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mercoledì 16 aprile 2014

Fischi e fiaschi

Dopo un lungo e ininterrotto periodo in ostaggio dello svizzero tedesco, decido che è tempo di dare sollievo alle mie orecchie e tornare qualche giorno a Milano. Così, mercoledì sera di un fine ottobre particolarmente mite, con la pila di giornali internazionali sotto il braccio pronti ad assistermi per quattro ore di viaggio all'interno di quel mezzo di pocomozione - perché, in genere, pochi minuti dopo aver lasciato la banchina, si ferma, per motivi ignoti a noi mortali, parcheggiandoci in un limbo di sospensione spazio temporale - conosciuto con il nome di Cisalpino, mi ritrovo alla stazione di Zurigo, davanti al tabellone delle partenze. Scorro con lo sguardo e lo vedo, il mio treno, quello delle svizzere diciannove e zero nove e non un secondo di più. E, purtroppo, leggo anche, di fianco al numero del binario, una di quelle parole tedesche che sono entrate subito nel mio vocabolario: ersatz. No, non è un ordine nazista volto alla soppressione fisica di altri esseri umani. Semplicemente dice che, al posto del treno in questione, ne parte un altro.

Mi dirigo al binario. Onde evitare di ritrovarmi in qualche sperduto villaggio elvetico dove gli indigeni si nutrono di fondue umana, chiedo al capotreno se quello è il convoglio ferroviario diretto a Milano.

'Sì signore', mi risponde, imitando alla perfezione il Rezzonico di Aldo, Giovanni e Giacomo. 'Purtroppo, a causa di un guasto, il Cisalpino è rimasto in Italia. Deve cambiare però a Chiasso.'. Poi, mi sembra abbia aggiunto 'Cavolo, potevo rimanere offeso di brutto!'.

Vi assicuro, il fatto di dover spendere tre ore su un treno svizzero, invece che sul Cisalpino, lo considero alla pari di una vincita al super enalotto. Il cambio a Chiasso è il pegno da pagare.

Trovo subito da sedere. Poca gente: un uomo d'affari a inizio vagone, immerso nella poesia di un excel; una coppia di anziani coniugi che bisbigliano parole e me incomprensibili; due signori italiani, sulla cinquantina. Rispondo a qualche mail. Intanto, il treno parte. I due italiani iniziano a sgranocchiare patatine e a parlare ad alta voce, così che chiunque, nel raggio di un paio di chilometri, possa seguire il loro arguto scambio di opinioni.

’Shhh!’, si sente echeggiare dal profondo di un sedile. La cosa non sortisce nessun effetto sulla coppia di miei connazionali, che continuano imperterriti con le loro dissertazioni filosofiche sul nulla che nulleggia. Passano pochi minuti e davanti a loro si staglia, imponente e minacciosa, l’avvizzita figura dell’anziana coniuge, ovviamente svizzera, che con il dito impostato nella funzione predicozzo, in un italiano stentoreo, rammenta ai bifolchi che ‘questo è fagone ti szilentzio’. Quindi, torna dalla mummia che le siede davanti e richiude il sarcofago. I due ridacchiano per alcuni secondi, fino a quando un silenzio spettrale scende nello scompartimento. Sento la mia testa diventare sempre più pesante e trasformarsi, insieme al collo, in un metronomo che ciondola a destra e a sinistra, due battiti al minuto.

Mentre combatto la mia personale battaglia tra sonno e veglia , vedo un paio di figure sfrecciare avanti e indietro per i vagoni, probabilmente alla ricerca di una risposta la cui domanda non possono capire perché è in svizzero tedesco. Queste ombre che popolano il mio dormiveglia provengono dal paese di colui che alza giapponesi per diletto, il sollevante. Finalmente, le due anime in pena trovano la pace, che ha assunto le sembianze di due posti proprio di fianco alla coppia di vetusti coniugi. Neanche il tempo di far vibrare le loro corde vocali che la nonnina elvetica, intercettando il movimento labiale, emette uno ‘Shhh’ del settimo grado della scala Richter, zittendo i vicini e instaurando il regno del terrore. ‘Questo è fagone ti szilentzio. Se volete parrrlare, antate da altra parte!’. Davanti a questo ennesimo sopruso mi rimane solo una cosa da fare: dormire.

‘Fifuu. Fifuu. Fifufifuu’. Questo zufolio intermittente, fendendo l’aria, giunge fino al mio timpano e lo percuote, causando come inevitabile effetto secondario l’apertura di una dalle mie palpebre. ‘Fifuu. Fifuu. Fifufifuu’. Chi è che si è portato dietro la gabbia con il canarino? Con fatica, riemergo dall’oblio nella nuova veste di ornitologo, alla ricerca del pennuto fischiatore. Qualche fila dietro di me, la turista giapponese, sdraiata su due sedili, non dà segni di vita. Spero non abbia fatto seppuku dopo l’onta della ramanzina in salsa Rosti. ‘Fifuu. Fifuu. Fifufifuu’. Lo so cos’è: un cardellino. Cardellino rosso, espulso. E poi lo vedo. Dall’altra parte del vagone. Il giapponese, che cerca disperatamente di attirare l’attenzione della moglie. ‘Fifuu. Fifuu. Fifufifuu’. Se non si tratta di un rituale di accoppiamento, direi che sta cercando di aggirare in qualche modo la regola del silenzio senza attirarsi le ire funeste della vetusta rompicoglioni. Per tirare fuori dal coma la moglie, però, mi sa che gli conviene emulare il barrito di un elefante.

Tutta questa selvaggina mi ha messo un certo appetito. Il vagone ristorante è lì apposta per levarmelo. Mi butto nello studio matto e disperatissimo del menu, sempre lo stesso da quando ho memoria della tratta Zurigo - Milano, ma la mia concentrazione è messa a dura prova da provocatori disseminati a caso nel vagone per distrarmi con i loro vaniloqui e impedirmi di ordinare a mente lucida, lanciandomi subliminali messaggi di kase fondue. Il primo disturbatore ufficiale è un ragazzo brasiliano, alla mia sinistra, impegnato in una chilometrica telefonata che si perde nella notte dei tempi. La parlantina a raffica con cadenza san paolo/genovese origina una mitragliata di sputi carichi di ettolitri di saudade. Alla mia fervida immaginazione ci vogliono pochi minuti per metterlo a tacere con dei mirati colpi di okuto che gli espandono il già voluminoso testone fino a raggiungere il livello esplosione.

Al tavolo di fronte al mio, una ragazza conversa con un tizio appena conosciuto e gli racconta che è originaria di Napoli ma è cresciuta in Trentino e che ora vive a Milano dove ha la sua attività di comunicazione ed eventi - tanto per cambiare - e che è cento volte meglio che farsi spremere come impiegata in qualche azienda, certo, a meno che non si occupi una posizione importante. Certo. Sul finale vengo colpito da sordità fulminante che, per un istante, mi libera dal velo di Maja.

In fondo al vagone tre ragazzi di qualche zona remota dell’ est Europa che parlano come Brad Pitt in The snatch cercano di ordinare in una lingua a me ignota tendente all’inglese una bottiglia di vino al cameriere che, di alfabeto, conosce - male - solo quello italiano.  Il traduttore simultaneo fornito dal Cisalpino incoraggia il dipendente di Trenitalia: aiutato da un gesticolare frenetico che contribuisce ad aumentare l’entropia nell’ universo, indossa le vesti del pigmalione per aiutare i babuzzi pazzo grosso a fare la scelta giusta. Considerando che la lista contiene tre o quattro bottiglie, il compito non deve essere poi così arduo. A stappo avvenuto, i tre tirano fuori il violino e si lanciano in pirotecniche danze zigane. Se la memoria non mi inganna.

Arriviamo a Chiasso con il classico quarto d’ora accademico di ritardo che il freccia bianca dello scorso millennio su cui salgo per raggiungere Milano riesce, come per magia, a raddoppiare. Infatti, sbarco in suolo italico alle undici e venti, trenta minuti dopo rispetto alla tabella di marcia. Mi fiondo sul primo taxi. Il conducente, dopo aver appurato che vivo a Zurigo, mi rende partecipe di essere appena ritornato a vivere a Milano, avendo speso gli ultimi tre anni della sua vita in Thailandia, dove si è fidanzato e ha comprato casa, non ho capito bene in quale ordine. Purtroppo, e qui inizia la parentesi melodrammatica, la sua ragazza non riesce a ottenere il visto per venire in Italia.

’18 voli intercontinentali negli ultimi due anni, ti rendi conto? Diciotto.’. DI-CIOT-TO.

E allora lì, be’, non ce l’ho fatta più. Mi sono sporto in avanti e gli ho detto:

Zio, io ho speso gli ultimi cinque anni a viaggiare sul Cisalpino’.

Abbiamo pianto insieme. E con queste lacrime, auguro a tutti una buona settimana!

lunedì 5 novembre 2012

Train-ing, ovvero il duro allenamento con il Cisalpino

Cinque minuti. L'unità di misura temporale media per raggiungere luoghi o persone. Cinque minuti. La resistenza di un adolescente brufoloso ed eccitato nel contenere il suo entusiasmo durante i primi rapporti sessuali - calcolati per eccesso, o per decesso, vedi alla voce dolce morte. Cinque minuti. Il tempo che il Cisalpino appena partito da Milano, direzione Zurigo, decide di sfruttare prima di prendersi una meritata pausa di più di mezz'ora per non specificati problemi tecnici al motore. Parole del capotreno che si abbattono sui miei timpani come kamikaze, destandomi dalla catatonia in cui ero sprofondato.


"Il treno arriverà alla stazione di Como con un ritardo di circa trenta minuti. Ci scusiamo per il disagio".

Sbuffo. Fisso la signora di fronte a me che con una violenza inaudita morde una mela, probabilmente ancora viva. Quanta sofferenza che c'è nel mondo. La fisso e mi godo il momento, immaginario, in cui lei, come molti altri passeggeri, scenderà, a Como, Chiasso, Lugano o Bellinzona, e io potrò allungare finalmente le gambe. Quanta sofferenza che c'è nel mondo. E nei miei arti posteriori.

La mia testa ciondola, esanime. A riportarla verso una compostezza che assomiglia più che altro a rigor mortis, un altro messaggio criptico del capotreno: "Il treno giungerà a Chiasso con un ritardo ulteriore di venti, venticinque minuti su quello già accumulato.". Immagino che, a questo punto, Trenitalia dovrebbe lanciare l'accumulo dei punti ritardo. Il successo è assicurato. Sbuffo. Fisso la signora di fronte a me che, questa volta, è alle prese con un libro. Che stringe con violenza inaudita. Quanta sofferenza che c'è nel mondo. La fisso e mi godo il momento, immaginario, in cui lei, come molti altri passeggeri, scenderà, a Chiasso, Lugano o Bellinzona, e io potrò allungare finalmente le gambe. Quanta sofferenza che c'è nel mondo. E nei miei arti posteriori.

Di fianco a me, un dialogo surreale tra una giovane signora dell'Ecuador, suo figlio adolescente e un'anziana signora svizzera tedesca. La signora dell'Ecuador è venuta a Milano per trovare fratello e sorella. L'anziana signora torna da un fine settimana a Venezia. All'adolescente non gli frega un cazzo di niente a parte le sue fighissime cuffie rosse del Dottor Dre che causano sordità istantanea a lui e simultanea rotazione degli zebedei al sottoscritto. La giovane signora parla tedesco, ma con la signora svizzera tedesca vuole fare sfoggio del suo pessimo italiano. L'anziana signora parla un pessimo italiano e vuole fare sfoggio della sua sordità, probabilmente un regalo del Dottor Dre e delle sue fighissime cuffie rosse.


Giovane donna: Mia sorella e mio fratello vivono aqui in Milano (con pronuncia molto sudamericana)
Anziana signora: Eh? Ah… Sono stata da Venezia. Faceva molto caldo (con dizione lenta. Lentissima.)
Giovane donna: Bella Venezia
Anziana signora: Eh?
Il figlio adolescente: No hablo italiano
Anziana signora: Suo figlio? - indicando l'adolescente
Giovane donna: Sì
Anziana signora: A Venezia faceva molto caldo.

Silenzio

Giovane donna: Dove vive in Svizzera?
Anziana signora: Eh?
Giovane donna: Dove vive in Svizzera? - più forte e lento
Anziana signora: In Zurigo. Vicino. Witikon
Giovane donna: Ah, conosco
Anziana signora: Conosce Milano?
Giovane donna: ...
Il figlio adolescente: No hablo italiano

La giovane signora si alza. L'anziana signora si alza. La giovane signora si siede. L'anziana signora si siede. L'adolescente, alla fine del viaggio, è più sordo dell'anziana signora. Fisso la signora di fronte a me. Dorme. Di un sonno violento. Quanta sofferenza che c'è nel mondo. La fisso e mi godo il momento, immaginario, in cui lei, come molti altri passeggeri, scenderà, a Lugano o Bellinzona, e io potrò allungare finalmente le gambe. Quanta sofferenza che c'è nel mondo. E nei miei arti posteriori.

Urla disumane si propagano per la carrozza. Mi volto. Lei avrà tre anni. Forse tre anni e qualche giorno. Tratti orientali. Eppure, da quelle fessure che ha al posto degli occhi esce una cascata di lacrime che fa straripare dalle narici un fiume in piena di muccio. Un'onda anomala di liquidi che le solca il viso e, ai miei occhi, la rende una calamità soprannaturale. Il padre, un omone con le fattezze di un megalito e i tipici tratti somatici dell'idiota, le sorride, orgoglioso di avere una figlia dotata di capacità vocali disumane. La madre, testa appoggiata sul tavolino, giace immobile nel suo posto, esanime. Una vera sfortuna che non possa assistere all'esibizione artistica del pargolo. Alzo il volume del mio iPod che viene rilevato da alcuni sismografi della zona. Fisso la signora di fronte a me. Sbadiglia annoiata. Uno sbadiglio che, con violenza, mi contagia. Quanta sofferenza che c'è nel mondo. La fisso e mi godo il momento, immaginario, in cui lei, come molti altri passeggeri, scenderà, a Bellinzona, e io potrò allungare finalmente le gambe. Quanta sofferenza che c'è nel mondo. E nei miei arti posteriori.

Movimenti gastrici sospetti mi inducono a mettermi alla ricerca di cibo. Google maps mi guida fino al vagone ristorante. Pieno. Attendo che qualcuno si profili all'orizzonte. Un minuto. Due minuti. Tre minuti. Passano cinque minuti di noia, di vita perduta e mai più recuperata. Non sono Maometto, ma verso la montagna ci vado lo stesso. Faccio capolino all'interno della cucina dove un tizio armeggia tra salumi e microonde vari.

'Mi scusi, c'è un posto libero?'

Il tizio si volta, lo sguardo perso nel dubbio lacerante. 'Ehm...'. L'attività neuronale lo destabilizza, la bocca si apre nel tentativo di dare voce a quello che pare essere un principio di pensiero. '… credo di sì…'. Bisogna credere in qualcosa. Le convinzioni ci aiutano a orientarci, danno un senso al non senso. Io credo che l'uovo sodo sia nato dopo la gallina. Credo, dunque sodo. '… ma le dico subito che dovrà aspettare almeno trenta, quaranta minuti'. Vero che il tempo vola, ma non quando hai fame. L'eternità, un concetto che non esisteva prima che inventassero le poste italiane, condensata nell'attesa di un piatto di pasta riscaldato. No grazie. Me ne torno al mio posto. Fisso la signora davanti a me. Ha degli auricolari infilati nelle orecchie. Infilati con della violenza inaudita, sono certo che in qualche punto della sua testa si congiungeranno provocandole una reazione epilettica. Siamo ad Arth Goldau. Ho capito, non me ne sbarazzerò fino a Zurigo, le mie gambe si atrofizzeranno, rimarrò storpio, passerò il resto dei miei giorni davanti alla televisione a vedere la Clerici che mi insegna a fare la pappa al pomodoro… Quanta sofferenza che c'è nel mondo. E nei miei arti posteriori.

Cos'è questo rumore?! Mi guardo in giro. Usare una motosega all'interno di una carrozza dovrebbe essere un'attività vietata. Poi, lo vedo. Difficile non notarlo: un uomo di colore, sulla trentina. Enorme. Forse sono due uomini attaccati, tutti e due enormi, non vedo bene. Sdraiato a fatica su due sedili, dorme. Ma, soprattutto, russa. No, russare è il verbo sbagliato, a meno che non se ne tenti una ridefinizione semantica. Quest'uomo ha un utilizzo avanguardista del suo naso, una cacofonia sinfonica prodotta da un paio di narici: è il Boulez della russata, il Baumgartner della caduta libera nell'apnea notturna con ipertrofia dei turbinati e conseguente rottura del muro del suono, un vuvuzela roncopatico contro cui anche alzare il volume dell'iPod si rivela una tecnica di difesa totalmente fallimentare. Fisso la signora davanti a me. Mi fissa. E poi, probabilmente toccata nel profondo dalla sinfonia di musica seriale, mi sorride. Questa volta senza alcuna violenza. La riconciliazione con il mondo, l'Universo, l'es e il super io - e a proposito di es, ho bisogno subito di un espresso per combattere la pulsione all'abbiocco che si sta rimpadronendo di me -, con l'io e Dio. Con il Cisalpino. Ricambio il sorrido. Sì, c'è tanta sofferenza nel mondo ma, almeno per un istante, me ne dimentico. Così come mi dimentico delle mie gambe che, prive ormai di afflusso sanguigno, hanno la funzione di semplici appendici decorative.

Finalmente a Zurigo. Grazie alle potenti tecnologie svizzere, abbiamo viaggiato indietro nel tempo. Tre quarti d'ora per la precisione. Infatti, arriviamo con soli quindici minuti di ritardo rispetto all'ora accumulata in precedenza. Niente santi e poeti, ma un popolo di navigatori nel tempo. Carpe diem, che se lo perdi, il treno svizzero è già partito. Mi dirigo verso la fermata del tram e lo vedo, il tre, che in silenzio, mestamente, abbandona la banchina. Maledizione. Il cartellone elettronico parla chiaro: dieci minuti di attesa. Non voglio tirare fuori di nuovo il discorso sull'eternità, così vi dirò solo che decido di sborsare venti franchi per la causa buona e giusta del mio ritorno immediato a casa. Mi attendono pizza, coca e il messaggio di mia madre, 'Sei arrivato?'. Si preoccupa. Da quando le ho raccontato la storia del capotreno svizzero tedesco che, mesi prima, aveva annunciato che il treno era 'fortemente ritardato', non è più la stessa. Deve avere interpretato male. Proprio vero: quanta sofferenza c'è nel mondo. E nella lingua italiana. Buona settimana a tutti!

lunedì 8 marzo 2010

Tanto Chiasso per nulla


Sono sull’EuroCity che mi porta da Zurigo verso Milano. Il treno cambia nome – addio vecchio Cisalpino – ma i problemi sono sempre gli stessi. Cinque minuti dopo la partenza, vengo investito da folate di aria gelida. Le porte automatiche che separano il vagone in cui mi trovo da quello successivo sono aperte. Mi alzo e provo, senza successo, a chiuderle. Sconfortato, torno al mio posto e mi doto di sciarpa e cappellino, indispensabili per affrontare la tormenta che si abbatte sullo scompartimento. E meno male che viaggio in prima classe. Passa il controllore. Mostro il biglietto e lo informo dell’inconveniente.

“Lo so, purtroppo sono bloccate. Se vuole può spostarsi qualche fila più indietro”

Dove, di fianco ai quattro tizi in giacca e cravatta in riunione da un quarto d’ora? O vicino a quell’energumeno che ha allestito un picnic a base di würstel e patatine e che ci inebria con odori pestilenziali? No grazie, ci tengo alla mia salute psicofisica. Mi infilo la giacca e, pregando di non cadere vittima di malattie respiratorie fulminanti, chiudo gli occhi. Buonanotte.

Chiasso. L’Italia a due passi. Treno fermo. Il mio indice fa girare vorticosamente la rotella dell’iPod alla ricerca di qualche brano che uccida un’ora di noia che ancora mi separa da Milano. Un’ombra minacciosa si manifesta improvvisa. Alzo lo sguardo. Un uomo di corporatura massiccia, barba di tre giorni e sguardo omicida mi scruta, in silenzio. Io lo guardo. Lui pure. Io lo guardo, lui pure. Trenta secondi così. Probabilmente è amore. Poi, lui decide di rompere gli indugi.

Dogana!”

Cosa? Soggetto, verbo, oggetto. Così mi hanno insegnato alle elementari e credo che sia un principio ancora valido. Attendo, con espressione interrogativa.

“Qualcosa da dichiarare?”, mi domanda con tipica arroganza italica e cadenza che ricorda il Vito Catozzo di anni fa, ‘… che se io saprei che mio figlio mi diventerebbe un orecchione, porco il mondo che c'ho sotto i piedi, vivo ce lo faccio mangiare il certificato di nascita!’.

“No”“È sua quella valigia lì?”
Eccoci. Mi sembrava.
“S씓Mhh… Bene”

Se ne va, a passo marziale, senza proferire altro. E la valigia, non me la controlli? Ci rimango malissimo e, disperato, provo a vedere se per caso ho scaricato la canzone di Pupo, Emanuele Filiberto e del tenore.

Milano. Tre meno un quarto del mattino. Forse tre. Sicuramente quattro, ma quelli sono i cuba libre ingurgitati. Sorseggio il mio concentrato di benzina mentre mi dimeno alle note di qualche motivetto anni ottanta. Una bionda ossigenata mi si para davanti. Io la guardo. Lei pure. Io la guardo. Lei pure. E siccome questa scena mi sembra di averla già vista, ho l’illuminazione: è la dogana! Invece, il controllo che vuole fare è ben altro.

“Proprio adesso che sto andando via mi devo innamorare?”

Allora l’effetto Axe funziona per davvero. Da gentiluomo educato alle arti e alla letteratura quale sono, scoppio in una fragorosa risata. Riflettendoci un attimo, capisco che non è la reazione più adatta, almeno non secondo le regole dei cavalieri dell’età cortese. Così, aggiungo delle parole riparatrici.

“Eh, mi spiace”

La ragazza mi abbandona e, per lenire il dolore provocatole, si getta nelle braccia di qualcun altro. Non credo sia vero, però mi faceva ridere scriverlo. Una mezz’ora più tardi, quando le luci si accendono e i cervelli si spengono, fa la sua entrata in scena AmmazzachemMazza, soprannome affettuoso donatogli non so se per doti naturali che non conosco e che ho avuto la fortuna di non sperimentare, ma certamente in virtù del caro nomen omen. Saluti, baci e abbracci, tutto questo mentre una squinzia di rara bruttezza e che da ore sta cercando di esprimere a parole un concetto reso oscuro da uno sbiascico continuo e incomprensibile mi si aggrappa a mo’ di scimmietta sul braccio sinistro, causandomi la sublussazione dell’emisfero cerebrale destro. Agito il braccio cercando di liberarmi dalla presa, ma quella ci fa due giri come una ginnasta provetta, atterra, suona i piatti, il tamburello e poi si accascia da qualche parte. Pronuncia ancora qualche suono che solo un gorilla fatto di crack oserebbe definire ‘parole’.

La serata è conclusa. Mi infilo sotto le coperte. I soliti pensieri si rincorrono nelle caverne vuote del mio cervello. Vale la pena di vivere? Non saprei rispondere e a volte ho qualche dubbio a riguardo ma, certamente, vale la pena di farsi un gran bella risata, perché, come scriveva Oscar Wilde, ‘La vita è una cosa troppo seria perché si possa parlarne sul serio’.

lunedì 15 giugno 2009

Il pranzo sul Cisalpino sarà servito con quindici minuti di ritardo, ci scusiamo per il disagio


Partire è un po' morire. Partire il lunedì mattino lo è davvero. La consolazione è che, una volta sistemata la valigia e individuato il proprio posto, ci si può tranquillamente abbandonare a tre ore e quaranta di sonno, ritardo più, ritardo meno. Sì, perché il Cisalpino delle nove e dieci del mattino va diretto a Zurigo. Niente scomodi cambi a Lugano. Così, mi preparo: iPod e corso di tedesco, sicuro che mi addormento entro dieci minuti. Peccato l’annuncio.“Ricordiamo a tutti i viaggiatori che questo treno termina la sua corsa a Lugano. I viaggiatori diretti a Zurigo troveranno la coincidenza sulla stessa piattaforma”Ma come, da quando?! Spengo l’iPod, chiudo il libro: se qui mi addormento, sono rovinato. Intanto maledico il Cisalpino, Trenitalia e, già che ci siamo, pure gli svizzeri. La ragazza davanti a me non capisce una parola di italiano e continua a leggere, beata, il suo Harry Potter. A me, invece, esce il fumo dalle orecchie. Passano tre minuti. Altro annuncio.“Ci scusiamo, ma l’annuncio di prima era sbagliato. Questo treno prosegue fino a Zurigo e si ferma a Como, Chiasso, Lugano, Bellinzona, Arth-Goldau e Zug”L’importante è che si decidano. La ragazza davanti a me legge sempre, beata nella sua ignoranza. Io riavvio l’iPhone. Riapro il libro, eins, zwei, polizei. Tempo cinque minuti e il treno si ferma. Si ferma e non si muove. Catatonico. Terzo annuncio. “Causa guasto a passaggio a livello, il treno subirà un ritardo di quindici minuti”: certo, un ritardo di quindici minuti sul ritardo.La palpebra si fa pesante, molto. È ora. Peccato che una ciurma di bambini tra i sei e i dieci anni continuino a correre, urlando, da un vagone all’altro. Piccoli bastardi. Mi giro e mi rigiro.Devo essermi addormentato. Quando riapro gli occhi vedo uno di quei bambini piegato di fianco a me. Sta vomitando. Una cosa così mi ricordavo di averla vista solo ne “L’esorcista”: ragazzi, che potenza di getto. Un mostro. Mi giro dall’altra parte, ormai rassegnato. Quando arrivo a Zurigo il treno ha accumulato un ritardo di quaranta minuti. Scendo, il tempo fa schifo, un signore mi passa il trolley sul piede. Ed è solo lunedì, cazzo!