martedì 5 luglio 2011

Non ragioniam di lor, ma guarda e passa. Che è meglio


Casa di P, un sabato sera come tanti altri, davanti a un hamburger gonfio di salse, pomodori e cipolla.

“No, ascolta P, dopo possiamo uscire, girare per locali, andare a ballare, quello che vuoi, ma io stasera bevo poco”.

E siccome sono un uomo di parola, ecco che la bottiglia di vino rosso, neanche tanto lentamente, si svuota. Ma il vino, si sa, è cultura e agevola la conversazione. Anche il rum, credo, è cultura, e agevola non solo la conversazione, ma anche quei movimenti del corpo umano che hanno funzione comunicativa e che solitamente definiamo come danza e, senza ombra di dubbio, gli approcci di natura amorosi quando lo sbiasichio è ancora sotto controllo. Deve essere per questo che, di fianco al vuoto della bottiglia di vino, viene a tenergli compagnia il vuoto della bottiglia di rum. D’altro canto, quale miglior contenitore alcolico del corpo umano, di fronte al quale l’umile vetro indietreggia repentino riconoscendo l’indubbia superiorità di eroici fegati che hanno saputo adattarsi a condizioni di sopravvivenza estreme. Amen.

Così, quella che sarebbe dovuta essere una serata tranquilla in compagnia di un amico, cena, amabili chiacchiere e a letto presto che se no mi vengono le borse sotto gli occhi si trasforma nel solito delirio incontrollabile dove, come palline di flipper, rimbalziamo da un locale all’altro, consumando energie, soldi e gran parte di una salute ormai sempre più cagionevole.

Non starò a tediarmi con un’inutile e noioso elenco del fatto e non fatto, del dove e del come. Mi basta sapere che, dopo aver lasciato il Gonzo, un nuovo club dove si balla al ritmo di decibel rock e dove è obbligatorio almeno essersi tatuati un braccio intero con simboli satanici che, se letti al contrario, evocano Maria De Filippi, mi dirigo insieme a P, un uomo tenuto in ostaggio dai suoi cappelli, al sempre caro mi fu quest’ermo Zukunft.

Sono le quattro del mattino. Le persone normali, a quest’ora, russano sotto le lenzuola, rifugiandosi in visioni oniriche che il bardo inglese suggeriva fossero la materia di cui noi siamo fatti. Le persone che si avvicinano alla normalità di un sano divertimento, sperano presto di ritrovarsi nella stessa condizione delle persone normali e si riversano nelle strade alla spasmodica ricerca di un Caronte alla guida di un taxi che li traghetti verso il regno delle ombre. Le persone irrequiete invece, schiave della sindrome del conte Dracula, nottambuli perditempo alla ricerca di un senso che appaghi il vuoto metafisico che attanaglia le loro più profonde pulsioni sessuali - so che non vuol dire un cazzo, ma conoscevo professori all’Università che ci scrivevano libri con frasi come queste -, parlano con il tizio della selezione cercando di convincerlo del fatto che entrare dentro al club è una questione, per loro, di vita o di morte e, nel caso di un rifiuto, si prostrano in direzione dei suoi piedi salmodiando e versando lacrime che commuoverebbero anche un muro in cemento armato. Ovviamente, io faccio parte del primo gruppo, ma conosco un amico che...

Una volta dentro, saliamo la rampa di scale che ci separa dal Bar 3000 e raggiungiamo l’agognato bancone dove possiamo ordinare un paio di bicchieri, giusto per evitare l’atrofizzarsi dei muscoli di braccio e avambraccio. La mia attenzione viene però attirata da due signorine esteticamente gradevoli che a loro volta si stanno esercitando nella nobile arte dell’alzata del gomito. Riconoscendo in loro delle pari in tecnica e maestria, mi avvicino per mostrare tutto il mio rispetto e introdurre me e tutto l’albero genealogico, fino a Mosé e a quel balbuziente del fratello.

Una mi dice che fa la psicologa. Perbacco! L’altra è architetto. Accipicchia! La notizia mi riempie di orgoglio e decido di condividere questa sensazione con il mio amico iberico, ben lieto di inserirsi dentro al siparietto. L’architetto, garrulo, ci rivela che, saltuariamente, il fine settimana, lavoro in un bar chiamato Dante e, rivolgendosi al mio amico, esclama con entusiasmo:

È un nome spagnolo, vero?”

Curioso come poche parole riescano ad abbattersi come macigni sul tuo umore, già piuttosto altalenante.

“Scusa?”, le domando io, con malcelato stupore. “Dante è un nome italiano. Avete presente Dante, no?”.

Sul loro volto vedo comparire l’abisso del nulla. Ci riprovo. “Dante Alighieri...”, tanto per dissipare ogni ombra di dubbio. Nulla. Vengo investito da una tempesta di ignoranza che mi fa vacillare come un salice piangente frustato dalle raffiche del vento.

Io, però, sono ostinato. “Dante Alighieri, il poeta italiano più importante nella storia della letteratura mondiale insieme a Shakespeare”

Scorgo della labile luce negli occhi dell’architetto. L’altra è troppo ubriaca per ricordarsi persino il suo nome. “Ma Shakespeare non è italiano però”. Guardo P e lui guarda me. Sospiriamo, consci che il testosterone gioca una grande ruolo nella vita di un uomo ma che a volte, anche lui, incontra delle barriere insormontabili. Le salutiamo e ce ne andiamo giù, nel girone infernale, a ballare, lasciandole lì, nell’eterno Limbo dell’asineria. Il Paradiso può attendere, andremo a cercarlo da un’altra parte.

Scrivo questo post dopo aver corso 60 chilometri in bicicletta, perduto nella campagna svizzera, con le gambe paralizzate dall’acido lattico. Perciò, visto come stanno le cose, spero non direte che questo post è scritto con i piedi, che sono ben appoggiati sopra al divano, esanimi. Buona settimana a tutti!