lunedì 31 ottobre 2011

Il signore dell'Anello



L' amore è nato una notte di marzo del 2009. Il classico colpo di fulmine. Più che elettrica, una scossa di elettronica. E settimana scorsa, alle prime ore di una assonnata domenica mattina, questo amore è stato finalmente celebrato.

"Ce l'avete l'anello?"

Davanti a questa domanda, svariati centinaia di cuba libre fa, si infranse la loro speranza di entrare alla Zukunft. Nacque così la leggenda di un anello mitico forgiato nella terra di Mordor, dietro Langstrasse, che, se indossato, spalancava le porte del Futuro. Un Anello per domarli tutti. Il dubbio, però, li assaliva: come entrarne in possesso?

Frodo R. non riusciva a darsi pace e passava un fine settimana dopo l'altro sfidando lunghe attese nel gelo zurighese, orde di barbariche elvetiche, ritmi sincopati e fumose stanze, luci stroboscopiche e notti senza fine. Bilbo Rizzi, dopo aver combattuto strenuamente al suo fianco, era stato esiliato dalla terra di Mezzo. La vicinanza all'Anello lo aveva corrotto e si era perso per mesi nel crogiolo della zona cesarini, temutissimo luogo popolato da esseri che non avevano più nulla di umano e che, posseduti da nefasti influssi alcolici, seguivano stancamente, con centellinati movimenti del capo, le note del pifferaio magico in console e i loro istinti più animali. Anche Pellegrini Tuc, che mai avrebbe spezzato il legame di fratellanza, aveva provato a cimentarsi nell'ardito compito, ma era stato risucchiato dalle armate di vodka red bull in un buco nero senza spazio e senza tempo, sprofondando in un eterno oblio. Fu allora che Frodo R. sferrò l'attacco finale. Con il prezioso aiuto di Pablo Fernandez Gandalf, lo stregone ispanico esperto nell'arte magica della favella incantatrice, riuscì a irretire Helena, la cappellaia matta a guardia della terra del Futuro, che lo condusse davanti a Sauron, il potente spirito della terra del Futuro. Sauron, spietato sterminatore di capelli, un gigante di un metro e novantacinque dalla testa desolatamente arida, riconobbe nell'avversario doti fuori dal comune. In particolare, un fegato martoriato da anni di battaglie con lo Spirito più infido, potente e distruttore che mai uomo avesse conosciuto. Commosso dagli eroici intenti, portò i due guerrieri in uno stanzino buio e polveroso, il Big Bang da cui era nato l'universo in cui gravitavano sempre i valorosi combattenti, un universo in continua espansione dove la realtà assumeva prospettive poliedriche e il nulla nulleggiava a sua insaputa. Fu lì che, con una penna che, come molti sanno, ferisce più della spada, venne firmato l'armistizio che si tradusse non nella cessazione di atteggiamenti bellicosi che permeavano il dna di Frodo R. ogni volta che metteva piede nel mistero della terra del Futuro, un regno del non accaduto dove tutto doveva ancora accadere, ma in un giuramento di amore eterno, amore puro, illibato, senza tempo. L'Anello del Futuro, infilato al dito, si tramutò in un radioso presente. Finché morte non li separi.

Potreste pensare che ho aggiunto troppo condimento di fantasia, ma le cose sono andate all'incirca così. L'Anello ha un potere enorme e questo è ciò che mi permette di fare:

1 Saltare la fila, che a volte può essere tediosamente lunga, infliggendo sonori coppini a chi attende con encomiabile pazienza di entrare senza sapere se poi sarà in grado di uscire
2 Pagare la metà il biglietto d'ingresso. Il costo dei drink, purtroppo, rimane invariato, quindi non so se posso considerarlo un notevole vantaggio
3 Assumere atteggiamenti mafiosi infilando l'Anello al mignolo e un paio di batuffoli di cotone in bocca
4 Creare vortici di girellite con la sola imposizione del gilet
5 Ipnotizzare la guardarobiera cercando di lasciare la giacca senza dover sborsare due franchi di commissione. Due franchi oggi, due franchi domani e il cuba libre è dietro l'angolo
6 Apprendere lo svizzero tedesco per osmosi
7 Ottenere la cittadinanza svizzera. Il consiglio federale svizzero mi ha inviato una lettera a casa. Con l'Anello, mi scrivono, DEVO accettare la cittadinanza svizzera e salutare Heidi una volta a settimana insieme alle caprette

Un'ultima riflessione: a questo punto, ritengo la mia missione in Svizzera conclusa. Non vedo più una ragione valida per protrarre la mia permanenza in terra elvetica. Cercherò altre mete. Esplorerò atolli della Polinesia; angoli sperduti della Mongolia; i caveau del Liechtenstein. E rifletterò sul Futuro, sperando che non sia già passato. Buona settimana a tutti!

Volare con la fantasia

Non mi piacciono gli aeroporti. Non parlo dal punto di vista estetico, anche se non ho mai sofferto della sindrome di Stendhal mentre mi aggiravo per il duty free. No, le ragioni sono altre. Intanto, perché pullulano di uomini d'affari. Li riconosci subito. Sulla quarantina, capello brizzolato, vestito inamidato, bagaglio a mano, valigetta 24 ore e borsa a tracolla nera con computer incorporato. Sempre troppo dopo barba addosso. Passano il tempo a inviare mail importantissime con il blackberry. O a organizzare riunioni importantissime con il blackberry. O a partecipare a importantissime - e fastidiosissime- conversazioni con il blackberry. Cerco di starci il più lontano possibile, di solito sono contagiosi. Non sempre, purtroppo, ci riesco, dovendo viaggiare anche io per lavoro.

E arriviamo al secondo motivo per cui detesto gli aeroporti: il furto di un'allegoria. Ora mi spiego meglio - prima però ho bisogno di cinque minuti per andare a cercare 'allegoria' sul vocabolario. Quando ero ragazzino e non c'erano i social network e nemmeno i cellulari e Fabio Volo (l'ho preso solo per il cognome) non scriveva ancora libri - ah, ma scrive libri? - e per invitare una ragazza dovevi passare prima sotto il torchio parentale e il più delle volte quando sentivi una voce bassa e profonda e clic mettevi giù e poi provavi nuovamente a telefonare e clic mettevi giù un'altra volta e la storia andava avanti fino a quando lei non rispondeva e ti chiedeva se eri tu che avevi provato a chiamare prima un centinaio di volte e tu no no no negavi fino alla morte e clic, insomma, un discreto numero di anni fa, ero affascinato dagli aerei. Ogni volta che, in lontananza, udivo quel rombo, alzavo la testa e scorgevo, su, in alto, una minuscola sagoma in movimento che, in pochi secondi, spariva, inghiottita dal cielo o da qualche nuvola di passaggio, pensavo a come sarebbe stato bello, in quell' istante, mollare tutto, lasciarsi alle spalle un'adolescenza che sembrava non volesse mai terminare e partire, osservando il mondo in miniatura con la testa appoggiata sull'oblò. L'aereo erano le vacanze studio in Inghilterra, le isole della Grecia, il lungomare, le luci e i profumi di Tel Aviv. Era un'attesa che durava nove mesi, un parto di speranze, sogni, desideri. Un sabato del villaggio che invece della donzelletta pullulava di hostess e noccioline da sgranocchiare. E ora? Ora è già domenica con il solito cerchio alla testa. Ora è il volo per Heathrow delle sette del mattino. Ora sono gli sbadigli dell'attesa, le occhiaia di una notte troppo breve. Le città ridotte a un ufficio. E a volare, con me, sempre di più, è il tempo. Così, giorno dopo giorno, la prosaicità del colletto bianco ha sostituito quel pizzico di poesia che c'era in quello sguardo ormai passato rivolto verso il firmamento - il fanciullino in salsa melensa, sopprimetemi. Nessuna cura, a parte l'aforisma di Oscar Wilde, che ho citato nel primo post del mio blog e che ripeto ossessivamente dentro di me, "La vita è una cosa troppo seria perché si possa parlarne sul serio".

Terzo motivo per cui odio gli aeroporti: recuperare, dopo i controlli di sicurezza, le monete sparse nella vaschetta e, soprattutto, rinfilarmi la cintura, operazione resa complicata dall'arrivo in massa di altre borse e vaschette e che riesco a portare a termine con l'aiuto di 20 gocce di Lexotan. Solo cercare parcheggio a Milano il sabato sera mi mette più ansia. E guido uno scooter.

Tutta questa ouverture di lessemi per introdurre il tema del post che, più che con l'aerodromo, riguarda il nostro Paese. Un giovedì sera, verso le nove, volo British Airways partito da Londra in direzione di Milano Linate. Dopo tre giorni di intense riunioni e primi colpi di tosse, sono di ritorno alla mia amata odiata città per un altro evento di lavoro. Il cappuccio della felpa è stato un ottimo compagno di viaggio, il perfetto piumone in cui avvolgere la testa ciondolante di un uomo vinto dal sonno e da un raffreddore che ha preso pieno possesso del suo naso. Ora di ritornare nel mondo reale. Non l'avessi mai fatto - occhio non vede, cuore non duole. Sta per iniziare la fase di atterraggio. Le luci si fanno più soffuse e le hostess controllano che tutti i passeggeri abbiano le cinture di sicurezza allacciate e, soprattutto, i cellulari e tutti i dispositivi elettronici spenti. Nella fila di fianco alla mia, dove io giaccio esanime, sprofondato nel sedile, ci sono tre o quattro tizi intenti a sferragliare su vari blackberry e iPod. Le solite, importantissime mail - d'altronde, Camping, che ha toppato clamorosamente, aveva predetto la fine del mondo per il 21 ottobre e, giustamente, loro lavoravano in previsione della nefasta eventualità -, pagine dense di business planning (scusate l'inglesismo) ed excel gonfi di dati. Roba da narcotizzare un cocainomane. L'hostess, durante il giro perlustrativo, si rivolge a ognuno di loro chiedendo cortesemente - all'inglese, ovvero un ordine perentorio pieno di please, could e do you mind - di spegnere cellulari e ammennicoli vari. Una sinfonia di sì che, non appena la graziosa signorina si volta e torna alla sua postazione, si concretizza in un nulla a procedere, l'incarnazione mostruosa del furbastro italico, il me ne fotto con contorno di pizza e mandolino che tanto mi ricorda gli anni trascorsi alle elementari, quando la maestra si azzardava a infilare un piede fuori dalla porta e si scatenava un nubifragio di gesti dell'ombrello all'unisono che produceva un boato pari al terzo grado della scala Richter:

"Cos'è questo rumore?!!"

Sul taxi che sfrecciava per le strade semi deserte di Milano eravamo in tre: il tassista, io e il carico di amarezza per un certo atteggiamento culturale che, purtroppo, è ancora decisamente radicato nella nostra bella e incasinata Italia. O almeno, in una buona parte di essa. E allora, sì, protestiamo, protestate, scendete pure in piazza e scandite i vostri slogan, ma ricordatevi, ricordiamoci che, se vogliamo che le cose cambino, siamo noi i primi a dover cambiare. Basta aspettare Godot, è sempre in ritardo, c'è sciopero generale dei mezzi. E gli slogan, quelli lasciamoli alle merendine del Mulino Bianco. Buona settimana a tutti. Io, domani, me ne vado a Londra. Volo delle sette. Viva gli aeroporti!

p.s: dopo Milano sono rimasto a casa una settimana con l'influenza. L'influenza italiana, pieni di neutrini che si aggirano a velocità insondabili per un tunnel che si estende dal gran Sasso al Cern. Germi che si propagano grazie al loro ministro della coltura, la Germini.

mercoledì 19 ottobre 2011

Bach, Beethoven e l'iPodista alcolizzato

A volte bisognerebbe prendere delle decisioni. Per esempio, l'altra sera, quando le parole hanno incominciato a sciogliersi sulla lingua dando alle papille gustative quel tipico sapore dell'ubriacatura, avrei dovuto accomiatarmi e andarmene spedito a casa. Purtroppo, anche i pensieri erano sbiascicati. Così, mi sono tenuto impegnato fino alle prime ore del mattino alternandomi tra la pista da ballo e il bancone del bar. Alla fine l'unica cosa che riuscivo a muovere ancora con una certa classe era la mano, che scandiva il tempo di un'invisibile orchestra, battere e levare. E a un certo punto sì che mi sono levato dalla circolazione. Ho ritirato la giacca e, a gambe lunghe ma non particolarmente distese, mi sono avviato verso casa che la dritta via era smarrita. Un percorso in obliquo. E' stato allora che mi sono accorto che il mio iPod non era dove avrebbe dovuto essere. Al suo posto, nella tasca interna del giubbotto, dei fazzoletti di carta. Ho provato a infilarmeli nelle orecchie, ma non ha funzionato. "Cazzo, mi hanno rubato l'iPod", il mio primo pensiero, neanche particolarmente acuto, postato subito su Facebook con un giro di parole che Shakespeare mi avrebbe sicuramente invidiato, se solo avesse ingerito la mia stessa quantità di vodka. Più che altro, in quel momento, mi sentivo il personaggio di una tragedia: il 'Mac-beth'. La vita non è altro che un'ombra che cammina senza il mio amato iPod! Il desolante sconforto è durato solo il tempo di un breve e agitato sonno gravato da penosi dolori lombari che mi hanno ricordato il motivo per cui ho scritto una tesi di laurea contro lo scetticismo radicale. Quella è gente che non ha mai sofferto di mal di schiena, fidatevi. Una telefonata mi ha risollevato il morale. Niente furto, il prezioso contenitore musicale è stato ritrovato in stato confusionale nell' appartamento in cui, la sera prima, si era svolta la festa. Pare stesse riproducendo canzoni di Al Bano, contribuendo così alla perforazione dei timpani del vicinato. Lieto fine da commedia americana, catarsi aristotelica, scrivo il post. Tutta la vicenda, in realtà, mi ha fatto proprio venire in mente il cinema. L'effetto colonna sonora dell'iPod sul nostro quotidiano. Steve Jobs, imprenditore sicuramente geniale e visionario, non ha fatto altro che portare avanti e perfezionare, grazie anche alle tecnologie sempre più sofisticate, l'idea - quella sì geniale - commercializzata nel 1979 dalla Sony. Il walkman. Per la prima volta le persone avevano la possibilità di portarsi in giro la musica che amavano. E rompere le palle alla gente tenendo il volume posizionato sempre su dieci. Passeggiare in campagna sentendo la sesta di Beethoven. Commuoversi davanti a un tramonto mentre Paul McCartney ti canta 'Yesterday' proprio dentro la membrana timpanica. Che scene orribilmente melense. Effetto colonna sonora. Per questo ho sempre invidiato i personaggi dei film. Eccoli lì, che si stanno per baciare, e intanto il dolby surround spara una fucilata di archi che farebbe nascere della passione amorosa anche per uno scarafaggio. Be', magari uno scarafaggio con due belle tette. L'attrice apre la porta. La porta cigola. Musica seriale contemporanea: o dietro c'è l'assassino, o il vicino che ti dice che Pierre Boulez gli ha rotto i coglioni. La vita reale è diversa. Ascolto il concerto di Bach per due violini, archi e basso continuo in re minore e mi vedo arrivare un tizio con tre piani di capelli che sputa con veemenza per terra, corrodendo il marciapiede. Frank Sinatra ce la mette tutta con il suo tipico stile da crooner, ma invece di ballerini che spuntano dal cielo planando con degli ombrelli e che iniziano a ballare, là, su quella panchina, c'è un tizio con un impermeabile. Con questo sole?! Non funziona. Sarebbe bello, però, avere una colonna sonora per i vari momenti della giornata. Ti svegli e parte 'Il mattino' del Peer Gynt. O la marcia funebre di Chopin, visto che oggi è lunedì. Entri in ufficio con la cavalcata delle Valchirie. Effetto scena assicurato. Arriva il capo, attacco della quinta di Beethoven: ta ta ta ta!. Vai a correre, secondo movimento della nona di Beethoven. Energia, energia. Vuoi conoscere una ragazza? Con Nimrod di Elgar, dall'Enigma Variations, i preliminari li salti direttamente. Apro parentesi: perché in discoteca non mettono più i lenti? Lancio una campagna a favore del ripristino del lento in discoteca. La vita era più facile. Lento è meglio. Mi sembra uno slogan perfetto soprattutto per la lega a supporto delle lumache. Invece, ora, durante l'approccio amoroso, bisogna avvicinarsi il più possibile alla persona scelta come povera vittima - cosa già non facile, soprattutto se lei è fidanzata - e incominciare a urlarle nell'orecchio con tutta la forza che si ha, sperando che riesca a sentire qualcosa in mezzo alla cacofonia che esce dalle casse e che qualcuno ha definito 'musica elettronica'. Di solito i primi dieci minuti sono uno scambio reciproco di 'Eh?':

"Ciao!"
"Eh?"

Andiamo bene… Qui a Zurigo si dice 'Grüezi' e se non lo scandisci forte e chiaro, sembra che stai solo cercando di espellere le corde vocali dalla gola.

"Di dove sei?"
"Eh?"

"Mi chiamo David"
"Eh?"

Certo, anche lo scarso quoziente intellettivo, a volte, può causare incomprensione. Se poi è quasi inesistente:

"Scusa, non ho capito il tuo nome?"
"Eh?"
"Ah, bello. Molto particolare". Molto

Ma oggi sono ottimista. A volte scatta un secco 'no' preventivo che, come qualcuno ha detto, è il miglior contraccettivo esistente, e ti tocca ritornare al via ma senza nemmeno ritirare le ventimila lire. Niente ballo. Niente di niente. Perciò, rivoglio il lento. Non ho più voce. E udito. Chiusa parentesi.

Torniamo al cinema e alla musica. Avrei sempre voluto essere uno dei personaggi dei film di Woody Allen, dove i dialoghi e le azioni sono accompagnati da un pezzo dopo l'altro di musica jazz. Come sarebbe diversa la vita se, al primo appuntamento con una ragazza, ci fosse un coro greco a cantarci una canzone, come succede a Mira Sorvino e Michael Rapaport in 'La dea dell'amore'. Risparmieremmo un sacco di fatica. Perché invece la vita, quella vera, è faticosa, dura, meravigliosa eppure terribilmente spietata. E i dialoghi sono imprecisi, sfumati, spesso banali. Noiosi - stavo dando la definizione di 'meeting'? Le parole giuste, quelle non ci sono mai. Rimaniamo con quelle sbagliate e ce le portiamo dietro come un fardello. Rimaniamo con un ottativo, un avrei voluto, un avrei dovuto e quando ci voltiamo indietro, quei ricordi, impressi dentro di noi, come Euridice svaniscono nel nulla, lasciando un vuoto, un senso di amarezza e profonda malinconia. Per questo mi piace l'arte. E il cinema. Lì, tutto è perfetto. La nota giusta. La frase impeccabile. La fotografia eccelsa. Quel sedere incredibile. Niente da calibrare, niente da aggiungere o da togliere. La nostra vita, invece, è imperfetta. Noi, nostro malgrado, siamo imperfetti e dobbiamo imparare a convivere con questa imperfezione. Io già lo faccio. Tutti i fine settimana, salute. Buona imperfetta settimana a tutti!


lunedì 10 ottobre 2011

Io mi sposo da solo



"Porco …!"

L'originale introduzione, che fa tremare per un momento le pareti del bar 3000, appartiene a un ragazzo ticinese che, sabato mattina, intorno alle quattro, si presenta a Mr P, al signor D e al sottoscritto, interrompendo una dotta conversazione alimentata da parecchi bicchieri di vodka e rum.

E' stata una serata decisamente bizzarra. Prima lo svedese ossessionato dagli italiani con i capelli scuri che piacciono alla sua fidanzata e dalla pasta al pesto. Pasta al pesto. Un mantra ripetuto tre o quattrocento volte. Talmente simpatico che l'amico ha dovuto trascinarlo via per un braccio prima che il 'pesto' diventasse un indicativo presente, io il soggetto e lui il complemento oggetto. La pasta, comunque, gliel'avrei cucinata. Dopo. Scotta, che anche senza molari infiamma meno le gengive. Poi lo svizzero che mi attacca una filippica di mezz'ora sugli svizzeri che non pensano altro che al lavoro ai soldi ai vestiti e alle macchine e io invece sono simpatico e infatti io non penso al lavoro ai soldi ai vestiti e alle macchine perché il mio cervello è controllato unicamente dal testosterone e vedo mostruose tette giganti che mi inseguono come Woody Allen in Tutto quello che avreste voluto sapere sul sesso e non avete mai osato chiedere e però io sono di Milano e i milanesi pensano solo al lavoro ai soldi ai vestiti e alle macchine e allora lui mi abbraccia e poi si commuove e mi mostra tutto il suo rullino foto dell'iPhone e mi parla del lavoro di costruttore di tralicci durante la stagione estiva per pagarsi gli studi di economia e io no non sono come gli svizzeri e lui è svizzero ma non è come gli svizzeri e io sono simpatico e lui parla con tutti anche con le donne delle pulizie e anche io parlo con la donna delle pulizie solo che lei parla in svizzero tedesco e io non capisco assolutamente nulla e lui fa cenni di approvazione e inizia a sputare consonanti svizzere tedesche e io faccio cenni di approvazione anche se mi sfugge il significato delle parole e poi mi abbraccia e mi batte un cinque e io sono simpatico e mi batte un altro cinque e CAZZO MI FAI ANDARE CHE I MIEI AMICI MI ASPETTANO SUL TAXI DA DUE ORE?!! Non vorrei dimenticarmi del tizio alla porta dello Zukunft, a me stranamente ignoto, che, prima decide che noi, dentro, non ci entriamo, poi cambia idea e sì, possiamo entrare a condizione che paghiamo l'ingresso anche alle tre squinzie davanti a noi. Mr P, che lavora nella finanza - non la guardia -, fa due calcoli con un abaco e giunge a una soluzione che condivide con un certo orgoglio:

"Che stronzo!"

Il tizio lo fissa con uno sguardo da pitbull ebete e, sbavando non poco, ribatte:

"Capisco l'italiano"

Mr P restituisce lo sguardo e ribadisce il concetto:

"Eh… stronzo!"

Perché un conto è dire di capire, un altro capire per davvero. Repetita iuvant. A quel punto l'usciere spalanca la porta, "Prego".

Ma come? Allora è stronzo per davvero!

La discesa negli inferi ci riporta al sacerdote dell'imprecazione.

"Ragazzi, siete gli unici qui che mi rivolgete la parola, porco…!". Non sono una persona religiosa. Per niente. Mi considero un agnostico tendente all'ateo. Però la bestemmia la trovo irritante. Esteticamente fastidiosa. E non sono l'unico. Gli facciamo notare la cosa. Lui impara velocemente. Riesce a non smadonnare per almeno due o tre minuti, durante i quali ci dimostra senza ombra di dubbio di essere un babbeo sovrumano. Tutto sommato, preferisco sentirlo ingiuriare piuttosto che dover ascoltare i suoi discorsi deliranti. Biografia essenziale: ticinese, età indefinita, si sposa tra due settimane. Questo è il suo addio al celibato.

"Da solo?"
"Ma… a me piace così. Porco …!". Si impegna, il ragazzo.

Se piace a lui, noi siamo sereni. La cosa, però, mi ha fatto riflettere e mi sono posto alcune domande:

1 Si sposa da solo?
2 Contrae vincolo di matrimonio con il suo pene?
3 La sua futura moglie sa di esserlo?
4 Sa già con chi si sposa?
5 Dove sono finiti i venti franchi che avevo nella tasca posteriore dei jeans?!

Vuole offrirci da bere. Il giusto prezzo da pagare dopo avere infilato una serie inenarrabile di improperi - di cui il porco era il più fine.

"Ragazzi, andiamo in mezzo a ballare che rimorchiamo qualche troione, porco…!". Chissà cosa vorrà farci intendere con questo linguaggio così forbito. Mi rammento dell'anagogia e mi si chiariscono in parte le idee. Così, tutti in pista a dimenare le stanche membra.

"Dai ragazzi, dai!. Porco…!" In realtà, questa volta non l'ha pronunciato, ma sono sicuro che l'ha pensato. Ho intravisto un baluginio nel suo sguardo. Mi si avvicina con fare predatore indicandomi la ragazza che si agita di fianco a me mettendo in bella mostra le sinuose forme:

"Dai, fatti quella con il pigiama"

Io, però, tergiverso. Deve essere il pigiama. Il sacrilego elvetico non mi molla.

"Non sarai mica frocio, porco…, dai!"

Ecco, non ho certezze nella mia vita. Questa è l'unica. Anche se c'è stato un periodo, un po' di anni fa, durante il quale mia madre aveva avuto questo sospetto. Le è passato quando, finalmente, è uscita dalla clinica di disintossicazione. Comunque, no, le ragazze con il pigiama non 'me le faccio'. Il dottore ha detto che non mi fa bene alla salute. Sono allergico ai pigiami. Parlando di pigiami, vengo colto dal solito attacco narcolettico delle sei del mattino. Contagioso. Cerchiamo di squagliarcela senza dare nell'occhio, sgattaioliamo fino al guardaroba, ritiriamo le giacche e… e lui è lì, con il suo drink in mano, che ci osserva.

"Ragazzi, ma ve ne state andando?"

Bisogna ammetterlo, è un intuitivo.

"Sì, siamo veramente distrutti"

"Ma non mi avete offerto neanche un bicchiere… dai, porco…!"

Che cosa potevamo rispondergli? Amen! Buona settimana a tutti!!!


lunedì 3 ottobre 2011

Fischietto d'inizio



E si ricomincia. Ho sempre provato una certa insofferenza verso questo verbo. Ricominciare. Ora, invece, ne apprezzo, per così dire, lo slancio vitale. Si ricomincia quando non si è portato a termine. Si ricomincia quando si è costretti. Si ricomincia perché, in fondo, non si può farne a meno. La vita comincia e dopo non è altro che un lungo ricominciare che poi, tanto lungo, non è. Tutto questo filosofeggiare di basso stampo solo per dire che ricomincio a scrivere i miei post. Che di filosofico hanno ben poco, a parte il fatto che chi li legge raggiunge l’agognata – o meno - condizione di atarassia. Già dal titolo. Non credo di essere mancato ai pochi che mi leggono. Invece, sono mancato a chi non mi legge. Infatti, chi non mi legge, lo fa a ragion veduta. Libera scelta. In questi due mesi, però, io non ho scritto nulla. Perciò, chi non mi legge, è stato costretto a non leggermi. La costrizione ha creato passioni e turbamenti nell'animo. Sgomento. Desiderio impellente di vedere tutte le puntate di Jersey Shore. Desiderio coatto. La volontà che nega se stessa e non vuole. Una volontà che si duole. Dopo rimetto il tutto in Google Translator, vediamo se acquista un significato comprensibile. Questo post è sulla settimana trascorsa a Formentera. Pensieri e riflessioni senza ordine, appunti, punti senza virgola, due punti sulla patente, guidavo ubriaco ma la chiave non era inserita.

Su le mani

Non è un grido. E nemmeno un ordine. Un rito, forse. Un richiamo irresistibile. Il canto delle sirene per chi ha fatto del cubo il proprio parallelepipedo preferito. Un mantra esploso da casse assordanti che manovra fili invisibili di marionette galvanizzate dal vuoto pneumatico. Il 'su le mani' può avere un soggetto. Per esempio, 'su le mani Pineta'. Più un vocativo, forse. Ma il Pineta non è il signor Pineta. Che so, Pino Pineta. Perciò, assistiamo a un fenomeno sociale che coinvolge una miriade di analfabeti di ritorno - perché mai debbano tornare, poi, mi è ignoto - che, sfidando la legge della gravità e l'alone ascellare, sollevano braccia private di una funzionalità primitiva - zappare - e puntano le mani verso l'alto, il non finito, l'ignoto. Da non confondere invece con 'sulle mani', che ha un qualcosa di più scimmiesco, funambolico, decisamente anticonformista. Su le mani, questa è una rapina. Un furto dell'anima. Un ladrocinio esistenziale. Uno scippo temporale. Ridatemi le braccia. Le voglio lungo il corpo. E ridatemi le mani. Le voglio attaccate alle braccia. Pianeta terra, mani giù. Pineta terra, mani su. Fine della prima nota

Il fischietto

Fi fi fi fifi. Fine della seconda nota

Il tavolo

B è ontologicamente legato al tavolo, condizione necessaria affinché sposti il suo di dietro, elegantemente avvolto da pantaloni alla moda, dal focolare domestico a luoghi di perdizione per nottambuli. Il tavolo non è un tavolo. Il tavolo è una metafora. Un simbolo. Connota ma non denota. E non parliamo di un tavolo qualsiasi, ma di uno con carta d'identità. Perché un tavolo che si rispetti, non importa dove, o quando, è sempre a suo nome. Il tavolo B. Un tavolo corredato da persone che bevono. Che bevono tanto. Un tavolo di persone che contano. Fino a dieci e mai dopo il quarto bicchiere. E il conto, poi, arriva sempre, un papiro di due metri popolato da cifre imbarazzanti, il prodotto interno lordo di uno stato civilizzato. Il problema non è questo, tuttavia. Il problema è che B, in vacanza, ti prenota anche il tavolo della cucina. E la vodka a colazione, cosa volete che vi dica, proprio non va giù. Fine della terza nota

La Grey Goose

La Grey Goose è legata ontologicamente al tavolo. Anche B è legato ontologicamente al tavolo. Perciò, la Grey Goose è B, solo che russa di meno. La Grey Goose non è una vodka. Anche lei connota. Sancisce la fine della crisi economica per chi non l'ha mai subita. L'uscita dalla povertà. Il ministro Castelli non beve Grey Goose perché il ministro Castelli è povero. La Grey Goose è un indice della patrimoniale. La Grey Goose è all'origine del Big Bang. L'undicesimo comandamento recitava 'Non bere Absolut', poi è andato perso durante una partita a poker. E' di pochi giorni fa la notizia che in un noto locale di Milano di un noto stilista di Milano - no, non Cavalli, l'altro - alcuni clienti sono stati vittima di un'intossicazione. Ufficialmente, spray urticante. In realtà, la storia è ben altra: è stato notato il barattolo più pettinato di Milano che se ne andava in giro con una bottiglia di Absolut a elargire shot di vodka a profusione. E si sa, i milanesi con la puzza sotto il naso sono allergici all'Absolut. Fine della quarta nota

Le zanzare di Formentera

Zzzzzzzzzz! Fine della quinta nota

La valigia di B

Sì, è vero, B russa in stereofonia e per non sentirlo bisogna dormire con dei calzini infilati nelle orecchie, ma questo è nulla in confronto al dover condividere la stanza con la sua valigia, un bagaglio di entropia dotato di vita propria. La fotografia estremamente dettagliata e concreta del disordine. All'alba, era lì, che mi fissava, con il suo carico di mutande e camicie su misura. Una settimana di puro terrore. E senso di nausea. Fine della sesta nota

Le chiavi e Barbarina

Barbarina è completamente slegata e sconnessa dalle chiavi. Di solito, nei miei post, non cito mai il nome completo delle persone, in modo che non debbano vergognarsi troppo di avermi come amico. In questo caso, però, farò un'eccezione, perché il mondo deve sapere. Se, nella vita, vi dovesse per caso capitare di trascorrere una vacanza con Barbara B, non affidatele mai, MAI, un mazzo di chiavi, di qualsiasi tipo: casa, scooter, macchina, cassaforte, comodino, valigia, lucchetto. Amen. Fine della settima nota

L'idea pazzesca

L'idea pazzesca è uno squarcio di genialità dentro a un mare di ottusità. Quando l'idea pazzesca arriva, la persona che ne è portatrice sana attira l'attenzione di chi lo circonda con il principio di un applauso e un successivo triplo coppino sulla fronte. Succede così da millenni. La scoperta del fuoco. L'invenzione della ruota. La stesura della Divina Commedia. La composizione del clavicembalo ben temperato. La legge di gravità - tra l'altro, la mela cadde a causa dello spostamento d'aria provocato dalla serie di coppini di particolare intensità che Newton impresse sulla sua fronte. Inoltre, a detta dei più importanti neuroscienziati, la gestualità favorirebbe il processo cognitivo. Anche l'alcol lo favorisce, ma non vorrei aprire una parentesi eccessivamente tediosa. L'idea pazzesca è una rivelazione, una rottura con il passato, una visione così radicalmente innovativa che, a volte, può essere scambiata per una colossale cazzata. Vale la pena di correrlo, questo rischio. Fine dell'ottava nota

B e la napoletana

Io desidererei sapere: com'è che, quando il sole stava ormai per sorgere, B, con una milanesità strabordante che gli fuoriesce dalle orecchie, viene approcciato da una napoletana che lo invita a casa sua, una villa piena di napoletani che dormono e che, come ultima cosa nella vita, vorrebbero essere svegliati al grido di 'Uè, fi..!' da un milanese gonfio di Grey Goose che si tuffa a bomba nella loro piscina? Attendo una risposta da più di un mese. Fine della nona nota

La serata fluo al Club Haus 80

Andava tutto bene fino a quando S, colta da impeto surrealista, si è appropriata della vernice fluorescente e ha iniziato a creare degli affreschi sulle nostre facce arse dal sole iberico. Avevo vernice fluorescente dappertutto, anche sui denti. Il vantaggio è che, la sera, non c'era bisogno che accendessi le luci dello scooter: bastava che sorridessi. Fine della decima nota

Bene, ora ho un'idea pazzesca: fine del post. Buona settimana a tutti, ciao!

p.s: questo post è un lavoro di fantasia. Ho passato le tre settimane di vacanza a un seminario su Dostoevskij dal titolo 'L'Idiota sei tu'

Bibliografia essenziale

Alfredo C, 'Su le mani Pineta e altre storie dell'orrore'

Barbara B, 'La chiave del successo, ho perso anche quella'

Silvia N, 'Fukushima in due pennellate'

Bobo, Lorenzo C e Stefano M, 'Ho un'idea pazzesca: l'idea pazzesca'

Bobo, 'Barboni!'

Bobo, 'L'io, l'es e il tavolo'

La valigia di Bobo, 'Entropia e metafisica del disordine'

Le zanzare di Formentera, 'L’assedio'

Il fischietto, ‘Essere sempre sulla bocca di tutti: come gestire lo stress’

Giada B, 'Sono bionda, dunque fischietto. Con le istruzioni'

Claudia R, 'Sono mora, dunque fischietto. Senza istruzioni'

Alessandro B e lo staff di Club Haus 80, 'Tonight i'm gonna have myself a real good time'

David A.R, '35 anni. Di cazzate'