Quando mettete piede a Yosemite Park, la prima cosa che notate, a
parte le sconfinate dimensioni del parco californiano, sono alcuni
cartelli di avvertimento. Tipo 'Cari visitatori, questo è il territorio
naturale dell'orso bruno, del puma e di altri animali di cui non siete
in grado nemmeno di pronunciare il nome. Nel caso abbiate la sfortuna di
trovarvi in un faccia a faccia ravvicinato con qualcuno dei suddetti,
cercate di sembrare più grossi, ma molto più grossi, bullatevi, agitate
le braccia, urlate, fate una giravolta, fatela un’altra volta, lanciate
dei sassi. Se la strategia di dissuasione si rivelasse fallimentare,
contrattaccate'. Quando l'ho letto, ho pensato, sì, certo. Come le
istruzioni di pronto soccorso, quando vi insegnano a fare una
tracheotomia con una Bic. Pensi, grazie per i suggerimenti, ma capiterà a
una persona su diecimila ogni cambio di secolo. Perciò, armato solo
della mia folta barba e in compagnia dell'adepta al culto di essa,
ovvero J, la mia bionda e, bella zia, rakazza teteska, mi sono
avventurato in un'escursione di quattro ore, uno scosceso sentiero in
salita, niente acqua, il sole già a temperatura forno a legna. E poi
dicono che uso troppe iperbole nei miei post. Il costo del biglietto per
assistere al grande spettacolo della natura? Una doccia di sudore e il
baratto delle nostre gambe in cambio di un paio di macigni. Ma ne valeva
la pena. La maestosità della cascata, con la potenza dei suoi ettolitri
di acqua in caduta libera, ha il potere di riconciliarmi con nostra
madre terra, trasformandomi immediatamente in un essere metà umano e
metà macchina fotografica digitale. Mettiti lì, clic. Sorridi, clic. Il
panorama, clic. L'arcobaleno, clic. L'inevitabili nuvole - per cui nutro
una profonda ossessione -, clic. Il solito centinaio di foto che
difficilmente troverebbero posto sulla scialuppa di salvataggio delle
immagini con un minimo di valore artistico. D'altronde, a essere
obiettivi, l'obiettivo dietro l'obiettivo nasconde più un Io c'ero che
un Io immortalo. Questa non l’ho capita neanche io.
Apro
parentesi. Millenni tecnologici fa di digitale c'era poco o niente.
C'erano le vacanze. E la mia macchina fotografica. Le due cose erano
indissolubili. D'estate, quella vera, che durava almeno tre mesi, quella
calda, afosa e infestata di zanzare, dovunque andassi, avevo sempre lei
al mio fianco. La mia amata fotocamera. Con l'inseparabile rullino
Kodak da 36 foto. 36. I clic, allora, erano frutto di fatica. Erano
pensati. E pesati, in soldi, visto che poi le foto bisognava svilupparle
e mi toccava pagare pure quelle schifezze sfuocate in cui si
intravedeva solo mezza testa adornata da un paio di dita a mo’ di corna.
La qualità era migliore? La verità è che, riguardando gli album
impilati nei cassetti della casa dei miei a Milano, il risultato di
tutti quei clic era qualcosa di mediocre. Credo che la tecnologia ci
abbia aiutato a diventare tutti un po' più bravi. Solo nella qualità dei
miei ricordi non vedo differenze. Bella o brutta che sia la foto.
Dovrebbero inventare il nostanalgesico che cura i mali della nostalgia.
Clic, chiusa parentesi.
Esauritosi l'impeto artistico e la
contemplazione del sublime, non rimane che tornare sui propri passi.
Questa vota, passi in discesa. Un film all'incontrario senza finale a
sorpresa. Almeno, era quello che credevo fino a quando…
J: 'David?', fermandosi improvvisamente
Io: 'Sì?'
J: 'David', indicandomi qualcosa venti metri più avanti, sulla curva del sentiero, 'non penso sia un gatto'
Non che ci fosse pericolo di confusione, perché sì, a un gatto un po' ci assomigliava, ma dieci volte più grosso.
J: 'David, fagli una foto!'
Ora,
quando vi trovate per la prima volta nella vita davanti a un puma e non
sapete, almeno non ancora, se sarà anche l'ultima, l'immortalare è un
qualcosa sfuocato che passa in secondo piano. Una foto, brutta, l'ho
scattata, ma quello che stava davvero scattando in quel momento era
l'istinto di sopravvivenza. Così, ho armato J di un voluminoso sasso e
mi sono messo alla ricerca di un pezzo di legno adatto all'occasione.
Ero pronto alla battaglia. Vedevo già il titolo: turista prende a
bastonate sulle gengive feroce puma locale. Intervistato, il turista
dichiara 'Paura? Mai avuta. Ho affrontato l'Ikea di Corsico la domenica
pomeriggio'.
Intanto, un gruppo di cinque persone stava
sopraggiungendo. Li fermo, indico loro il problemino con vibrisse e
spiego loro la mia strategia bellica: attendiamo pazientemente.
Immobili.
In tutto quel tempo, uno scampolo di eternità
condensato in soli quattro o cinque minuti, il puma non ci ha mai
degnati di uno sguardo. Se ne stava lì, a fissare qualcosa, forse a
riflettere sui massimi sistemi, incurante di noi. Poi, probabilmente
annoiato, è scomparso tra le rocce, concedendo ai nostri parametri
vitali di tornare a livelli di normalità. Naturalmente la storia, col
passare degli anni, amplificherà i toni drammaturgici. Quando sarò
vecchio e senza denti - non che manchi molto - il puma diventerà
miracolosamente un alligatore di dieci metri che racconterò aver domato
con la sola forza delle mie sopracciglia.
E da un incontro
potenzialmente mortale a uno scontro decisamente letale il passo non è
poi così distante. Qualche centinaio di chilometri. La strada che da
Monterey porta a Santa Barbara. Lasciatomi alle spalle quel tratto di
costiera amalfitana a stelle e strisce, sfreccio con la mia ruggente Ford
Focus, la lancetta del contachilometri fissa sulle 75 miglia all'ora. La
vita, però, se ne fotte delle miglia, delle corsie autostradali, del
codice della strada, della musica del mio iPod diffusa dalle casse della
macchina, della California, delle mie vacanze, di quello che c'era
prima e di ciò che verrà poi, del conto, salato, del mio dentista –
tutti quegli euro solo per la pulizia? E del cervo che, dominato da
impulsi autodistruttivi, si materializza improvvisamente in autostrada.
La fatalità, a volte, è questione di pochi metri. 'Io non freno' è
l'unica cosa che riesco a pronunciare alla mia ragazza, pietrificata
dall'angoscia della morte, prima che l'aspirante suicida venga centrato
in pieno dalla macchina che mi precede sulla destra. Il cervo,
catapultato, si libra in aria, leggero, sopra di noi. Un volo senza
speranze. Dallo specchietto retrovisore vedo la macchina ferma. Spero
che il conducente non si sia fatto niente.
Spesso ci
immaginiamo come potremmo comportarci in certe occasioni. Cosa farei se…
Una cosa così, però non me l'ero mai immaginata e se l'avessi fatto,
avrei pensato a una reazione completamente diversa. Panico, bestemmia,
frenata, sterzata, incidente, il tunnel di luce, Dio, le conigliette di
Playboy. Invece, nessun tipo di reazione. Calma. Sangue freddo. Non una
persona, ma un robot. Impressionante. Da me non me lo sarei mai
aspettato. L'oracolo di Delfi aveva detto di conoscere se stessi, ma non
quanto questo processo conoscitivo sarebbe durato.
Non
avrei altro da raccontare. O forse sì. Come quando a Los Angeles,
mostrando infondata sicurezza da manuale del piccolo esploratore, ho
deciso testardamente di raggiungere a piedi Downtown dal nostro albergo
in Little Japan, avendo così la possibilità di apprezzare la fauna che
popola il variopinto quartiere di Skid Row. Sopravvissuto anche qui.
Resta
un rimpianto: non essere riuscito, almeno una volta, a immergermi
nell'Oceano con una tavola da surf, sull'onda, più che altro,
dell'entusiasmo. Ma, sapete com'è, dopo il puma e il cervo… La mia
ragazza deve avere intuito qualcosa anche se, ammettiamolo, gli squali,
quelli pericolosi, non si trovano sott’acqua. Buona settimana a tutti!
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