giornata limpida, con i suoi 28 gradi, non è altro che il sigillo papale finale. Un 3 di novembre che non mi scorderò facilmente. Zurigo e il suo clima polare sono una reminiscenza lontana soffiata via dalla brezza oceanica.

Di questa cosa credo che Francesco me ne parli almeno da un anno.

“Quando vieni a trovarmi negli Stati Uniti, ti porto a fare surf”. La promessa è stata mantenuta. Così, alle 4 del pomeriggio, siamo tutti in macchina in direzione di Santa Cruz: Francesco alla guida, io di fianco e dietro L, S e D. Di solito non cito mai i nomi di chi appare nei miei post, ma in questo esprimo a Francesco l’eterna riconoscenza per la realizzazione di un sogno che mi porto dietro da quando vidi per la prima volta Un mercoledì da leoni. Abbordare delle ragazze californiane.

Traffico sostenuto ma scorrevole. Siamo tutti eccitati. Francesco, dopo aver appreso delle mie arti da killer professionista, gioca un’altra carta. Quella delle onde. Due metri di altezza. E mentre D, dietro, diventa sempre più pallido, ceruleo, una mozzarella con i capelli alla Renegade, io me ne impipo, perché il mio cerebro non riesce ad afferrare il concetto. E poi, cosa volete che siano due metri di onda per uno che è sopravvissuto a dieci edizioni del Grande Fratello? Proseguiamo sulla strada tra tornanti e curve paraboliche. Il tall latte di Blockbuster, una versione a stelle strisce del nostro cappuccino creata appositamente per soggiogare gli stomaci dilatati degli americani, scorre freneticamente nel mio duodeno e per alcuni istanti ho la sensazione di essermi trasformato in qualcosa di aereo, impalpabile. Tipo un peto, ma con più denti. Francesco, che in fondo all’animo è un buono, decide di alleviare la missione kamikaze impartendoci una breve lezione di nozioni basilari da apprendere prima di entrare in acqua con la tavola. Io faccio finta di prestare attenzione e intanto mi immagino mentre cavalco l’onda e le tre conigliette di Playboy, là, sulla spiaggia, che impazziscono per le mie acrobazie e i miei bicipiti scolpiti alzando e abbassando per intere nottate bicchieri pieni di cuba libre. Devo ricordarmi di chiamare il vecchio Hugh prima di tornare in Italia. Magari gli serve una mano. L, invece, gioca distrattamente con il cellulare mentre S, che dice di sapere l’italiano, mostra segni di assenso con il capo anche se ho il forte dubbio che non capisca assolutamente nulla. D è l’unico che sembra davvero interessato alla lezione. Un interesse suscitato dal terrore, tant’è che pochi minuti dopo, posseduto dallo spirito del Furio di Bianco, Rosso e Verdone, chiede in successione: temperatura dell’acqua, direzione e velocità del vento, percentuale di umidità, peso specifico della tavola e un amaro Lucano. Se ricordo bene. Arrivati a destinazione, andiamo alla ricerca di un posto che ci affitti l’attrezzatura necessaria. Il tizio del negozio, cappellino da baseball in testa ed espressione inebetita dalla salsedine e da troppi anni passati davanti allo specchio a schiacciarsi i brufoli, non ne vuole sapere di affittarci le tavole. Le onde sono troppo alte per dei principianti. D intanto è svenuto. Francesco gli spiega che non c’è nulla da temere perché, se Michael Phelps può continuare ad abbattere un record dietro l’altro, è solo grazie al fatto che io, ragazzo modesto e di animo nobile, preferisco starmene dietro le quinte e lasciarlo fare. Quindi, nel caso le cose si mettano male, io sono il loro Mitch Buchannon. Il tizio mi lancia un’occhiata. Forse non se la beve. Il tizio dice occhei occhei. Forse se l’è bevuta. Dieci minuti dopo siamo in spiaggia. Devo ammettere che infilarmi la muta non è stato semplice e la faccenda è stata complicata ulteriormente dal fatto che la prima volta me la sono messa all’incontrario, segno evidente di precoce demenza senile. Prima di entrare in acqua, ci sdraiamo sulle tavole e proviamo a saltarci sopra mantenendo la posizione di equilibrio. I tentativi sono alquanto pietosi e, visti da lontano, sembriamo quattro foche spiaggiate. E quelle che si vedono roteare sui nostri nasi, sì, sono proprio palle. Bando alle ciance, è ora di entrare in azione. Sappiate che quando vi dicono che l’acqua dell’Oceano è fredda, mentono. Infatti, è ghiacciata e i miei piedi subiscono istantaneamente un processo di criogenia, trasformandosi in due lapidi che penzolano inerti dalle gambe. Il surf del principiante non è altro che un’attesa spasmodica dell’onda, una pagaita continua con le braccia che fiacca anche i fisici più allenati e basta, perché scordatevi di cavalcare l’onda. Per la verità, e non chiedetemi come ci sia riuscito, io ce l’ho fatta. Sono riuscito a conquistare la tanto agognata posizione e mi sono sentito sollevare verso il cielo. Avevo già il dito puntato modello Giudizio universale. Una sensazione incredibile. Ricordo di aver pensato “Che figat...”, ma non sono riuscito nemmeno a concludere il pensiero – un vero peccato, ne sono certo, per l’élite intellettuale mondiale – che il muro di acqua, una valanga inarrestabile, mi ha sbattuto giù, centrifugato a trenta gradi e per quattro o cinque secondi sono stato in balia di questa incredibile forza della natura, incapace di intendere e di volere, di riconoscere la destra dalla sinistra, il sopra dal sotto e il PD dal PDL. Insomma, il tronista perfetto.

La giornata si è conclusa poi nel modo più degno, ovvero davanti a quattro birre, lo scrosciare lontano delle onde, sottofondo ideale di un imbrunire che ha quel sapore melanconico di un qualcosa che finisce e che, ahimè, non tornerà mai più, perché sì, lo diceva già Eraclito, tutto, inevitabilmente, scorre. Come la nostra vita. Grazie Francesco perché, a 34 anni, e lo scrivo senza retorica, ho capito di nuovo cosa vuol dire essere un bambino – ecco perché il mio pene, uscito dall’acqua, era così minuscolo... Buona settimana a tutti!

lunedì 15 novembre 2010

Californicazione

Come è possibile che alle nove e mezza di un assolato e insolitamente mite sabato mattino zurighese il supermercato sia già un crocevia di persone? Non ho una risposta. Invece, ho un’altra domanda, ed è la vostra: come è possibile che alle nove e mezza di un assolato e insolitamente mite sabato mattino zurighese tu sia in un supermercato a fare la spesa? Bene, la risposta ce l’ho. Jet lag. Concedetemi un po’ della vostra attenzione e vi spiego come sono andate le cose.

Tutto ha inizio il 30 ottobre, quando dal finestrino dell’aereo Zurigo diventa sempre più piccola fino a diventare una mappa in scala. Sono certo che quel puntino in fondo è lo Zukunft. Mi attendono 12 ore di viaggio. Questo è il tempo che occorre per percorrere la migliaia di chilometri che mi separano da San Francisco. Come avrete capito, a meno che sulla vostra zucca non sia atterrata un’incudine di duecento chili, trasformandovi istantaneamente in una versione ebete di un euscherichia coli, sono diretto negli Stati Uniti. Quelli d’America. La mia prima volta nella terra dei padri pellegrini. Dire che sono emozionato non rende l’idea. Mi attende una settimana in California per quello che, sembra, trattasi di lavoro, e una di vacanza in quella città di cui, bene o male, so già tutto, essendo cresciuto con i film di Woody Allen. Ma andiamo con ordine.

Attenzione, questo post può nuocere gravemente alla vostra salute mentale.

Per i miei genitori, se mai sventuratamente dovessero imbattarsi in questo scritto: tutto quello che scriverò è privo di ogni fondamenta. C’è un nano antisemita che sotto la minaccia di una visione forzata di un intero anno di Uomini e donne mi costringe a scrivere fesserie contro la mia volontà. Amen.

Il benvenuto

Sulla strada per San Jose. Io e il mio collega D. Alla Hertz, dopo aver esordito con “Ci piace il football americano!” commentando tutte le bandiere esposte con scritto “Go Giants”, notoriamente una squadra di baseball, ci rifilano un navigatore ubriaco che funziona in differita. Lo stesso di Cristoforo Colombo. Arriviamo all’hotel verso le sette di sera, solo dopo aver circumnavigato le Indie. Lasciati i bagagli in stanza, andiamo a cena e decidiamo, per evitare di svegliarci nel mezzo del cammin di nostra vita con gli occhi sbarrati, fissi sul soffitto, di fare serata. Così, finito un caffè decisamente allungato, ci infiliamo nel locale di fianco per vivere l’esperienza di una vera festa di Halloween americana. Purtroppo non abbiamo nessuna maschera, ma sembriamo due zombie quindi il problema non si pone. Mentre sorseggio faticosamente il mio coca e rum, Cat Woman e Britney Spears in versione porno si accomodano sul divanetto davanti a me. Cat woman, dotata di un paio di protuberanze che non passano inosservate, decide che io sono l’uomo della sua vita e tenta il primo approccio con un semplice e sempre valido “Hello”. Io, narcotizzato dal viaggio e dal fuso orario, tento un accenno di saluto con il capo e non spiccico parola. Ho visto dei benjamin ficus fare figure migliori. Cat woman decide che non sono più l’uomo della sua vita e va a fare le fusa a Batman. D mi guarda esterefatto e pure Robin. Capisco la delusione cocente e realizzo che se voglio vincere la narcolessia e avere un minimo di interazione mi serve qualcosa di più forte: una sniffata di calzini e una vodka red bull. Così, qualche bicchiere più tardi, ci trasferiamo nel fighetto bar dell’hotel, ritrovo di tira tardi della zona, tediosi uomini d’affari in giacca e cravatta e ragazze in tacco 15 tirate a lucido. Con noi, due pupe che ci siamo trascinati dietro. La pupa dominante, colpita da tempeste ormonali, mi fa capire che sarebbe interessata a vedere la mia collezione di gesuiti euclidei. Investito da un improvviso attacco berkeleyano, titubo e perdo fiducia nell’esistenza della materia. Lei, seguage della scuola del dottor Samuel Johnson, si avvicina e mi sussurra “Solo sesso, però”, confutando così il mio universo ideale.

Per farla breve, ho dovuto sacrificarmi. L’integrazione impone l’accetazione di usi e costumi locali e a me piace integrarmi. E il giorno dopo, più che altro disintegrato, camminavo su e giù per le strade di San Francisco. Distrutto. La strategia per vincere il jet lag è stata un fallimento, ma almeno i miei sbadigli hanno assunto un significato del tutto inaspettato. Bene, direi che per oggi può bastare. I prossimi post saranno tutti dedicati alle mie due settimane di viaggio. Sono le tre del mattino. Proverò andare a dormire. Probabilmente non ci riuscirò. E i miei sbadigli, domani, saranno i soliti sbadigli di un monotono lunedì come tanti altri. Auguro a voi una buona settimana e a una persona a cui voglio molto bene una guarigione completa, sperando che presto possa tornare a casa e vedere la cartolina che, questa volta sì, mi sono ricordato di spedire. Ciao.