La testa mi penzola e gli occhi faticano a rimanere aperti. Non è l’effetto di un oppiaceo ma la conseguenza di tre giorni di corsi aziendali e di qualche birra di troppo. E sono di nuovo in viaggio. Scambio qualche parola con i miei colleghi mentre il taxi diretto verso l’aeroporto attraversa le trafficate strade di Richmond. Le lunghe pause di silenzio sono sintomo di stanchezza più che di carenza di argomenti; d’altronde, si può conversare sul nulla per ore. Ho bisogno di dormire. Svoltiamo a sinistra, in una via a senso unico. E ci fermiamo. Davanti a noi, un Mercedes fermo, una giovane donna alla guida che gesticola e un bambino che strilla. Poco più avanti, un furgone per i traslochi e dei tizi intenti a trasportare, con fatica, scatoloni di mobilio. Cerchiamo di capire cosa sta succedendo, anche se lo stato di torpore non è la condizione ideale per analizzare eventi e situazioni. Le cose stanno così: il furgone è parcheggiato leggermente di traverso, ovvero, ruote e muso spuntano fuori dalle linee di demarcazione apposite. Il disagio psicologico creato alla giovane donna è grande. Esageratamente grande. Incommensurabile. Non avere spazio per proseguire è davvero antipatico. Essere in balia di qualcun altro è piuttosto spiacevole. Farci perdere l’aereo, tuttavia, lo sarebbe molto di più. Io la potrei capire, la giovane donna. Potrei, ma non posso, perché se invece di guardare dritta davanti a sé come quei cavalli con i paraocchi provasse a voltare la testa a sinistra, si accorgerebbe subito di quei due metri di spazio utili per sterzare tutto a sinistra e ripartire. Sarebbero sufficienti anche a un camion per fare manovra ed è probabile che basterebbero a un Boeing per un atterraggio di emergenza. Uno dei miei compagni di viaggio tira giù il finestrino e informa la Schumacher inglese dell’esistenza di questo spazio inutilizzato. Ma lei, niente. Nell’ipotesi che sia sorda o quanto meno poco avvezza all’uso delle parole, io, da dietro, mi esibisco in una pantomima e cerco di fornirle indicazioni vitali. Ma lei, niente. Alza le braccia come a dire, non posso farci nulla. L’autista percepisce la nostra impazienza e, per evitare che venga incanalata in qualche istinto omicida, scende e si avvicina alla macchina. Assistiamo a uno scambio di vedute. Lei alza le braccia. Non può farci niente. Il taxista torna indietro. Sconfitto. “Dice che non riesce a passare e in più il suo bambino continua a strillare”. Non cogliamo il nesso, deve essere umorismo inglese. Intanto, si sta formando una fila chilometrica. Qualcuno suona il clacson, ma con delicatezza. In Italia sarebbe già partita una fanfara di clacson con tanto di direttore e coro. Aspettiamo. Il mio collega polacco esprime nella sua lingua qualcosa di cui ignoro il significato, anche se posso farmene un’idea. Dubito siano complimenti. Potremmo stare ore così, fermi, ma lo spettacolo non è dei migliori. Certo, sempre meglio di Ciao Darwin. Poi, il deus ex machina si materializza nelle sembianze di un ragazzo con l’aspetto di picchiatore professionista che sale sul furgone, mette in moto e si allontana. La giovane donna mette in moto e si allontana. Il bambino strilla. Il taxista mette in moto. Noi strilliamo. Superiamo la giovane donna. Il bambino continua a strillare. Venti minuti dopo arriviamo all’aeroporto. Puntuali. Check in, controlli di sicurezza, il giornale e un panino e sono già seduto al mio posto. Giusto il decollo, poi crollo direttamente in fase rem. Shiny happy people. Zurigo, sto tornando. Ah, dimenticavo, volete sapere cosa strillava il bambino? “Cazzo, non lo vedi che hai due metri alla tua sinistra, gran pezzo di idiota?!”. Buona settimana a tutti!
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3 anni fa
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