lunedì 17 gennaio 2011

Gang bangs of New York - parte quarta


Il risveglio non è dei più facili. Ho ancora vivida l’immagine della spaventevole Linda Blair israeliana e per sbarazzarmene non mi resta che infilarmi sotto la doccia, aprire il rubinetto dell’acqua calda, far scrosciare l’acqua fino a quando non raggiunge la temperatura di ebollizione e rimanere immobile per una decina di minuti, giusto il tempo di fare pulizia anche di tutto quel cerume che tende ad annidarsi intorno al mio cervello. Potrei rimanere lì per ore se solo non dovessi andare a visitare Brooklin, Chinatown e Little Italy. Così, mi ritrovate poco dopo in deambulazione per le strade di New York con il solito tall latte ustionante per lui e ritardante per lei e una ciambella tra le mani. Niente metropolitana, oggi me la faccio tutta a piedi. A metà percorso una folla, radunatasi per l’occasione, mi segue per alcuni metri incitandomi e offrendomi bevande energetiche, dell’ EPO e un calendario di Playboy che mi fa appannare gli occhiali da sole. All’una e mezza, quando le gambe iniziano a cedermi e i succhi gastrici mi limano l’intestino, decido di fermarmi per una pizza da Grimaldi. Pare che ai tempi fosse frequentata da Frank Sinatra. La pizza, che ho la fortuna di dividere con una simpatica ragazza conosciuta mentre attendevo un tavolo, è ontologicamente quello che era per Fantozzi la corazzata Potemkin. Solo un americano medio rigonfio di cheesburger, coca e tette di Pamela Anderson potrebbe scambiarla per quella sorta di gustosa focaccia farcita che tanto bene sanno fare in Italia. Almeno la ragazza con cui ho il piacere di conversare per più di un’ora, una californiana sulla trentina, è simpatica. Si trova a New York perché ha appena partecipato all’edizione americana di ‘Chi vuol essere milionario’. Le chiedo come è andata ma mi dice che, a causa della sua religione, non le è permesso riverlarmelo. Poi confessa di avere firmato un contratto in cui si assume l’onere di non raccontare a nessuno l’esito della puntata prima della sua messa in onda. Inoltre, ha l’obbligo più assoluto di non spiattellare a destra e manca che Obama è nero per davvero. Perbacco! Terminato il pranzo e gli argomenti di conversazione, mi congedo dalla mia ospite e riprendo la maratona cittadina tra fascistissime insegne ‘Da Benito’ e ideogrammi misteriosi ripieni probabilmente di involtini primavera . Mai nella mia vita avrei pensato di poter camminare così a lungo. Quando rientro in albergo, il sole è calato da un pezzo. Sono quasi le nove. Mi sdraio sul letto, esausto. Estraggo il cellulare. Tre chiamate perse. Tutte della stessa persona. La ragazza che la notte prima cercava di ipnotizzarmi, impalata, scrutandomi l’anima attraverso gli occhi. La richiamo. Ah, ciao, bla bla bla, ero in giro con un’amica – un’altra?! – e mi sei venuto in mente e bla bla bla aperitivo. Lei. Io, eh, no, bla bla bla, Brooklin bla bla bla, vuoi uscire a mangiare qualcosa? Perché detesto mangiare da solo: finito di leggere il menu, non so mai dove guardare e ho sempre la paranoica sensazione che la gente passi il tempo a fissarmi. Come quello laggiù. Lei, no ho già mangiato, ma se vuoi ti faccio compagnia. Io, va bene. Lei, conosco un ottimo ristorante italiano vicino al mio albergo.

Ottimo ristorante italiano? Non ho voglia di mettermi a discutere, sono stanco e affamato. Appuntamento lì davanti alle dieci meno un quarto. Prendo un taxi. Il taxi rimane imbottigliato nel traffico.

“Eh, stasera c’è il concerto di Bon Jovi”

Tuttavia, l’informazione non mi è di grande aiuto. A metà strada – circa due settimane più tardi – ordino al taxista di fermarsi.

“Proseguo a piedi”

Il taxista fa l’incazzato ma se io arrivo troppo tardi, poi Bon Jovi ci rimane male. Sono in ritardo. Accelero l’andatura. Corro. Lei è lì davanti che mi aspetta.

“Scusami. C’è Bon Jovi che suona”. Penso sia una buona scusa. La utilizzerò più spesso. Entriamo. Il ristorante è enorme. Un cameriere decisamente omosessuale che si atteggia come se, in realtà, lo fosse ancora di più, ci trova posto in una zona appartata del locale. Io ordino un’insalata come antipasto – “Non una porzione all’americana, mi raccomando. Una normale, grazie” –, degli spaghetti e due bicchieri di vino rosso. Lei un gelato. Quando il cameriere torna, regge in mano un prato di lattuga, carote e pomodori. Cazzo! Fortuna che ho portato il tosaerba e il rastrello. Gli spaghetti sono scotti. Mai farsi portare in un ristorante italiano da chiunque provi a parlare la nostra lingua dicendo ‘salami’ e ‘grazzia’. Intanto, lei ha abbandonato la scalata di quella montagna di gelato innevata di panna e cioccolato. La lettura della mia anima procede creandomi non pochi imbarazzi. Parlo del più e del meno e non di molto altro perché la mia cultura matematica si è piuttosto ridotta negli anni. Miracolosamente, riesco a finire il piatto di spaghetti. I bicchieri di vino da due sono diventati quattro, ma la sorte è la stessa. È ora di prendere una decisione. Tanto so già come va a finire.

“Ti va di andare a bere qualcosa”, le domando? Annuisce con la testa. Sorrido, inebetito per lo più dal pantagruelico pasto, mi alzo e vado in bagno a sistemare una faccenda. Un tizio sulla settantina, intento a prosciugare con veemenza una sofferente prostata, si volta verso di me e mormora qualcosa di incomprensibile che lo fa sganasciare dalle risate. Ne abbozzo una pure io e mi blocco sul più bello. Terminata l’operazione logistica, mi sistemo i capelli, mi faccio l’occhiolino e sono pronto al mio trionfale rientro. Quello che vedo, però, non mi lascia assaporare la vittoria finale: lei è di fianco a un lui e sembrano discutere animatamente. Mi avvicino con circospezione. Il tizio si volta.

“Tu devi essere David”. Mi hanno trovato, maledizione!
“Sì, ciao, piacere”. Allungo la mano, così come mi hanno insegnato. “E tu sei?””****, piacere. **** mi ha raccontato di ieri sera. Sei stato un grande, pochi avrebbero fatto lo stesso al tuo posto”
“Ma no, figurati. È perché sono italiano, sai”. Che risposta da idiota, ma ci ripenso solo adesso. “Sei anche tu israeliano?”. Mi sembra di riconoscere l’accento.
“Sì, di ****”. Ah, dalla stessa città di ****. Che strano…
“E cosa ci fai qui a New York?”
“Sono qui per lavoro. Un paio di mesi”

Dopo la breve introduzione, lei lo prende sotto braccio e, spostandosi verso l’uscita, sancisce con un “Ok, noi dobbiamo andare. Ci vediamo” la conclusione della serata. Rimango lì imbambolato per qualche secondo, poi chiudo la giacca, infilo le mani in tasca e mi incammino verso l’albergo. Si dice che la curiosità è donna, ma si vede che nel mio caso fa un eccezione. Appena entro in stanza, mi collego a Facebook e inserisco il nome della ragazza nella ricerca. Ci metto un po’a trovarla, visto che i dati anagrafici in mio possesso non trovavano una precisa corrispondenza. Nel profilo leggo un “Married to”. E indovinate un po’ chi è il marito?

Il giorno dopo mi tempesta di telefonate e messaggi. A cui non rispondo. Mi insulta pure. Cosa volete che vi dica… Che mi dispiace per lui, cornuto platonico. Che mi dispiace per me, un fesso preso per i fondelli. Che mi dispiace, ma neanche tanto, per lei, un’idiota e non alla Dostoevskij, perché solo un’idiota può pensare di organizzare una tresca nel suo ristorante preferito a New York. Non do giudizi morali. Non me lo posso permettere , però anche io ho i miei valori. Certo, qualcuno potrebbe obiettare, alla Woody Allen, che sono una tacca al di sotto di quelli di un agente assicurativo ma, in ogni caso, ci sono. E, soprattutto, non mi piace che una persona ometta informazioni come dire… rilevanti. Detto questo, ognuno, una volta che si infila sotto le coperte e spegne la luce, deve fare i conti con la propria coscienza. Purtroppo, a causa dell’alcol, io me ne ritrovo una che sbiascica e non capisco mai cosa vuole dirmi. Pazienza e alla salute. Buona settimana a tutti!