Il nome
Jackson Pollock vi dice qualcosa? No, quella che combinava guai era Pollon.
Pollon combina guai. Questo, invece, è Pollock. Per chi non lo sapesse o per chiunque avesse passato gli ultimi dieci anni incollato al televisore rapito dai picareschi racconti dei protagonisti del
Grande Fratello, eccitato dalle eroiche avventure dell’
Isola dei Famosi o semplicemente perso in fantasie bucoliche evocate da braccia finalmente restituite all’agricoltura de
La Fattoria, Jackson Pollock è – era – un
pittore. Uno degli esponenti di quel movimento che il
critico Harold Rosenberg – che dal cognome si capisce fosse una persona dotata di arguzia ed encefalogramma vivace – aveva chiamato
‘action painting’ – in realtà conoscevo solo questo termine, ma Wikipedia ha colmato la mia lacunosa ignoranza introducendomene un altro,
‘espressionismo astratto’, che ignoravo fino a oggi insieme al tedesco Lotosblüte e ai sette re di Roma, che non riesco mai a ricordare. Tarquinio il burino? Gli artisti che aderivano alla corrente non dipingevano come normali esseri umani, pennello, colore e mi raccomando, attenzione a porte, finestre e al parquet. No, preferivano
lanciare direttamente il colore su delle tele giganti. Oppure, lo facevano sgocciolare. È così che è nato il testo di Rosch. Credo. Sperimentatori. Riflettevo su tutto ciò alcune settimane fa in compagnia di un bicchiere di birra e di tre loschi individui che chiamo ‘amici’ solo perché non mi ricordo i loro nomi. Riflettevo su quello e sulla
‘merda d’artista’ del Manzoni. Non di Alessandro, altrimenti si sarebbe chiamata merda di scrittore, che qualcuno avrebbe anche potuto pensarlo ai tempi del liceo, facendo un torto però alla letteratura italiana. Sto parlando di Piero, che negli anni Sessanta
fece delle sue feci un’opera d’arte, inscatolando in 90 barattoli i suoi artistici escrementi. Rappresentazione delle decadenza dell’arte di quel periodo.
Una merda concettuale. Fantozzi avrebbe detto ‘una cagata pazzesca’, ma non vorrei elevare troppo il tono di questo post. Ecco, ho scritto poche righe fa che stavo riflettendo in compagnia di tre loschi individui. In realtà, le cose non stanno proprio così. Intanto, io non rifletto, ma attivo
automatismi cerebrali a me ignoti. In secondo luogo, non stavamo discutendo di arte, ma di
sesso. All’arte, comunque, ci arriviamo a breve. La vacue chiacchiere orbitavano intorno al dotto argomento dei
film a luci rosse – gli anglofoni li chiamano ‘blue movie’. Le traduzioni sono sempre un problema. Tutti si ricordano dei mitici
porno tedeschi, che in genere avevano una trama del tipo: Driin! Suonano alla porta. Inga, biondona dalle
tette nucleari, va ad aprire. Entra in scena il
baffuto idraulico Hans. Trenta secondi più tardi lui
le mostra il tubo telescopico e tappa la perdita, lei mostra di apprezzare ed esplicita questo suo stato interiore con una
serie ininterrotta di mugolii e ‘ja, ja!’. Adesso, la maggior parte di questi film con scopate che durano quanto un’opera di Wagner sono prodotti in Ungheria o negli Stati Uniti. E allora mi sono domandato: ma in Svizzera? Voglio dire,
ci sono dei porno svizzeri? E come potrebbe essere un porno svizzero? Altro che domandarsi - come fanno tutti, immagino, la mattina appena svegli - perché c’è l’essere piuttosto che il nulla. Già me lo immagino: Tram vuoto, a parte una ragazza, Heidi, a cui le caprette non fanno ciao e di pecore non capisce niente, ma se gli dici ‘pecorina’ … Sale il baffuto
controllore Huber. “Grüezi!”. La povera
Heidi e i suoi venti chili di tette sono, ahimé, sprovvisti di biglietto.
Huber allora passa a controllare direttamente Heidi, dandole istruzioni dettagliate sul grado di apertura da mantenere e informandola che in un’ora venticinque minuti e dodici secondi il suo entusiasmo sarà incontenibile. Se Huber sgarra sul tempo, dopo mi si deprime e gli si afflosciano i mustazzi. E qui torniamo a parlare di arte. Sì, perché quel
momento paradisiaco che ci rapisce un paio di secondi per restituirci come zombie per le successive dodici ore ha acceso in me una lampadina. A risparmio energetico, d’accordo, ma sempre una lampadina è.
Freud parlava di sublimazione, ovvero dirigere una pulsione sessuale verso una meta non sessuale. L’arte, per esempio. E allora perché, invece che sublimare, non utilizziamo il
sesso per creare arte? Ora vi spiego, è molto semplice. L’uomo, appena prima di contribuire al
genocidio di milioni di spermatozoi, estrae il suo pennello – d’altronde, già anni fa lo raccontavano quegli intellettuali meneghini, gli articolo 31, ‘lo uso proprio come fossi un vero artista, e con il mio pennello sono un gran professionista!’. La donna ha una grande responsabilità, quella di
afferrare e reggere la tela rigorosamente nera che, a seconda del periodo di astinenza maschile, può variare da un semplice formato A4 a un 200x425 cm stile ‘Ninfee blu’ di Monet.
Ogni secondo è vitale. Davvero. A quel punto, all’uomo non resta che
aggiustare la mira e procedere con la creazione artistica. Come vedete, siamo tornati all’action painting. Purtroppo, ci sono alcune
problematiche aperte e che meritano, magari in un futuro non troppo lontano, di essere approfondite:
- L’eiaculazione precoce. Un problema non solo artistico
- Il blocco dell’artista. Un problema non solo artistico
- La mancanza di talento.
In conclusione, se hanno fatto arte con la merda, perché non provarci con lo
sperma che, come direbbe Aristotele, in potenza racchiude la vita? Allora, dalla ‘merda d’artista’ a quella forma più nobile di espressionismo astratto che, perdonatemi la banalità, non potremo chiamare altrimenti che
‘schizzo d’autore’. Buona settimana!
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