lunedì 5 novembre 2012

Train-ing, ovvero il duro allenamento con il Cisalpino

Cinque minuti. L'unità di misura temporale media per raggiungere luoghi o persone. Cinque minuti. La resistenza di un adolescente brufoloso ed eccitato nel contenere il suo entusiasmo durante i primi rapporti sessuali - calcolati per eccesso, o per decesso, vedi alla voce dolce morte. Cinque minuti. Il tempo che il Cisalpino appena partito da Milano, direzione Zurigo, decide di sfruttare prima di prendersi una meritata pausa di più di mezz'ora per non specificati problemi tecnici al motore. Parole del capotreno che si abbattono sui miei timpani come kamikaze, destandomi dalla catatonia in cui ero sprofondato.


"Il treno arriverà alla stazione di Como con un ritardo di circa trenta minuti. Ci scusiamo per il disagio".

Sbuffo. Fisso la signora di fronte a me che con una violenza inaudita morde una mela, probabilmente ancora viva. Quanta sofferenza che c'è nel mondo. La fisso e mi godo il momento, immaginario, in cui lei, come molti altri passeggeri, scenderà, a Como, Chiasso, Lugano o Bellinzona, e io potrò allungare finalmente le gambe. Quanta sofferenza che c'è nel mondo. E nei miei arti posteriori.

La mia testa ciondola, esanime. A riportarla verso una compostezza che assomiglia più che altro a rigor mortis, un altro messaggio criptico del capotreno: "Il treno giungerà a Chiasso con un ritardo ulteriore di venti, venticinque minuti su quello già accumulato.". Immagino che, a questo punto, Trenitalia dovrebbe lanciare l'accumulo dei punti ritardo. Il successo è assicurato. Sbuffo. Fisso la signora di fronte a me che, questa volta, è alle prese con un libro. Che stringe con violenza inaudita. Quanta sofferenza che c'è nel mondo. La fisso e mi godo il momento, immaginario, in cui lei, come molti altri passeggeri, scenderà, a Chiasso, Lugano o Bellinzona, e io potrò allungare finalmente le gambe. Quanta sofferenza che c'è nel mondo. E nei miei arti posteriori.

Di fianco a me, un dialogo surreale tra una giovane signora dell'Ecuador, suo figlio adolescente e un'anziana signora svizzera tedesca. La signora dell'Ecuador è venuta a Milano per trovare fratello e sorella. L'anziana signora torna da un fine settimana a Venezia. All'adolescente non gli frega un cazzo di niente a parte le sue fighissime cuffie rosse del Dottor Dre che causano sordità istantanea a lui e simultanea rotazione degli zebedei al sottoscritto. La giovane signora parla tedesco, ma con la signora svizzera tedesca vuole fare sfoggio del suo pessimo italiano. L'anziana signora parla un pessimo italiano e vuole fare sfoggio della sua sordità, probabilmente un regalo del Dottor Dre e delle sue fighissime cuffie rosse.


Giovane donna: Mia sorella e mio fratello vivono aqui in Milano (con pronuncia molto sudamericana)
Anziana signora: Eh? Ah… Sono stata da Venezia. Faceva molto caldo (con dizione lenta. Lentissima.)
Giovane donna: Bella Venezia
Anziana signora: Eh?
Il figlio adolescente: No hablo italiano
Anziana signora: Suo figlio? - indicando l'adolescente
Giovane donna: Sì
Anziana signora: A Venezia faceva molto caldo.

Silenzio

Giovane donna: Dove vive in Svizzera?
Anziana signora: Eh?
Giovane donna: Dove vive in Svizzera? - più forte e lento
Anziana signora: In Zurigo. Vicino. Witikon
Giovane donna: Ah, conosco
Anziana signora: Conosce Milano?
Giovane donna: ...
Il figlio adolescente: No hablo italiano

La giovane signora si alza. L'anziana signora si alza. La giovane signora si siede. L'anziana signora si siede. L'adolescente, alla fine del viaggio, è più sordo dell'anziana signora. Fisso la signora di fronte a me. Dorme. Di un sonno violento. Quanta sofferenza che c'è nel mondo. La fisso e mi godo il momento, immaginario, in cui lei, come molti altri passeggeri, scenderà, a Lugano o Bellinzona, e io potrò allungare finalmente le gambe. Quanta sofferenza che c'è nel mondo. E nei miei arti posteriori.

Urla disumane si propagano per la carrozza. Mi volto. Lei avrà tre anni. Forse tre anni e qualche giorno. Tratti orientali. Eppure, da quelle fessure che ha al posto degli occhi esce una cascata di lacrime che fa straripare dalle narici un fiume in piena di muccio. Un'onda anomala di liquidi che le solca il viso e, ai miei occhi, la rende una calamità soprannaturale. Il padre, un omone con le fattezze di un megalito e i tipici tratti somatici dell'idiota, le sorride, orgoglioso di avere una figlia dotata di capacità vocali disumane. La madre, testa appoggiata sul tavolino, giace immobile nel suo posto, esanime. Una vera sfortuna che non possa assistere all'esibizione artistica del pargolo. Alzo il volume del mio iPod che viene rilevato da alcuni sismografi della zona. Fisso la signora di fronte a me. Sbadiglia annoiata. Uno sbadiglio che, con violenza, mi contagia. Quanta sofferenza che c'è nel mondo. La fisso e mi godo il momento, immaginario, in cui lei, come molti altri passeggeri, scenderà, a Bellinzona, e io potrò allungare finalmente le gambe. Quanta sofferenza che c'è nel mondo. E nei miei arti posteriori.

Movimenti gastrici sospetti mi inducono a mettermi alla ricerca di cibo. Google maps mi guida fino al vagone ristorante. Pieno. Attendo che qualcuno si profili all'orizzonte. Un minuto. Due minuti. Tre minuti. Passano cinque minuti di noia, di vita perduta e mai più recuperata. Non sono Maometto, ma verso la montagna ci vado lo stesso. Faccio capolino all'interno della cucina dove un tizio armeggia tra salumi e microonde vari.

'Mi scusi, c'è un posto libero?'

Il tizio si volta, lo sguardo perso nel dubbio lacerante. 'Ehm...'. L'attività neuronale lo destabilizza, la bocca si apre nel tentativo di dare voce a quello che pare essere un principio di pensiero. '… credo di sì…'. Bisogna credere in qualcosa. Le convinzioni ci aiutano a orientarci, danno un senso al non senso. Io credo che l'uovo sodo sia nato dopo la gallina. Credo, dunque sodo. '… ma le dico subito che dovrà aspettare almeno trenta, quaranta minuti'. Vero che il tempo vola, ma non quando hai fame. L'eternità, un concetto che non esisteva prima che inventassero le poste italiane, condensata nell'attesa di un piatto di pasta riscaldato. No grazie. Me ne torno al mio posto. Fisso la signora davanti a me. Ha degli auricolari infilati nelle orecchie. Infilati con della violenza inaudita, sono certo che in qualche punto della sua testa si congiungeranno provocandole una reazione epilettica. Siamo ad Arth Goldau. Ho capito, non me ne sbarazzerò fino a Zurigo, le mie gambe si atrofizzeranno, rimarrò storpio, passerò il resto dei miei giorni davanti alla televisione a vedere la Clerici che mi insegna a fare la pappa al pomodoro… Quanta sofferenza che c'è nel mondo. E nei miei arti posteriori.

Cos'è questo rumore?! Mi guardo in giro. Usare una motosega all'interno di una carrozza dovrebbe essere un'attività vietata. Poi, lo vedo. Difficile non notarlo: un uomo di colore, sulla trentina. Enorme. Forse sono due uomini attaccati, tutti e due enormi, non vedo bene. Sdraiato a fatica su due sedili, dorme. Ma, soprattutto, russa. No, russare è il verbo sbagliato, a meno che non se ne tenti una ridefinizione semantica. Quest'uomo ha un utilizzo avanguardista del suo naso, una cacofonia sinfonica prodotta da un paio di narici: è il Boulez della russata, il Baumgartner della caduta libera nell'apnea notturna con ipertrofia dei turbinati e conseguente rottura del muro del suono, un vuvuzela roncopatico contro cui anche alzare il volume dell'iPod si rivela una tecnica di difesa totalmente fallimentare. Fisso la signora davanti a me. Mi fissa. E poi, probabilmente toccata nel profondo dalla sinfonia di musica seriale, mi sorride. Questa volta senza alcuna violenza. La riconciliazione con il mondo, l'Universo, l'es e il super io - e a proposito di es, ho bisogno subito di un espresso per combattere la pulsione all'abbiocco che si sta rimpadronendo di me -, con l'io e Dio. Con il Cisalpino. Ricambio il sorrido. Sì, c'è tanta sofferenza nel mondo ma, almeno per un istante, me ne dimentico. Così come mi dimentico delle mie gambe che, prive ormai di afflusso sanguigno, hanno la funzione di semplici appendici decorative.

Finalmente a Zurigo. Grazie alle potenti tecnologie svizzere, abbiamo viaggiato indietro nel tempo. Tre quarti d'ora per la precisione. Infatti, arriviamo con soli quindici minuti di ritardo rispetto all'ora accumulata in precedenza. Niente santi e poeti, ma un popolo di navigatori nel tempo. Carpe diem, che se lo perdi, il treno svizzero è già partito. Mi dirigo verso la fermata del tram e lo vedo, il tre, che in silenzio, mestamente, abbandona la banchina. Maledizione. Il cartellone elettronico parla chiaro: dieci minuti di attesa. Non voglio tirare fuori di nuovo il discorso sull'eternità, così vi dirò solo che decido di sborsare venti franchi per la causa buona e giusta del mio ritorno immediato a casa. Mi attendono pizza, coca e il messaggio di mia madre, 'Sei arrivato?'. Si preoccupa. Da quando le ho raccontato la storia del capotreno svizzero tedesco che, mesi prima, aveva annunciato che il treno era 'fortemente ritardato', non è più la stessa. Deve avere interpretato male. Proprio vero: quanta sofferenza c'è nel mondo. E nella lingua italiana. Buona settimana a tutti!