lunedì 8 marzo 2010

Tanto Chiasso per nulla


Sono sull’EuroCity che mi porta da Zurigo verso Milano. Il treno cambia nome – addio vecchio Cisalpino – ma i problemi sono sempre gli stessi. Cinque minuti dopo la partenza, vengo investito da folate di aria gelida. Le porte automatiche che separano il vagone in cui mi trovo da quello successivo sono aperte. Mi alzo e provo, senza successo, a chiuderle. Sconfortato, torno al mio posto e mi doto di sciarpa e cappellino, indispensabili per affrontare la tormenta che si abbatte sullo scompartimento. E meno male che viaggio in prima classe. Passa il controllore. Mostro il biglietto e lo informo dell’inconveniente.

“Lo so, purtroppo sono bloccate. Se vuole può spostarsi qualche fila più indietro”

Dove, di fianco ai quattro tizi in giacca e cravatta in riunione da un quarto d’ora? O vicino a quell’energumeno che ha allestito un picnic a base di würstel e patatine e che ci inebria con odori pestilenziali? No grazie, ci tengo alla mia salute psicofisica. Mi infilo la giacca e, pregando di non cadere vittima di malattie respiratorie fulminanti, chiudo gli occhi. Buonanotte.

Chiasso. L’Italia a due passi. Treno fermo. Il mio indice fa girare vorticosamente la rotella dell’iPod alla ricerca di qualche brano che uccida un’ora di noia che ancora mi separa da Milano. Un’ombra minacciosa si manifesta improvvisa. Alzo lo sguardo. Un uomo di corporatura massiccia, barba di tre giorni e sguardo omicida mi scruta, in silenzio. Io lo guardo. Lui pure. Io lo guardo, lui pure. Trenta secondi così. Probabilmente è amore. Poi, lui decide di rompere gli indugi.

Dogana!”

Cosa? Soggetto, verbo, oggetto. Così mi hanno insegnato alle elementari e credo che sia un principio ancora valido. Attendo, con espressione interrogativa.

“Qualcosa da dichiarare?”, mi domanda con tipica arroganza italica e cadenza che ricorda il Vito Catozzo di anni fa, ‘… che se io saprei che mio figlio mi diventerebbe un orecchione, porco il mondo che c'ho sotto i piedi, vivo ce lo faccio mangiare il certificato di nascita!’.

“No”“È sua quella valigia lì?”
Eccoci. Mi sembrava.
“S씓Mhh… Bene”

Se ne va, a passo marziale, senza proferire altro. E la valigia, non me la controlli? Ci rimango malissimo e, disperato, provo a vedere se per caso ho scaricato la canzone di Pupo, Emanuele Filiberto e del tenore.

Milano. Tre meno un quarto del mattino. Forse tre. Sicuramente quattro, ma quelli sono i cuba libre ingurgitati. Sorseggio il mio concentrato di benzina mentre mi dimeno alle note di qualche motivetto anni ottanta. Una bionda ossigenata mi si para davanti. Io la guardo. Lei pure. Io la guardo. Lei pure. E siccome questa scena mi sembra di averla già vista, ho l’illuminazione: è la dogana! Invece, il controllo che vuole fare è ben altro.

“Proprio adesso che sto andando via mi devo innamorare?”

Allora l’effetto Axe funziona per davvero. Da gentiluomo educato alle arti e alla letteratura quale sono, scoppio in una fragorosa risata. Riflettendoci un attimo, capisco che non è la reazione più adatta, almeno non secondo le regole dei cavalieri dell’età cortese. Così, aggiungo delle parole riparatrici.

“Eh, mi spiace”

La ragazza mi abbandona e, per lenire il dolore provocatole, si getta nelle braccia di qualcun altro. Non credo sia vero, però mi faceva ridere scriverlo. Una mezz’ora più tardi, quando le luci si accendono e i cervelli si spengono, fa la sua entrata in scena AmmazzachemMazza, soprannome affettuoso donatogli non so se per doti naturali che non conosco e che ho avuto la fortuna di non sperimentare, ma certamente in virtù del caro nomen omen. Saluti, baci e abbracci, tutto questo mentre una squinzia di rara bruttezza e che da ore sta cercando di esprimere a parole un concetto reso oscuro da uno sbiascico continuo e incomprensibile mi si aggrappa a mo’ di scimmietta sul braccio sinistro, causandomi la sublussazione dell’emisfero cerebrale destro. Agito il braccio cercando di liberarmi dalla presa, ma quella ci fa due giri come una ginnasta provetta, atterra, suona i piatti, il tamburello e poi si accascia da qualche parte. Pronuncia ancora qualche suono che solo un gorilla fatto di crack oserebbe definire ‘parole’.

La serata è conclusa. Mi infilo sotto le coperte. I soliti pensieri si rincorrono nelle caverne vuote del mio cervello. Vale la pena di vivere? Non saprei rispondere e a volte ho qualche dubbio a riguardo ma, certamente, vale la pena di farsi un gran bella risata, perché, come scriveva Oscar Wilde, ‘La vita è una cosa troppo seria perché si possa parlarne sul serio’.

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