La domanda mi frullava nella scatola cranica da un po’.
“Fra, ci sono squali a Santa Cruz?”
Francesco: “Be’, sì. Comunque l’ultimo attacco risale a una decina di anni fa”
Ottimo. Non ho idea di cosa significhi, ma ottimo. Forse che i surfisti californiani non sono più gustosi come una volta. O forse che gli squali sentono la concorrenza di avvocati e banchieri e preferiscono tenere una linea defilata.
Francesco: “Nel caso, un bel cazzotto sul muso”
Adesso mi sento più tranquillo. I sei anni di pugilato mi saranno serviti almeno a qualcosa. Se mi trovo faccia a faccia con un pescecane, montante sinistro, gancio destro. Poi arriva l’arbitro a contare ed è fatta. Anche i miei compagni di viaggio, ora che ne sono al corrente, si sentono più tranquilli. Infatti domandano cortesemente se sia possibile, nel caso, arenarsi sulla spiaggia e costruire delle piste per le biglie o dedicarsi, come ultima alternativa, al gioco dei racchettoni.
Squalo o no, non rinuncerei mai all’occasione di fare surf in California. Almeno una volta nella mia vita. E la giornata limpida, con i suoi 28 gradi, non è altro che il sigillo papale finale. Un 3 di novembre che non mi scorderò facilmente. Zurigo e il suo clima polare sono una reminiscenza lontana soffiata via dalla brezza oceanica.
Di questa cosa credo che Francesco me ne parli almeno da un anno.
“Quando vieni a trovarmi negli Stati Uniti, ti porto a fare surf”. La promessa è stata mantenuta. Così, alle 4 del pomeriggio, siamo tutti in macchina in direzione di Santa Cruz: Francesco alla guida, io di fianco e dietro L, S e D. Di solito non cito mai i nomi di chi appare nei miei post, ma in questo esprimo a Francesco l’eterna riconoscenza per la realizzazione di un sogno che mi porto dietro da quando vidi per la prima volta Un mercoledì da leoni. Abbordare delle ragazze californiane.
Traffico sostenuto ma scorrevole. Siamo tutti eccitati. Francesco, dopo aver appreso delle mie arti da killer professionista, gioca un’altra carta. Quella delle onde. Due metri di altezza. E mentre D, dietro, diventa sempre più pallido, ceruleo, una mozzarella con i capelli alla Renegade, io me ne impipo, perché il mio cerebro non riesce ad afferrare il concetto. E poi, cosa volete che siano due metri di onda per uno che è sopravvissuto a dieci edizioni del Grande Fratello? Proseguiamo sulla strada tra tornanti e curve paraboliche. Il tall latte di Blockbuster, una versione a stelle strisce del nostro cappuccino creata appositamente per soggiogare gli stomaci dilatati degli americani, scorre freneticamente nel mio duodeno e per alcuni istanti ho la sensazione di essermi trasformato in qualcosa di aereo, impalpabile. Tipo un peto, ma con più denti. Francesco, che in fondo all’animo è un buono, decide di alleviare la missione kamikaze impartendoci una breve lezione di nozioni basilari da apprendere prima di entrare in acqua con la tavola. Io faccio finta di prestare attenzione e intanto mi immagino mentre cavalco l’onda e le tre conigliette di Playboy, là, sulla spiaggia, che impazziscono per le mie acrobazie e i miei bicipiti scolpiti alzando e abbassando per intere nottate bicchieri pieni di cuba libre. Devo ricordarmi di chiamare il vecchio Hugh prima di tornare in Italia. Magari gli serve una mano. L, invece, gioca distrattamente con il cellulare mentre S, che dice di sapere l’italiano, mostra segni di assenso con il capo anche se ho il forte dubbio che non capisca assolutamente nulla. D è l’unico che sembra davvero interessato alla lezione. Un interesse suscitato dal terrore, tant’è che pochi minuti dopo, posseduto dallo spirito del Furio di Bianco, Rosso e Verdone, chiede in successione: temperatura dell’acqua, direzione e velocità del vento, percentuale di umidità, peso specifico della tavola e un amaro Lucano. Se ricordo bene. Arrivati a destinazione, andiamo alla ricerca di un posto che ci affitti l’attrezzatura necessaria. Il tizio del negozio, cappellino da baseball in testa ed espressione inebetita dalla salsedine e da troppi anni passati davanti allo specchio a schiacciarsi i brufoli, non ne vuole sapere di affittarci le tavole. Le onde sono troppo alte per dei principianti. D intanto è svenuto. Francesco gli spiega che non c’è nulla da temere perché, se Michael Phelps può continuare ad abbattere un record dietro l’altro, è solo grazie al fatto che io, ragazzo modesto e di animo nobile, preferisco starmene dietro le quinte e lasciarlo fare. Quindi, nel caso le cose si mettano male, io sono il loro Mitch Buchannon. Il tizio mi lancia un’occhiata. Forse non se la beve. Il tizio dice occhei occhei. Forse se l’è bevuta. Dieci minuti dopo siamo in spiaggia. Devo ammettere che infilarmi la muta non è stato semplice e la faccenda è stata complicata ulteriormente dal fatto che la prima volta me la sono messa all’incontrario, segno evidente di precoce demenza senile. Prima di entrare in acqua, ci sdraiamo sulle tavole e proviamo a saltarci sopra mantenendo la posizione di equilibrio. I tentativi sono alquanto pietosi e, visti da lontano, sembriamo quattro foche spiaggiate. E quelle che si vedono roteare sui nostri nasi, sì, sono proprio palle. Bando alle ciance, è ora di entrare in azione. Sappiate che quando vi dicono che l’acqua dell’Oceano è fredda, mentono. Infatti, è ghiacciata e i miei piedi subiscono istantaneamente un processo di criogenia, trasformandosi in due lapidi che penzolano inerti dalle gambe. Il surf del principiante non è altro che un’attesa spasmodica dell’onda, una pagaita continua con le braccia che fiacca anche i fisici più allenati e basta, perché scordatevi di cavalcare l’onda. Per la verità, e non chiedetemi come ci sia riuscito, io ce l’ho fatta. Sono riuscito a conquistare la tanto agognata posizione e mi sono sentito sollevare verso il cielo. Avevo già il dito puntato modello Giudizio universale. Una sensazione incredibile. Ricordo di aver pensato “Che figat...”, ma non sono riuscito nemmeno a concludere il pensiero – un vero peccato, ne sono certo, per l’élite intellettuale mondiale – che il muro di acqua, una valanga inarrestabile, mi ha sbattuto giù, centrifugato a trenta gradi e per quattro o cinque secondi sono stato in balia di questa incredibile forza della natura, incapace di intendere e di volere, di riconoscere la destra dalla sinistra, il sopra dal sotto e il PD dal PDL. Insomma, il tronista perfetto.
La giornata si è conclusa poi nel modo più degno, ovvero davanti a quattro birre, lo scrosciare lontano delle onde, sottofondo ideale di un imbrunire che ha quel sapore melanconico di un qualcosa che finisce e che, ahimè, non tornerà mai più, perché sì, lo diceva già Eraclito, tutto, inevitabilmente, scorre. Come la nostra vita. Grazie Francesco perché, a 34 anni, e lo scrivo senza retorica, ho capito di nuovo cosa vuol dire essere un bambino – ecco perché il mio pene, uscito dall’acqua, era così minuscolo... Buona settimana a tutti!
Come e perché fruire dei contenuti al doppio della velocità
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3 anni fa
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