martedì 21 dicembre 2010

Gang bangs of New York - parte terza


E una bottiglia di vino se ne è andata. Il funerale è stato molto commovente, soprattutto quando gli alcolisti, radunatisi intorno al vuoto, hanno versato fiumi di lacrime amare. Lacrime di amaro. Inconsolabile, alzo la mano nel tentativo di richiamare l’attenzione del cameriere e ordinarne subito un’altra. Le ragazze mettono in scena una labile pantomima che dovrebbe arrestare l’improvvisato baccanale newyorchese, ma niente, oramai, può impedire al rito propiziatorio di andare avanti, nemmeno il Divino Otelma. E infatti, eccola, la nuova bottiglia, che si staglia sul tavolino, arrogante, boriosa, gonfia di rubizzo nettare. Nettare che ci vuol poco a prosciugare. La siccità alcolica è un tragedia con un retrogusto di vendetta che, come una ghigliottina, si abbatte sulla nostra arsura mentale. I sintomi sono facilmente riconoscibili e toccano una vasta gamma di stati interiori che partono dall’euforia e approdano, fatalmente, al disgusto per se stessi, alla penitenza, alla mortificazione e alla visione dell’ultimo film di Massimo Boldi. Ci vuole fegato e io me lo sono giocato con gli ultimi anni di cuba libre. Per farla breve, dopo avere deliziato le mie compagne di viaggio con profondi discorsi sul nulla, ho dovuto assistere a un dramma esistenziale che mi ha ostruito momentaneamente le arterie, impedendo all’ossigeno di portare nutrimento al mio cervello. Una delle due ragazze, trasformatasi nella versione sbiadita di un cadavere, pare clinicamente prossima alla morte e, fattasi muta tutta d’un tratto, inizia a ciondolare come un bravo ebreo ultraortodosso, ma più che verso l’alto dei cieli, mi sembra aneli a una prosaica tazza del cesso. Cerco di reperire informazioni sulle sue condizioni fisiche, che peggiorano con il passare dei secondi.

“Come ti senti?”

Dalla sua bocca escono dei vagiti che a fatica riesco a interpretare.

“Devi andare in bagno?”

Dallo sbiascichio impenetrabile estrapolo qualcosa che assomiglia a un ‘no’. La prendo in parola ma temo già l’inevitabile che, purtroppo, si manifesta una decina di minuti più tardi quando, aprendomi un varco nella mischia di gente, mi libero della prima linea di difesa, supero l’estremo e, spalancando a calci la porta del bagno, faccio meta infilando la testa della moribonda nel water. Da un corpo così esile e grazioso esce un getto di una potenza devastante che, come un buco nero di Kerr, curva lo spazio tempo e lo fa roteare. La ragazza ormai è un torrente in piena e io non ho nemmeno il numero della protezione civile. Quando finalmente rientra negli argini, la riporto al tavolo su cui, poco dopo, si accascia. A distanza di pochi minuti, la scena si ripete uguale, solo che questa volta il bagno è occupato e devo direzionare l’idrante sul marciapiede. Intanto, la gente si accalca all’interno del locale in attesa di un tavolo. Così, il factotum della città, Akiva, omonimo del ben più celeberrimo rabbino di cui, sfortunatamente, ha ereditato solo il nome, dopo essersi sincerato in maniera totalmente ipocrita delle condizioni della ragazza, ci invita a portare i nostri culi semiti da un’altra parte.

“C’è gente che aspetta”

Commosso da tanta umanità, mi vengono i lucciconi agli occhi. Mi converto istantaneamente al buddismo zen e cerco di risolvere un koan che domanda che rumore faccia l’applauso di una mano sola stampata con violenza sulla faccia del simpatico Akiva. Illuminato, raggiungo la consapevolezza: Akiva è uno stronzo. Non ci resta che seguire il suggerimento. Sono sicuro che due passi e un po’ d’aria fresca gioveranno al fisico debilitato della nostra amica. Mi alzo, mi infilo il cappoto e quando ho già un piede fuori dalla porta, succede l’irriparabile: l’idrovora scarica tutto il suo contenuto, o quasi, su pavimento e parte del tavolo. Con Tubular Bells in sottofondo, capisco che ormai non mi rimane che fare affidamento sull’esperienza di un buon esorcista. Padre Mayii. Pietrificato dall’imbarazzo, chiedo umilmente scusa a tutti quelli che stanno mangiando, a quelli che agognavano il nostro posto e che invece ora lo stanno cedendo generosamente agli ultimi arrivati e, già che ci sono, chiedo scusa per quella volta che mi toccai mentre mangiavo dei pasticcini alla crema guardando un film di Walt Disney. Portiamo fuori l’indemoniata che prosegue il suo lavoro, non senza aver fatto prima girare completamente la testa un paio di volte intorno al suo collo. Lo so, faccio sempre questo effetto alle donne. Poi, tramortita, sviene su una panchina. A naso, dubito che riuscirà a prendere l’autobus per tornare a Newark, dove alloggia temporaneamente presso una zia. Dopo un giro di telefonate, riusciamo a prenotare una stanza in un albergo non lontano da Time Square. L’altra ragazza propone di prendere la metropolitana, idea che boccio immantinente. Notare l’immantinente.

“Credo sia meglio se fermiamo un taxi”

A volte riesco ancora a meravigliarmi di me stesso. Alziamo un braccio e come per magia un taxi, sbucato da non so dove, accosta. Ci infiliamo dentro, la sofferente per prima, io in mezzo e l’altra a chiudere la processione. Il guidatore, che non è un idiota, intuisce subito che sotto si cela un attacco sionista organizzato dal Mossad, così ci chiede educatamente di scendere:

“Non voglio che mi sporchiate il taxi”. Riconosco le sue ragioni, perché una vita fa, quando ero ancora uno sbarbato senza patente e diritto di voto, mi ritrovai in una selva oscura, ubriaco, e dopo di quella in un tassì con il tassista che domandava al mio amico se ce la facevo ad arrivare fino a casa e il mio amico che mi domandava se ce la facevo ad arrivare a casa e io che rispondevo sì sì sì e poi io che rifacevo gli interni della macchina e il tassista che non domandava più niente e il mio amico che non domandava più niente ma solo un lungo silenzio imbarazzato. Rispondo, ostentando anche una certa spavalderia:

“Non si preoccupi. Nel caso, l’avverto in anticipo”.

Non fa tempo neanche a ingranare la seconda che la pompa antincendio alla mia sinistra sta per rimettersi in moto. Il pericolo è alle porte, devo agire con prontezza:

“Mi scusi, le spiacerebbe accostare... immediatamente!”

Il problema è che non può farlo. Non in quel momento. In queste situazioni, però, il tempismo è tutto. Mentre rallenta e cerca di trovare uno spiazzo in cui fermarsi, spalanco la portiera di sinistra, facendo così defluire il flusso canalizzatore di questa DeLorean che presenta un’evidente perdita al serbatoio. Il taxista cerca di voltarsi ma noi lo distraiamo con frasi di circostanza, luoghi comuni e una supercazzola d’autore. Il viaggio fino all’albergo è lungo e tortuoso. Una volta scaricati, paghiamo il leggendario santo guidatore e entriamo nell’atrio dell’albergo. Non è ancora finita. La signorina, dopo essere stata salvata, curata e scorrazzata, si lamenta dell’eccessivo prezzo della camera. Mah! Parte immediato giro di telefonate e ne recuperiamo un’altra pochi metri più avanti e molti dollari indietro. Ci precipitiamo all’istante. Durante la fase di registrazione, firma e ammenicoli vari, faccio accomodare la regina del conato su una poltrona, in cui affonda e scompare. Uno dei due ragazzi alla reception, che sta osservando la scena, mi sorride e mi indica la porta del bagno. Sorrido a mia volta e gli faccio presente che dentro a quel corpo ormai non c’è più niente. Niente. Finalmente, recuperata la chiave, la portiamo in stanza, la infiliamo sotto le coperte, spegniamo la luce e buonanotte. Sono esausto. Accompagno al suo albergo l’altra ragazza. Lei mi guarda negli occhi. Io la guardo negli occhi. Lei mi guarda negli occhi. Io la guardo negli occhi. Lei mi guarda negli occhi e allora io penso ma che cosa avrà da guardarmi negli occhi, sono sempre attaccati sopra il mio naso. Mi accomiato e mi incammino verso il mio, di albergo. Mezz’ora di camminata. Una volta aperta la porta della stanza, mi affloscio sul letto, esanime. Prima di entrare in letargo, penso che, tutto sommato, avrebbe potuto anche andare peggio. Per esempio... per esempio... be’, forse no. Buona settimana a tutti!


p.s: continua. Forse...


Gang bangs of New York - parte seconda


Dovete sapere che Broadway è una via piuttosto lunga. 20 chilometri circa da un’estremità all’altra di Manhattan. Perciò, meglio sapere esattamente dove si deve andare. Esattamente. Dopo aver esaminato accuratamente la cartina, sollevo il capo e con gesto teatrale, puntando il dito in avanti, indico alle mie due ospiti la giusta direzione e le invito a seguirmi. Le sferzate del vento si fanno più violente ma io, tetragono ai colpi di ventura, non mi faccio intimidire.

“È lontano?”, mi domandano cortesemente.

“No, saranno al massimo dieci minuti a piedi”. Quindici, contando la brezza contraria. Quando di minuti, però, ne sono passati venti, sul volto delle due israeliane compare un’espressione di disappunto. Mi guardo intorno, controllo di nuovo la mappa e incito le compagne di viaggio a proseguire:

“Siamo quasi arrivati!”

Altri dieci minuti. Incomincio a notare alcune discrepanze tra ciò che è stato codificato su carta e le mie facoltà interpretative. Infatti, controllando i numeri civici, mi accorgo che abbiamo abbondantemente oltrepassato la meta designata. Di centocinquanta numeri. Tuttavia, a mia discolpa, posso dire che se la Niña, la Pinta e la Santa Maria fossero state attrezzate con dei navigatori satellitari, non avremmo mai potuto affondare le fauci in un doppio cheesburger ricoperto da strati di cipolla. Di tornare indietro non se ne parla neanche. Ci infiliamo in un negozio e chiediamo consiglio per dei locali in zona a una commessa che non avrà più di sedici anni. Lei, sfoderandoci un contagioso sorriso che mette in bella mostra il suo tecnologico apparecchio ortodontico, ce ne suggerisce uno proprio girato l’angolo. Così, ci ritroviamo al pian terreno di questo stabile, davanti a un bar deserto. E chiuso. Sull’ascensore è affissa una targa con alcuni nomi.

“Ah, guardate: penso che dobbiamo salire al quinto piano”. Per l’alcol mi trasformo in un segugio da tartufo. Le due seguono ciecamente il loro vate metropolitano, anche se incominciano a mostrarsi alquanto spazientite. Quando le porte dell’ascensore si aprono, davanti a noi appare una distesa infinita di abiti da donna ordinatamente appesi su delle grucce che occupano l’intero spazio del loft. Chissà dove sono le bottiglie di rum?

“Possiamo aiutarvi?”

Come tartarughe che allungano il collo fuori dal loro guscio per brucare un po’ di erba, ci sporgiamo dall’ascensore e vediamo che alla nostra sinistra, nascosti da un bancone in legno che gira loro intorno, sono seduti, davanti a dei computer, due ragazze e un ragazzo che ci guardano con aria interrogativa. Spieghiamo il motivo per cui ci troviamo lì. Sorridono e ci dicono che il bar è a pian terreno e che questo è un atelier. All’americana, etelia.

Quindi niente rum?

Tra una frase e l’altra, noto che il ragazzo soffre di un tic all’occhio sinistro. Una delle due israeliane si avvicina e mi sussurra all’orecchio: “Mi sa che gli piaci”. Quindi, non sono in un bar e il ragazzo non soffre di alcun tic. Niente è quello che sembra, tranne il fatto che io, in quel momento, sembro un idiota, anche se tutto fosse solo un sogno. Il sogno di un idiota.

Cerco di trarre a mio vantaggio la cosa. Schiero l’esercito di incisivi, canini, pre molari e molari e, con un’oratoria che nemmeno il Marco Antonio shakespeariano con il suo “Friends, Romans, countrymen, lend me your ears”, lo incito a sfoderare il sorriso imbattibile. Chiedo quindi al ragazzo se conosce un posto carino dove bere un bicchiere e magari mangiare pure un boccone. Lui, colpito da pulsioni sessuali innominabili, vacilla; poi, ripreso il controllo, armeggia con il computer e pochi secondi dopo mi porge non solo una pagina stampata con nome e indirizzo del locale – e quello in piccolo, in basso a destra, deve essere invece il suo numero di telefono –, ma anche il plastico del ristorante con tanto di Bruno Vespa allegato e un set di pentole smaltate che mi porto a casa a soli 49 dollari più spese di spedizione. Ringraziamo, salutiamo e ci rimettiamo in cammino. Altri dieci minuti di marcia. Il posto, che si nasconde dietro a una porta anonima, è davvero carino. E minuscolo: un bancone, cinque tavolini e un cesso. Con nostra fortuna, uno dei tavolini è libero e non importa se i posti a sedere sono solo due e me ne devo stare con metà culo fuori dal divanetto e le ginocchia incastrate sotto il tavolino. Ordiniamo. O meglio, ordino. Cozze alla marinara, un assaggino di questo, un assaggino di quello e una bottiglia di ottimo e costosissimo vino rosso italiano. Le israeliane cercano di impedirmi un tale sperpero di pecunia, timorose più che altro di dover pagare a loro volta il mutuo a fine cena, ma io, pervaso di spirito tafazziano, pronuncio una frase che alcuni critici hanno definito “Un epigramma che rappresenta con icasticità la vacuità esistenziale del suo autore”:

“Siete mie ospiti”.

La folla mi omaggia con un’ovazione e il coro greco raggiunge istantaneamente la catarsi. Non mi resta che accomiatarvi invitandovi a riflettere su un pensiero così profondo e rimandarvi alla prossima puntata, dove potrete leggere di possessioni diaboliche e tradimenti platonici. Buona settimana a tutti!