lunedì 20 giugno 2011

Tapas y patatas

Gelateria. R e la sua nuova fiamma, una graziosa moscovita che frequenta il primo anno delle scuole elementari – o ricordo male? Forse l’università? Bah, in ogni caso era difficile notare la differenza – stanno cercando di scegliere il gusto. Un compito che richiede uno sforzo disumano, soprattutto per il fatto che, essendo entrambi molto fashion, devono fare in modo che il colore del gelato faccia pendant con scarpe a cintura. Io invece il gelato non lo voglio, però vengo attratto da uno dei gusti. La didascalia recita “Sorbet Figa”. Chiedo delucidazioni al gelataio. Il tizio non riesce a darmi una spiegazione esauriente, però mi assicura di una cosa:

“Una volta che lo hai provato, non puoi più farne a meno”.

Dimenticavo. Mi trovo a Barcellona, quindi fate poco gli spiritosi. Sette giorni nella città catalana che hanno messo a dura prova il mio fisico con un regime quotidiano di alcol, sigarette, sesso - una volta ogni tanto, stile riproduzione panda, capita anche a me, non è che si può vivere solo di masturbazione – e privazione del sonno. Un programma da bello e dannato. Andando verso i 35, direi che il bello posso ormai eclissarlo. Mi rimane il dannato che, nel mio caso, è un più un d’annata. Chiamatemi Soave - inciso. Forse non lo sapete, ma gli antichi romani, noti alcolizzati, salutavano Cesare con un Soave Cesare. Di ciò non rimane traccia nei libri perché il governo vuole manipolare la verità, ma io non mi faccio abbindolare. Viva la libertà! Chiuso inciso -. Mi piacerebbe riuscire a tirarne fuori un racconto omogeneo, ma temo che ne caverei fuori una o due pagine di noia mortale. Per me, più che altro. Perciò, mi limiterò a qualche aneddoto.

Dal 7 di giugno compio un salto temporale al 10 di giugno. Sutton, discoteca più o meno fighetta di Barcellona. Tre del mattino. Forse tre e mezza. R e la graziosa moscovita legiferano: andiamo a casa. Avendo dormito cinque ore negli ultimi due giorni, decido di aggregarmi. Ma R non ci sta:

“Tu rimani qui. Lo faccio per te”

Un paio di secondi e una quantità indefinita di tette ballonzolanti mi fanno rapidamente cambiare idea. E poi c’è ancora mezza bottiglia di rum da finire. Che, fidatevi, finisco, e anche piuttosto celermente. Poi, dopo aver ululato alla luna, compio una serie mirata di girelliti che trasformano la penisola iberica in un vortice ormonale. Eccole lì, tutte che girano sul loro asse. Sembra la galleria del vento. Mentre mi agito come una bertuccia colpita da scarica elettrica, la vedo. Una bionda che più bionda non si può. Con scatto da velocista, la raggiungo.

“Cin cin”

La mitraglio di parole senza senso, associazioni libere, flusso di coscienza. La vatussa svedese vacilla, inebetita dal vomitio di vocaboli. Alle cinque e mezza saliamo in taxi. Io, lei e l’amica, che si infervora in una filippica antiberlusconiana. Io annuisco svogliatamente e intanto mi inoltro alla scoperta del territorio scandinavo. Arriviamo a casa, un buco in affitto per due settimane in una zona di tagliagole e studenti erasmus. L’amica continua con la sua arringa. Io annuisco svogliatamente, mangio un paio di patatine e poi vengo trascinato in camera dalla mia bella, che mi sottrae all furia dell’amica rompicoglioni. Credo sia la camera più piccola che abbia mai visto in vita mia, con un letto per bambini. E senza porta. Ma sono cose a cui ci si può adattare. Il resto è poco descrivibile e molto intuibile. Verso le due torno a casa di R. Spossato, cammino per la Rambla con quell’espressione vagamente ebete che si disegna sul volto dell’essere umano di sesso maschile quando crede di aver compiuto l’impresa sessuale dell’anno. Una soddisfazione davvero idiota e decisamente effimera. Ma se l’effimero fosse sempre così!

La giornata prosegue tra giri per la città, passegiate lungomare e sorbet figa. E torniamo da dove siamo partiti. Siesta serale sulla poltrona – più simile a uno svenimento, a onor del vero –, cena a mezzanotte. La graziosa moscovita ci saluta. La baby sitter ha chiamato e non vuole che rincasi troppo tardi. R e io ci beviamo un drink, poi prendiamo un taxi e ci facciamo lasciare davanti al Carpe Diem, locale che si affaccia sulla spiaggia, meta di turiste in cerca di risposte a domande esistenziali. La prima domanda ce la fa una specie di comodino di colore che, mentre osserviamo dall’alto la fiumana di gente che si accalca fuori dalle varie discoteche, ci avvicina e ci chiede:

Blu job?”

Proprio così, blu job. Magari blues job. Forse perché è un po’ triste. Lei. O magari, nel mentre, ti canta una di quelle canzoni che cantavano gli schiavi neri nelle piantagioni di cotone lungo il Missisipi. Blu o meno che sia questo job, decliniamo la gentile offerta. Entriamo al Carpe Diem, quam minimum credula postero, che sono certo il buttafuori usi come deterrente per i clienti poco graditi e alfabetizzati. Mentre cerco di crearmi un varco in mezzo alla folla, vengo afferrato e tirato per l’indice. Mi ritrovo davanti a una ragazza che sorride, denotando un lieve grado di ebbrezza. Sfuggo all’agguato ed esco con R a fumarmi una sigaretta. La signorina però, non desiste – come darle torto d’altronde: come fumo io, non fuma nessun altro – e, seduta a un tavolo con un amica, mi fa cenno con la manina di avvicinarmi. Tolto il dente, tolto il dolore. Vado. Mi presento. Sono ungheresi. Provo a instaurare una conversazione, ma la predatrice non riesce a far uscire dalla bocca nessun suono decifrabile come fonema conosciuto. Sorride e vacilla, una torre di Pisa sotto gli effetti dell’alcol. Sorrido anche io e le auguro una buona serata. In qualche clinica di disintossicazione. Poco dopo, R mi abbandona. Mi trasferisco alla discoteca accanto, dove rimango fino alle sei. Colto da narcolessia, esco e mi metto alla ricerca di un taxi. Più facile trovare del petrolio sotto il pavimento di casa mia. Chiedo a un energumeno in compagnia di altri energumeni come possa chiamare un taxi.

“Un taxi? No, impossibile. Però, se vuoi andare qui, il trasporto è gratuito”. Mi porge un bigliettino. Con una donna nuda. Intorno a un palo. No, meglio di no. Sono troppo stanco. Non vorrei addormentarmi a metà spettacolo. Proseguo la mia ricerca. Sento qualcuno chiamarmi.

“Señor! Señor!”

Mi volto. Di nuovo lei. Il comodino.

“Blu job?”

Ancora?

“No, gracias”
Ah... y taxi?”

Quando si dice il senso degli affari. Buona settimana a tutti. Io sono ancora qui. Ad aspettare un taxi. Ciao!


lunedì 6 giugno 2011

Svengo anch’io. No, tu no


Quello che sto per raccontare è la storia di un dramma personale. Un crollo esistenziale. Un cedimento ontologico. Perché, a volte, la pressione si fa sentire. Quando è troppa. O quando è troppo poca.

Giovedì 2 giugno. Zurigo. Qui è vacanza. Se qualcuno si domandasse come mai nella città elvetica si celebra la festa della repubblica italiana, avrebbe tutta la mia comprensione. E pure quella di alcuni specialisti in malattie mentali. Inutile lamentarsi poi che quel camice bianco è troppo stretto. Pare si tratti di Ascensione, o qualcosa del genere. E per uno che sale verso l’alto, ce n’è sempre qualcun altro che discende verso il basso. Sempre di più. Una legge del contrappasso mal distribuita. Ma andiamo con ordine. La giornata inizia, con calma, verso le due del pomeriggio, un orario a partire dal quale ai miei occhi è concesso di aprirsi e iniziare gradualmente ad abituarsi alla luce diurna. Che non c’è, perchè il tempo tende all’orripilante. Incurante dell’effimero, qualche ora dopo raggiungo le sorelle DgF e babbuzzo per un aperitivo in riva al fiume. Ed è il risveglio della natura.

“Guardate, là, la poiana!”. E la poiana plana, plana.
“E le rondini, avete visto le rondini?”. E se in Italia una rondine non fa primavera, qui la speranza non viene affidata nemmeno a uno stormo.
Cra, cra! Cra, cra! “Oh, che melodico gracchiare: li sentite i corvi?”. I corvi torvi.

E poi le tortore, i piccioni, i passerotti, l’airone immobile da ore, ancora stordito dalla sbornia della sera prima. Un’aviazione di pennuti che in pochi minuti trasforma il sottoscritto in un campo minato di merda. Io amo la natura. In padella. E visto che siamo in tema di cibo, vi dirò che il desco serale, più tardi, viene consumato a casa di DgF, quella svizzera: un’abbondante e saporita spaghettata accompagnata da vino, vino, vino e poi... birra, vino, vino, caffé, ammazzacaffé, vino, vino e... e grandi aspirazioni. Poi, tutti fuori, perché aspiriamo così tanto che il Futuro ormai ci attende. E le aspirazioni non finiscono qui. Aneliti... di sostanza. Il Futuro ci apre la porta e imprime il suo inconfondibile timbro sulle nostre mortali membra. Un giro di cuba libre per curvare lo spazio tempo. Da fessure sempre più ristrette osservo nugoli di persone, bicchieri mezzi vuoti – sono un romantico pessimista –, mozziconi che ardono. Le voci si disperdono, i rumori si amplificano, la musica mi avvolge. E non è l’unica, perché tutto a un tratto sento che qualcos’altro avvolge parti di me. Il mio stomaco. Il mio Io più profondo. Una metamorfosi che, non avendo l’esperienza alcun effetto su di me, si avvicina molto di più all’asino di Apuleio che allo scarafaggione kafkiano. Conscio di un possibile, mi avvicino al banconee appoggio il mio drink. Respiro profondamente prima di immergermi nelle tenebre dell’ineffabile. L’oscurità mi ghermisce. Una sensazione di pace straordinaria. Un sogno, lunghissimo, di cui non ricordo più nulla. Forse una visione. Niente tunnel, luce o cazzate new age. Un’esperienza piuttosto anomala. Inquietante e, allo stesso tempo, rasserenante. Come la Verklärte Nacht di Schönberg. Riapro gli occhi. Se ho esalato l’ultimo respiro, mi ritrovo di nuovo nel Futuro. Ma un Futuro eterno è senza senso, e a giudicare dalla mia posizione a gambe all’aria e dall’espressione preoccupata degli amici che guardano dall’alto il novello Lazzaro resuscitato, direi che mi toccherà andare i lunedì in ufficio ancora per un discreto numero di anni. Prendendo appunti dal loro racconto, avrei perso i sensi per circa un minuto. In questo minuto, babbuzzo mi ha schiaffeggiato energicamente e, già che c’era, mi ha pure limato due molari. Qualcuno si è fatto fare un paio di foto ricordo. Qualcun altro, invidioso, ha provato a sniffarsi i calzini per ottenere lo stesso effetto. Finito lo spettacolo, il tizio della sicurezza mi offre un bicchiere d’acqua e mi accompagna fuori a prendere una boccata d’aria. A quest’ultima, però, preferisco una boccata di nicotina, che sarà meno sana ma mi allevia due o tre minuti di noia esistenziale. Seduto sul marciapiede, ancora disorientato, penso alla repentinità con cui l’essere umano può varcarequella soglia continuamente procrastinta. E il pensiero genera angoscia. Perciò, appena rimembro il corretto utilizzo degli arti inferiori, rientro, raggiungo la pista e mi lancio in danze scaramantiche fino alle tre e mezza del mattino. Perché sì, la nostra vita è fatta così: un giorno siamo qui. E il giorno dopo... E il giorno dopo, chi lo sa. Io, per precauzione, me ne sto già qui. Nel Futuro. Salute e buona settimana a tutti! Io me ne vado a Barcellona, pare che debba partecipare a un evento aziendale. Lo slogan dell’evento? “Svenite tutti qui: vi aspettiamo”. Bello, no?

p.s: sono tre giorni che ho male al fondo schiena. Ma in quel minuto di incoscienza... ecco, se qualcuno lo sa, non me lo venga a dire. Occhio non vede, cuore non duole. Duole altro