mercoledì 4 settembre 2013

Scatto felino

Quando mettete piede a Yosemite Park, la prima cosa che notate, a parte le sconfinate dimensioni del parco californiano, sono alcuni cartelli di avvertimento. Tipo 'Cari visitatori, questo è il territorio naturale dell'orso bruno, del puma e di altri animali di cui non siete in grado nemmeno di pronunciare il nome. Nel caso abbiate la sfortuna di trovarvi in un faccia a faccia ravvicinato con qualcuno dei suddetti, cercate di sembrare più grossi, ma molto più grossi, bullatevi, agitate le braccia, urlate, fate una giravolta, fatela un’altra volta, lanciate dei sassi. Se la strategia di dissuasione si rivelasse fallimentare, contrattaccate'. Quando l'ho letto, ho pensato, sì, certo. Come le istruzioni di pronto soccorso, quando vi insegnano a fare una tracheotomia con una Bic. Pensi, grazie per i suggerimenti, ma capiterà a una persona su diecimila ogni cambio di secolo. Perciò, armato solo della mia folta barba e in compagnia dell'adepta al culto di essa, ovvero J, la mia bionda e, bella zia, rakazza teteska, mi sono avventurato in un'escursione di quattro ore, uno scosceso sentiero in salita, niente acqua, il sole già a temperatura forno a legna. E poi dicono che uso troppe iperbole nei miei post. Il costo del biglietto per assistere al grande spettacolo della natura? Una doccia di sudore e il baratto delle nostre gambe in cambio di un paio di macigni. Ma ne valeva la pena. La maestosità della cascata, con la potenza dei suoi ettolitri di acqua in caduta libera, ha il potere di riconciliarmi con nostra madre terra, trasformandomi immediatamente in un essere metà umano e metà macchina fotografica digitale. Mettiti lì, clic. Sorridi, clic. Il panorama, clic. L'arcobaleno, clic. L'inevitabili nuvole - per cui nutro una profonda ossessione -, clic. Il solito centinaio di foto che difficilmente troverebbero posto sulla scialuppa di salvataggio delle immagini con un minimo di valore artistico. D'altronde, a essere obiettivi,  l'obiettivo dietro l'obiettivo nasconde più un Io c'ero che un Io immortalo. Questa non l’ho capita neanche io.

Apro parentesi. Millenni tecnologici fa di digitale c'era poco o niente. C'erano le vacanze. E la mia macchina fotografica. Le due cose erano indissolubili. D'estate, quella vera, che durava almeno tre mesi, quella calda, afosa e infestata di zanzare, dovunque andassi, avevo sempre lei al mio fianco. La mia amata fotocamera. Con l'inseparabile rullino Kodak da 36 foto. 36. I clic, allora, erano frutto di fatica. Erano pensati. E pesati, in soldi, visto che poi le foto bisognava svilupparle e mi toccava pagare pure quelle schifezze sfuocate in cui si intravedeva solo mezza testa adornata da un paio di dita a mo’ di corna. La qualità era migliore? La verità è che, riguardando gli album impilati nei cassetti della casa dei miei a Milano, il risultato di tutti quei clic era qualcosa di mediocre.  Credo che la tecnologia ci abbia aiutato a diventare tutti un po' più bravi. Solo nella qualità dei miei ricordi non vedo differenze. Bella o brutta che sia la foto. Dovrebbero inventare il nostanalgesico che cura i mali della nostalgia. Clic, chiusa parentesi.

Esauritosi l'impeto artistico e la contemplazione del sublime, non rimane che tornare sui propri passi. Questa vota, passi in discesa. Un film all'incontrario senza finale a sorpresa. Almeno, era quello che credevo fino a quando…

J: 'David?', fermandosi improvvisamente
Io: 'Sì?'
J: 'David', indicandomi qualcosa venti metri più avanti, sulla curva del sentiero, 'non penso sia un gatto'

Non che ci fosse pericolo di confusione, perché sì, a un gatto un po' ci assomigliava, ma dieci volte più grosso.

J: 'David, fagli una foto!'

Ora, quando vi trovate per la prima volta nella vita davanti a un puma e non sapete, almeno non ancora, se sarà anche l'ultima, l'immortalare è un qualcosa sfuocato che passa in secondo piano.  Una foto, brutta, l'ho scattata, ma quello che stava davvero scattando in quel momento era l'istinto di sopravvivenza. Così, ho armato J di un voluminoso sasso e mi sono messo alla ricerca di un pezzo di legno adatto all'occasione. Ero pronto alla battaglia. Vedevo già il titolo: turista prende a bastonate sulle gengive feroce puma locale. Intervistato, il turista dichiara 'Paura? Mai avuta. Ho affrontato l'Ikea di Corsico la domenica pomeriggio'.

Intanto, un gruppo di cinque persone stava sopraggiungendo. Li fermo, indico loro il problemino con vibrisse e spiego loro la mia strategia bellica: attendiamo pazientemente. Immobili.

In tutto quel tempo, uno scampolo di eternità condensato in soli quattro o cinque minuti, il puma non ci ha mai degnati di uno sguardo. Se ne stava lì, a fissare qualcosa, forse a riflettere sui massimi sistemi, incurante di noi. Poi, probabilmente annoiato, è scomparso tra le rocce, concedendo ai nostri parametri vitali di tornare a livelli di normalità. Naturalmente la storia, col passare degli anni, amplificherà i toni drammaturgici. Quando sarò vecchio e senza denti - non che manchi molto - il puma diventerà miracolosamente un alligatore di dieci metri che racconterò aver domato con la sola forza delle mie sopracciglia.

E da un incontro potenzialmente mortale a uno scontro decisamente letale il passo non è poi così distante. Qualche centinaio di chilometri. La strada che da Monterey porta a Santa Barbara. Lasciatomi alle spalle quel tratto di costiera amalfitana a stelle e strisce, sfreccio con la mia ruggente Ford Focus, la lancetta del contachilometri fissa sulle 75 miglia all'ora. La vita, però, se ne fotte delle miglia, delle corsie autostradali, del codice della strada, della musica del mio iPod diffusa dalle casse della macchina, della California, delle mie vacanze, di quello che c'era prima e di ciò che verrà poi, del conto, salato, del mio dentista – tutti quegli euro  solo per la pulizia? E del cervo che, dominato da impulsi autodistruttivi, si materializza improvvisamente in autostrada. La fatalità, a volte, è questione di pochi metri. 'Io non freno' è l'unica cosa che riesco a pronunciare alla mia ragazza, pietrificata dall'angoscia della morte, prima che l'aspirante suicida venga centrato in pieno dalla macchina che mi precede sulla destra. Il cervo, catapultato, si libra in aria, leggero, sopra di noi. Un volo senza speranze. Dallo specchietto retrovisore vedo la macchina ferma. Spero che il conducente non si sia fatto niente.

Spesso ci immaginiamo come potremmo comportarci in certe occasioni. Cosa farei se… Una cosa così, però non me l'ero mai immaginata e se l'avessi fatto, avrei pensato a una reazione completamente diversa. Panico, bestemmia, frenata, sterzata, incidente, il tunnel di luce, Dio, le conigliette di Playboy. Invece, nessun tipo di reazione. Calma. Sangue freddo. Non una persona, ma un robot. Impressionante. Da me non me lo sarei mai aspettato. L'oracolo di Delfi aveva detto di conoscere se stessi, ma non quanto questo processo conoscitivo sarebbe durato.

Non avrei altro da raccontare. O forse sì. Come quando a Los Angeles, mostrando infondata sicurezza da manuale del piccolo esploratore, ho deciso testardamente di raggiungere a piedi Downtown dal nostro albergo in Little Japan, avendo così la possibilità di apprezzare la fauna che popola il variopinto quartiere di Skid Row. Sopravvissuto anche qui.

Resta un rimpianto: non essere riuscito, almeno una volta, a immergermi nell'Oceano con una tavola da surf, sull'onda, più che altro, dell'entusiasmo. Ma, sapete com'è, dopo il puma e il cervo… La mia ragazza deve avere intuito qualcosa anche se, ammettiamolo, gli squali, quelli pericolosi, non si trovano sott’acqua. Buona settimana a tutti!