lunedì 5 novembre 2012

Train-ing, ovvero il duro allenamento con il Cisalpino

Cinque minuti. L'unità di misura temporale media per raggiungere luoghi o persone. Cinque minuti. La resistenza di un adolescente brufoloso ed eccitato nel contenere il suo entusiasmo durante i primi rapporti sessuali - calcolati per eccesso, o per decesso, vedi alla voce dolce morte. Cinque minuti. Il tempo che il Cisalpino appena partito da Milano, direzione Zurigo, decide di sfruttare prima di prendersi una meritata pausa di più di mezz'ora per non specificati problemi tecnici al motore. Parole del capotreno che si abbattono sui miei timpani come kamikaze, destandomi dalla catatonia in cui ero sprofondato.


"Il treno arriverà alla stazione di Como con un ritardo di circa trenta minuti. Ci scusiamo per il disagio".

Sbuffo. Fisso la signora di fronte a me che con una violenza inaudita morde una mela, probabilmente ancora viva. Quanta sofferenza che c'è nel mondo. La fisso e mi godo il momento, immaginario, in cui lei, come molti altri passeggeri, scenderà, a Como, Chiasso, Lugano o Bellinzona, e io potrò allungare finalmente le gambe. Quanta sofferenza che c'è nel mondo. E nei miei arti posteriori.

La mia testa ciondola, esanime. A riportarla verso una compostezza che assomiglia più che altro a rigor mortis, un altro messaggio criptico del capotreno: "Il treno giungerà a Chiasso con un ritardo ulteriore di venti, venticinque minuti su quello già accumulato.". Immagino che, a questo punto, Trenitalia dovrebbe lanciare l'accumulo dei punti ritardo. Il successo è assicurato. Sbuffo. Fisso la signora di fronte a me che, questa volta, è alle prese con un libro. Che stringe con violenza inaudita. Quanta sofferenza che c'è nel mondo. La fisso e mi godo il momento, immaginario, in cui lei, come molti altri passeggeri, scenderà, a Chiasso, Lugano o Bellinzona, e io potrò allungare finalmente le gambe. Quanta sofferenza che c'è nel mondo. E nei miei arti posteriori.

Di fianco a me, un dialogo surreale tra una giovane signora dell'Ecuador, suo figlio adolescente e un'anziana signora svizzera tedesca. La signora dell'Ecuador è venuta a Milano per trovare fratello e sorella. L'anziana signora torna da un fine settimana a Venezia. All'adolescente non gli frega un cazzo di niente a parte le sue fighissime cuffie rosse del Dottor Dre che causano sordità istantanea a lui e simultanea rotazione degli zebedei al sottoscritto. La giovane signora parla tedesco, ma con la signora svizzera tedesca vuole fare sfoggio del suo pessimo italiano. L'anziana signora parla un pessimo italiano e vuole fare sfoggio della sua sordità, probabilmente un regalo del Dottor Dre e delle sue fighissime cuffie rosse.


Giovane donna: Mia sorella e mio fratello vivono aqui in Milano (con pronuncia molto sudamericana)
Anziana signora: Eh? Ah… Sono stata da Venezia. Faceva molto caldo (con dizione lenta. Lentissima.)
Giovane donna: Bella Venezia
Anziana signora: Eh?
Il figlio adolescente: No hablo italiano
Anziana signora: Suo figlio? - indicando l'adolescente
Giovane donna: Sì
Anziana signora: A Venezia faceva molto caldo.

Silenzio

Giovane donna: Dove vive in Svizzera?
Anziana signora: Eh?
Giovane donna: Dove vive in Svizzera? - più forte e lento
Anziana signora: In Zurigo. Vicino. Witikon
Giovane donna: Ah, conosco
Anziana signora: Conosce Milano?
Giovane donna: ...
Il figlio adolescente: No hablo italiano

La giovane signora si alza. L'anziana signora si alza. La giovane signora si siede. L'anziana signora si siede. L'adolescente, alla fine del viaggio, è più sordo dell'anziana signora. Fisso la signora di fronte a me. Dorme. Di un sonno violento. Quanta sofferenza che c'è nel mondo. La fisso e mi godo il momento, immaginario, in cui lei, come molti altri passeggeri, scenderà, a Lugano o Bellinzona, e io potrò allungare finalmente le gambe. Quanta sofferenza che c'è nel mondo. E nei miei arti posteriori.

Urla disumane si propagano per la carrozza. Mi volto. Lei avrà tre anni. Forse tre anni e qualche giorno. Tratti orientali. Eppure, da quelle fessure che ha al posto degli occhi esce una cascata di lacrime che fa straripare dalle narici un fiume in piena di muccio. Un'onda anomala di liquidi che le solca il viso e, ai miei occhi, la rende una calamità soprannaturale. Il padre, un omone con le fattezze di un megalito e i tipici tratti somatici dell'idiota, le sorride, orgoglioso di avere una figlia dotata di capacità vocali disumane. La madre, testa appoggiata sul tavolino, giace immobile nel suo posto, esanime. Una vera sfortuna che non possa assistere all'esibizione artistica del pargolo. Alzo il volume del mio iPod che viene rilevato da alcuni sismografi della zona. Fisso la signora di fronte a me. Sbadiglia annoiata. Uno sbadiglio che, con violenza, mi contagia. Quanta sofferenza che c'è nel mondo. La fisso e mi godo il momento, immaginario, in cui lei, come molti altri passeggeri, scenderà, a Bellinzona, e io potrò allungare finalmente le gambe. Quanta sofferenza che c'è nel mondo. E nei miei arti posteriori.

Movimenti gastrici sospetti mi inducono a mettermi alla ricerca di cibo. Google maps mi guida fino al vagone ristorante. Pieno. Attendo che qualcuno si profili all'orizzonte. Un minuto. Due minuti. Tre minuti. Passano cinque minuti di noia, di vita perduta e mai più recuperata. Non sono Maometto, ma verso la montagna ci vado lo stesso. Faccio capolino all'interno della cucina dove un tizio armeggia tra salumi e microonde vari.

'Mi scusi, c'è un posto libero?'

Il tizio si volta, lo sguardo perso nel dubbio lacerante. 'Ehm...'. L'attività neuronale lo destabilizza, la bocca si apre nel tentativo di dare voce a quello che pare essere un principio di pensiero. '… credo di sì…'. Bisogna credere in qualcosa. Le convinzioni ci aiutano a orientarci, danno un senso al non senso. Io credo che l'uovo sodo sia nato dopo la gallina. Credo, dunque sodo. '… ma le dico subito che dovrà aspettare almeno trenta, quaranta minuti'. Vero che il tempo vola, ma non quando hai fame. L'eternità, un concetto che non esisteva prima che inventassero le poste italiane, condensata nell'attesa di un piatto di pasta riscaldato. No grazie. Me ne torno al mio posto. Fisso la signora davanti a me. Ha degli auricolari infilati nelle orecchie. Infilati con della violenza inaudita, sono certo che in qualche punto della sua testa si congiungeranno provocandole una reazione epilettica. Siamo ad Arth Goldau. Ho capito, non me ne sbarazzerò fino a Zurigo, le mie gambe si atrofizzeranno, rimarrò storpio, passerò il resto dei miei giorni davanti alla televisione a vedere la Clerici che mi insegna a fare la pappa al pomodoro… Quanta sofferenza che c'è nel mondo. E nei miei arti posteriori.

Cos'è questo rumore?! Mi guardo in giro. Usare una motosega all'interno di una carrozza dovrebbe essere un'attività vietata. Poi, lo vedo. Difficile non notarlo: un uomo di colore, sulla trentina. Enorme. Forse sono due uomini attaccati, tutti e due enormi, non vedo bene. Sdraiato a fatica su due sedili, dorme. Ma, soprattutto, russa. No, russare è il verbo sbagliato, a meno che non se ne tenti una ridefinizione semantica. Quest'uomo ha un utilizzo avanguardista del suo naso, una cacofonia sinfonica prodotta da un paio di narici: è il Boulez della russata, il Baumgartner della caduta libera nell'apnea notturna con ipertrofia dei turbinati e conseguente rottura del muro del suono, un vuvuzela roncopatico contro cui anche alzare il volume dell'iPod si rivela una tecnica di difesa totalmente fallimentare. Fisso la signora davanti a me. Mi fissa. E poi, probabilmente toccata nel profondo dalla sinfonia di musica seriale, mi sorride. Questa volta senza alcuna violenza. La riconciliazione con il mondo, l'Universo, l'es e il super io - e a proposito di es, ho bisogno subito di un espresso per combattere la pulsione all'abbiocco che si sta rimpadronendo di me -, con l'io e Dio. Con il Cisalpino. Ricambio il sorrido. Sì, c'è tanta sofferenza nel mondo ma, almeno per un istante, me ne dimentico. Così come mi dimentico delle mie gambe che, prive ormai di afflusso sanguigno, hanno la funzione di semplici appendici decorative.

Finalmente a Zurigo. Grazie alle potenti tecnologie svizzere, abbiamo viaggiato indietro nel tempo. Tre quarti d'ora per la precisione. Infatti, arriviamo con soli quindici minuti di ritardo rispetto all'ora accumulata in precedenza. Niente santi e poeti, ma un popolo di navigatori nel tempo. Carpe diem, che se lo perdi, il treno svizzero è già partito. Mi dirigo verso la fermata del tram e lo vedo, il tre, che in silenzio, mestamente, abbandona la banchina. Maledizione. Il cartellone elettronico parla chiaro: dieci minuti di attesa. Non voglio tirare fuori di nuovo il discorso sull'eternità, così vi dirò solo che decido di sborsare venti franchi per la causa buona e giusta del mio ritorno immediato a casa. Mi attendono pizza, coca e il messaggio di mia madre, 'Sei arrivato?'. Si preoccupa. Da quando le ho raccontato la storia del capotreno svizzero tedesco che, mesi prima, aveva annunciato che il treno era 'fortemente ritardato', non è più la stessa. Deve avere interpretato male. Proprio vero: quanta sofferenza c'è nel mondo. E nella lingua italiana. Buona settimana a tutti!

martedì 25 settembre 2012

Aspettando la bi-onda giusta, ovvero l'amore, il sesso, la filosofia e tutto quello che non troverete mai scritto in questo post

Non ricordo se era lo scorso maggio o giugno quando L di L&L, ma non viceversa, mi fece la proposta. Quello che ricordo, invece, era che mi trovavo a Milano, avevo una birra in mano e la puzza sotto il naso. Deve essere per questo che lo storsi. Mi vedevo ancora in sella a una moto a sfrecciare per le strade arroventate della California e, non so perché, in testa mi ronzava l’idea di uno scambio di consonante, una meta esotica a tarallucci e vino. Così, risposi con un classico del mio repertorio, il ‘Direi che se ne può parlare’ che in genere sfoggio quando non sono d’accordo ma cerco di essere educato. Questo è l’effetto di quattro anni di stretta collaborazione con gli inglesi, la versione italiota del britannico ‘Interesting’ che, come una ghigliottina, tronca in due la conversazione.


Tuttavia, la mia fortuna è quella di circondarmi di amici che hanno più lungimiranza del sottoscritto, maggiore propensione organizzativa e, soprattutto, non sono in balia dell’accidia da cui sono posseduto ogni volta che devo fare qualcosa che ammorba il mio quieto focolare domestico, dal pagare le tasse al prenotare l’albergo per le vacanze fino a rispondere ai messaggi di mia madre - in assoluto l'attività più temuta. Procrastinare, per me, non è un verbo, ma uno stato esistenziale che mi culla e che, per un momento, mi fa dimenticare le cose pratiche della vita che mi costringono a immergermi troppo nella realtà quotidiana. Perciò, è con gratitudine che guardo L di L&L, avvolto in una coperta, mentre dorme sul volo Emirates, direzione Kuala Lumpur, da dove proseguiremo poi per Bali che, come mi disse il pizzaiolo calabrese da cui vado a pranzo ogni martedì e giovedì per assaporare un vago ricordo d’Italia, è bella, ma lui preferisce andare più in giù, verso il Salento e il mare della sua Calabria.

Sir-fista, un gentiluomo sulla tavola da stiro

Da cavalcare un’Honda (negli Stati Uniti) a cavalcare l’onda. Così l’ho venduta ai miei, a cui ho tralasciato tutta la parte sessuale. In dodici giorni di frequentazione della tavola sono riuscito a tatuarmi delle interessanti escoriazioni su braccia e gambe, ho imparato a fare a meno del ginocchio sinistro, sono stato lavato e centrifugato e ho perso l’uso della parola a causa dell’eccessivo sbattere dei denti dopo più di un’ora di permanenza in acqua. Insomma, se mi conoscete, sapete che mi sono divertito abbastanza. E ho apprezzato la filosofia dell’attesa. Dell’onda giusta. A volte bastano pochi minuti, altre ore. L’importante è, quando la si riconosce, darsi da fare. Credo sia una sorta di metafora, ma non ho capito ancora bene di cosa. Se ci riuscite prima di me, mandatemi un messaggio con foto allegata, così mi facilitate la comprensione.

L’istrut-toro

Una figura mitologica per metà istruttore e per metà toro da monta. Ketut – questo è il suo nome, memorizzato dopo solo quindici giorni di vacanza –, nel breve percorso che ci separava dall’ingresso in acqua, riusciva a salutare tutte le ragazze che, in quel momento, passavano nei paraggi e che puntualmente non ricambiavano il saluto. Lui, però, è un tipo tosto e non si è mai scoraggiato. La sua dedizione è stata premiata da una svizzera che non si è posta troppi problemi nel concedergli il suo personale tunnel del San Gottardo. Il fatto che Ketut fosse sposato con una specie di quadro cubista non lo ha frenato nella sua missione. Anzi, semmai l’ha incentivata. Mi ricorderò sempre di Ketut come di un uomo di poche parole, ma buone: ‘Good wave’; ‘Paddle!’; ‘Blow job’.

Tipe da spiaggia

Lina e Maria, due simpatiche ragazze balinesi che, con il sorriso perennemente tatuato sul viso, hanno cercato prima di rifilarci un paio di aspirapolveri, delle enciclopedie e lo step per polpacci e glutei d’acciaio. Alla fine sono riuscite a strapparci un paio di massaggi che a me sono serviti per aumentare il numero di compressioni discali che martoriano la mia non più giovanissima schiena. L’acquisto di colorati parei da un’altra signorina ha scatenato nelle due un attacco di gelosia che siamo riusciti a placare solo con delle offerte alle divinità locali. Difficile che me le dimentichi, sono le uniche due donne che ancora mi dicevano ‘Ciao bello’.

Lo spazzacanino compulsivo

Lo so, ne ho già abusato in altri due post. Lo menziono solamente perché credo che, questa volta, L di L&L, abbia sbaragliato ogni tipo di record toccando punte di nove, dieci volte al giorno di energiche spazzolate molari. I suoi denti erano più puliti della stanza d’albergo in cui alloggiavamo e fidatevi, in quell'albergo il servizio era impeccabile. Lo sforzo era tale che più volta l’ho visto lavarseli con del Gatorade. Tutta la mia stima.

L’australopytechus

Gli australiani, che popolano in massa Bali, sono simpatici, alla mano e, dalle cinque in poi, sempre ubriachi. Dopo essersi scolati la loro dose quotidiana di venti birre a cranio – il fatto di avere mediamente una costituzione da pilone li agevola sicuramente –, cercano di riprodursi sessualmente con qualsiasi cosa passi loro davanti. La loro tecnica è descritta da una sola parola: l’appoggio. Individuata la preda, si appropinquano silenziosi da dietro fino a quando non riescono ad appoggiare sull’ignara vittima la loro preziosa mercanzia. Un metodo piuttosto primitivo ma, devo ammettere, anche piuttosto efficace. Se il vostro processo di alfabetizzazione è rimasto bloccato alla terza elementare. La cosa strana è che qualcuno, forse dopo essersi fumato un intero campo di oppiacei in Afghanistan, mi ha scambiato per un australiano. In genere mi confondono per uno spagnolo. O un nord africano. Ma australiano… Capisco che i due koala attaccati agli zebedei che mi porto dietro grazie a quest’ ultimo anno lavorativo possano trarre in inganno.

Sbalinati

Il Maria Magdalena è lo Zukunft di Bali. Ed è già un’ottima descrizione. È un posto popolato da nottambuli, fattoni che ciondolano a ritmo di musica elettronica, baristi che si attaccano tappi di bottiglia sulla fronte, cameriere indisponenti, mignotte locali. Insomma, tutti gli ingredienti che mi convincono a rimanere fino alle cinque del mattino scolandomi cuba libre e fumando una sigaretta dietro all’altra. La laurea in filosofia mi serve per domandarmi il senso di tutto questo. Non avendo trovato ancora una risposta, be’, alla salute!

Il barracuda da guardia

Prendete un cane brutto. Il più brutto che vi viene in mente. Ecco, non ci siete ancora arrivati. Il cane minchia - un soprannome che gli abbiamo affibbiato per evitare di svelare la sua identità - è una sorta di quadrupede con la masticazione al contrario che ci ha tenuto compagnia per tutto il tempo della nostra permanenza a Bali. Se ne stava sdraiato, di fianco a noi, meditando sulla sua misera sorte. Un cane così, si capisce, non scopa neanche a pagamento. Però ci tornava comodo: quando ordinavamo il Martini, gli infilavamo le olive nei due canini inferiori. Già mi manca.

La febbreccitazione

Me ne sto lì, dietro la cassa, immobile. Solo il braccio prova a seguire imperterrito il ritmo. Tutta quella gente che si dimena, affonda nella sabbia, si abbevera alla fonte dell'ebrezza. E io me ne sto lì, dietro la cassa, immobile. Una birra in mano che non vuole saperne di finire. Tutta quella gente che si diverte, balla, prosciuga fiumi di alcol e riversa testosterone nell'aria. E io me ne sto lì, dietro la cassa, immobile. E quando L di L&L mi trascina da un'altra parte, perché 'ti fa bene prendere un po' d'aria', io mi metto lì, di fianco al bancone, immobile, mentre la pista si riempie e l'ambiente si scalda. Diventare adulti significa prendere delle decisioni. Decido di tornare in albergo. Una volta arrivato, me ne sto lì, sotto le lenzuola, immobile. Ho i brividi. Sudo. È la febbre del venerdì sera. Quando L di L&L torna, sono ancora lì, sotto le lenzuola, immobile, che sudo. Ma dieci pasticche di Panadol resuscitano anche una mummia e, nel caso, aiutano a vedere una trasmissione intera della De Filippi. Il giorno dopo è come se non fosse successo mai niente. A parte il letto, una piscina di traspirazione. Quello che mi porto dietro la settimana successiva preferisco non descriverlo. Direi che è un problema prettamente di marketing: la soddisfazione di un bisogno. Il lavoro mi perseguita anche in vacanza.

Tutto finisce, prima o poi

L'ultimo giorno, appollaiato su un pouf con il mio frullato da dodicenne in mano, fisso il sole che, lentamente, si inabissa, con quella malinconia che porta la consapevolezza di un'altra vacanza che sta per finire, di un'altra estate che se ne va portandosi via 35 anni della mia vita. E mentre il cielo si tinge di rosso, a duecento metri da noi, un gruppo di balinesi conclude il rito funebre induista disperdendo le ceneri del defunto nelle acque dell'Oceano Indiano.

All'inizio, confesso, mi sono sentito in colpa, quel tipico senso di colpa da occidentale benestante bombardato da pietoso politicamente corretto. Poi, ci ho pensato sopra. In fondo, loro erano lì a celebrare una vita e la futura reincarnazione della sua anima. L'unica persona che aveva bisogno di essere consolata, in quel momento, ero io. La vita, la morte, e in mezzo qualche metro di spiaggia, nient'altro che pochi granelli di sabbia che scorrono in quella clessidra che nessuno ha ancora capito come girare. Eh sì, il tempo passa, inesorabile, e non ci possiamo fare maledettamente niente. Così come è passato ormai il tempo per questo post. Vi auguro una buona settimana e una lunga vita, magari in compagnia di un buon rum invecchiato - l'unico invecchiamento che non ha controindicazioni. Il frullato, la prossima volta, lasciamolo ai ragazzini. Ciao!!!

lunedì 23 luglio 2012

Accento, allora? A cento all'ora?


Ultimamente non scrivo. Fisso il computer, cerco di farmi venire qualche idea e l'unica cosa che riesco a fare è fissare ebete lo schermo, cosa per cui ho un talento naturale. Sono spossato. Cerebralmente piatto. Privo di ispirazione. In realtà, di cose da raccontare ne avrei, ma ho bisogno di un'esorcista creativo che mi liberi dalla pigrizia domenicale. L'io, l'es, il Super io e il divano, non più mero oggetto inanimato adibito all'utilizzo del telecomando ma oramai vera e propria istanza psichica meritevole di approfondita analisi. Dopo settimane di duri allenamento, sono finalmente riuscito ad aumentare la mia forza di volontà. Così, ho deciso che era giunto il momento di ricominciare a battere sui tasti e sbarazzarsi di un po' di quel flusso di parole che mi ammorba la vacua esistenza.


Saranno le quattro del mattino. O le cinque. Forse le cinque e mezza, se si considera la curvatura dello spaziotempo causata, come teorizza la relatività generale, da ingenti quantità di alcol. A passo lento e instabile mi infilo nel primo taxi disponibile.

'Brahmsstrasse, bitte', sfoggiando un tedesco che i crucchi celebrerebbero con un Requiem in memoria di quella che fu la loro lingua. Il tassista si volta:

'Parli italiano?'

Accento traditore. Mimesi fallita. La dieta a base di Bratwurst non ha dato i frutti sperati. L'accento è il primo localizzatore dell'umanità, ben prima del GPS, di Google Maps o Facebook. L'accento parla per noi. Dice da dove veniamo. Grammaticalmente, localizza lo spostamento semantico: calamita e calamità; òmero e Omèro; àncora e ancóra. Come l'apostrofo, che senza apostrofo diventa Lapostrofo. Pare un nome: Lapostrofo Elkann, in versione sgrammaticata, inversione di senso. L'ago di Zurigo. Paranormale. Tromba Daria. Beata lei. Il mattino ha loro in bocca. Tragico. Destate l'apostrofo. D'estate. Sbalorditivo. E mentre i miei neuroni vagano alla deriva del non senso, continuo la conversazione con colui che, spero, mi porterà a casa sano e salvo.

'Sì. Sono italiano', espresso con un certo pathos nazionalistico.
'Anche io'
'Di dove sei?'
'Sono nato qui, ma mia madre è di Lecce e mio padre è di Salerno'

Sbadiglio. Le informazioni geografiche mi hanno sempre annoiato terribilmente. Poi, le solite chiacchiere di circostanza sul tempo, sulla qualità e il costo della vita di Zurigo.

'Anni fa', racconta, 'andai giù a Lecce con la mia nuova Punto turbo. I miei amici mi chiesero quanto guadagnavo. Al tempo credo fossero all'incirca sei milioni delle vecchie lire. "Cazzo", mi dissero, "con tutti i soldi che guadagni solo questa macchina di merda ti sei comprato?!" '.

Grazie a questo aneddoto memorabile, il tassista è riuscito a sbagliare strada, ma almeno ha la decenza di scusarsi e fermare il tassametro. Giunto a destinazione, pago e saluto, mentre lui, dominato da logorrea ossessivo compulsiva, mi delizia narrandomi di quella volta che, proprio in Brahmsstrasse, accompagnò due lesbiche che iniziarono a baciarsi e a toccarsi e lui era tutto eccitato e io intanto chiudo la porta, faccio ciao ciao con la mano e mi avvio a casa.

Mentre mi ingozzo di grissini, rifletto sul dialogo semi surreale di prima. E sì, avevano ragione i suoi amici, la Punto turbo è proprio una macchina di merda. Buona settimana a tutti. E buone vacanze, davvero.

p.s: sì, lo so, non è un gran post, ma avevo voglia di scrivere. A settembre, magari, proverò a raccontare della mia vacanza a Bali e di come in tre settimane non sarò stato in grado di cavalcare nemmeno un'onda. D'altronde, io surfo su internet.

Salto con l'asta-gione

“Vorrei una quattro mezze stagioni”

“Mi scusi?”
“Una quattro mezze stagioni”
“… Mi spiace, ma…”

Ma non ci sono più le mezze stagioni. Lo sappiamo. Ce lo ripetono da anni. Eppure, io non ho mai capito che cosa siano. È un concetto sfuggente, come l’attimo – perché diciamocelo, l’attimo non è fuggente, ma sfuggente, come la vita che, più che a fuggire, tende a sfuggirci, e anche velocemente. Un gennaio in fiore è una mezza stagione? E un gelido aprile? Cosa dire poi di un luglio piovoso e di un ottobre piegato dall’afa – da qui il famoso vattene afa in culo? Quesiti destinati a rimanere senza risposta, a meno che qualche temerario non decida di pubblicarli so Yahoo! Answers, a cui ho già largamente dedicato dello spazio. Eppure, pare che le persone ne sentano la mancanza. Quando è argomento di conversazione, dentro un ascensore, le mura dell’ufficio o il negozio di un barbiere, il periodo delle mezze stagioni viene rievocato come un periodo aureo. Se ne deduce che, il fatto che non ci siano più, costituisca una perdita incolmabile per l’umanità, quasi come la sempre più prossima scomparsa del congiuntivo. Non mi capacito allora di come Vivaldi abbia potuto dedicare una serie di concerti alle sorelle maggiori, dimenticandosi completamente delle minori e causando ai tempi, ne sono certo, chiacchiere di circostanza in tutte le bettole del veneziano

Ma non ci sono più le mezze stagioni. Solo meste stagioni, intristite da un Assoluto meteorologico che nega loro un graduale divenire, dalla potenza all’atto. Strano che, con la crisi economica, i governi non abbiano provveduto a tagliare anche le stagioni. Allora il tutto avrebbe assunto un senso, ma di assunzione, in tempo di crisi, non se ne parla, così brancolo nel buio del non senso, doppi non sensi compresi.

Ma non ci sono più le mezze stagioni. E, a dirla tutta, non ci sono più neanche le stagioni. Se l’espressione ebete dipinta ora sui vostri punti simboleggia un punto di domanda, spiego subito che cosa ho voluto intendere, ma non volere. Alcuni giorni fa, a Zurigo. Dico Zurigo perché ormai vivo qui da più di tre anni, ma avrei potuto dire Milano. Se avessi detto Milano, però, sarebbe stato tanto per fare un esempio in generale. Quindi Zurigo. Nell’arco di tre, quattro giorni, le temperature sono passate dai ventitré gradi primaverili ai trenta decisamente estivi per ripiombare il giorno dopo a dei freddi, invernali tredici gradi di massima. E poi mia madre si stupisce che viva in uno stato di perenne salute precaria – si sa, in Svizzera, di precario c’è solo la salute. Il fenomeno, per quanto bizzarro, ha un nome scientifico. Salto con l’asta-gione. Un giorno calzi gli infradito e il giorno dopo sei un salame con pollice opponibile – che per alcuni è opinabile – infagottato dentro a un piumino. Un meccanismo impazzito in un’epoca in cui niente è certo, a parte la mamma. O le mamme, se il vostro nucleo famigliare è particolarmente aperto e progressista. D’altronde, questo è il prezzo da pagare per la libertà: anche le stagioni si affrancano da un monotono destino rigidamente regolato, dal cartellino timbrato ogni tre mesi. Le conseguenze? Nessuna. Però, niente più centro di gravità permanente, che Battiato continua a cercare insieme ai suoi gesuiti euclidei. Piuttosto, abbiamo un centro di gravosità permanente, di pesantezza umorale che ci ammorba il fine settimana: cazzo, è maggio e si gela!

Ma non ci sono più le mezze stagioni. Come le mezze misure. Provvedimenti drastici. Decisioni risolute. Scarpe troppo grandi o strette. Bianco o nero. Si fuma ma non si sfuma. L’eclissi della logica fuzzy. Io, invece, me ne rimango qui, a scrivere un post senza senso, indeciso sul mio presente, perplesso sul mio futuro. Fuori, un grigio tetro. Piove. Me ne rimango qui, a fissare il nulla, annichilito. E completamente sfumato. Buona settimana a tutti!

p.s: data la brevità del post, lo dedico espressamente a Corrado

lunedì 16 aprile 2012

Sogno di una notte di mezza stagione


Se c’è una cosa che odio è pulire il pesce. Sono troppo pigro. E le lische mi terrorizzano. Ogni assaggio di orata mi rimane in bocca due minuti, il tempo necessario per assicurarmi che nulla che non sia cibo commestibile andrà a conficcarsi proprio lì, nelle profondità della trachea, lasciandomi cianotico e, tendenzialmente, morto. Il Pigato mi aiuta a superare la fobia, la torta al cioccolato è la ricompensa per esserne uscito ancora una volta vivo. Per chi avesse l’intelletto ancora ottenebrato dalle fatiche digestive del dopo Pasqua, sono in Liguria. Sestri Levante, per la precisione, anche se l’informazione è del tutto irrilevante ai fini della storia. Ma si sa, sono una vergine, pignoleggio solo per il gusto di farlo. Il proseguo della serata altro non è che il prosciugare fertili bicchieri colmi di rum accompagnando la nobile attività con vacue parole che il libeccio disperde nei carrugi del paese. Alle due siamo a letto. Il proprietario di casa, il farmacista più bello di Milano – secondo una rigorosa classifica redatta dal farmacista stesso e che include, oltre a lui, cinquecento esemplari di escherichia coli –, se ne sta sdraiato, nell’altra camera, perso nel vuoto dei suoi pensieri. Io, invece, che espio le colpe della mia vita precedente, quando ero la dentiera di Martin Heidegger, condivido il talamo con il barattolo più pettinato di Milano che, ultimamente, si è lanciato in una nuova attività imprenditoriale sfociata nella pubblicazione di una rivista che, a mio modesto parere, diventerà il più importante caso letterario del 2012, Il corriere dei pingui. La prima edizione è dedicata alla crisi economica e all’inflazione del prodotto interno lardo.

Breve inciso sull’homo barattoleus pettinatus

L’homo barattoleus pettinatus lo si riconosce da una caratterista inconfondibile, unica e inimitabile: la voracità, declinata anche sui libri. L’unico momento in cui le sue mandibole riposano è quello al calar delle tenebre quando, prima di essere abbracciato da Morfeo, il nostro homo barattoleus pettinatus si dedica a una scorpacciata di lettura con conseguente indigestione di vocaboli. Il minimo di pagine consentito è cinquecento. Il massimo non è stato ancora stabilito, anche se si racconta che, in crisi di astinenza, venga fatto ricorso agli elenchi telefonici e alle istruzioni dei medicinali. Altra caratteristica: a volte fatica a distinguere tra ‘a letto’ e ‘ha letto’. L’afasia grammaticale e lo spostamento semantico inducono nell’homo barattoleus pettinatus uno stato catatonico, un’ eclissi sensoriale. Ovvero, poltrisce tutto il giorno sul letto imprimendo la sua sacra sindone.

Fine inciso sull’homo barattoleus pettinatus

Cullato dallo sfogliare delle pagine, abbandono le spoglie mortali per una fugace peregrinazione nel mai noioso e banale mondo onirico. I bulbi roteano. Iniziamo.

Primo sogno

Una buona prassi vorrebbe che, appena svegli, si annotasse su un taccuino il sogno appena fatto, pena l’oblio inevitabile della strampalata trama. Sempre che non siano le tre, quattro del mattino. In questo caso, ci si volta dall’altra parte e si riprova a dormire. Così, mi ricordo solo un particolare: io che vedo me stesso mentre dormo fischiettando. Potrà apparire una bizzarra associazione, ma sono convinto che ci deve essere un significato profondo. Metafisico. E comunque fischietto piuttosto bene.

Secondo sogno

In genere, i sogni erotici, li faccio ad occhi aperti. Circa ogni venti, trenta secondi. Questa volta mi è successo da supino. E addormentato. Purtroppo, causa contenuto indecente e trama decisamente piatta, sono costretto ad autocensurarmi. Mi risveglio con una gran voglia di fumare una sigaretta. E una vescica esplosiva, maledetto rum. Raggiungere il bagno non è impresa facile. Deve essere labirintite. Seduto sulla tazza del cesso, fisso il mio uccello depresso, ché l’eretta via era smarrita.

Terzo sogno

Sono in una classe affollata. Non riconosco nessuno, tranne una persona. La dottoressa Bailey, quella specie di Gabibbo nazista afroamericano che sevizia aspiranti medici in Grey’s Anatomy. È terrorizzata: deve esibirsi al pianoforte, ma trema come un malato di Parkinson prima di salire sul patibolo. Mi avvicino e mormora qualcosa. Sbiascico – sono alcolizzato anche nei sogni. Le infondo coraggio con delle finte di sopracciglio. Finalmente, si decide a suonare: il Preludio della seconda Suite Inglese in la minore di Bach. L’esecuzione è penosa. Con il mio tatto da caterpillar, glielo faccio notare. A sua difesa compare dal nulla il professore di musica, un omino con sparuti capelli ai lati e un irresistibile anche se non so perché pizzo brizzolato. L’esimio docente scaraventa per terra un cubo di Rubik, che si rompe, frantumandosi in centinaia di numeri. A quel punto esclama, scocciato: “La musica non è la cosa più importante della vita. Le più importanti sono il francese e i numeri primi!”. Mi sveglio con un senso di morte, ma forse è solo il cadavere che sta russando di fianco a me.

Non sono ancora riuscito ad arrivare a una interpretazione soddisfacente di questi sogni. L’ultimo in particolare. Freud direbbe che il cubo di Rubik rappresenta la sessualità, la musica il mio pene, i numeri primi il mio pene, il francese il mio pene e la dottoressa Bailey la castrazione del mio pene. I soliti sogni del cazzo. Io, però, non ne sono persuaso. Brancolo nel buio. Oltre la siepe. Rantolo mentalmente. E alla fine, l’unica cosa di cui sono certo, è che in questi 35 anni della mia vita ho passato più tempo a letto con i miei amici che con graziose rappresentanti dell’universo femminile. Non mi lamento. Sono la mia famiglia. Ma le coccole, se le scordano. Buona settimana a tutti!

martedì 27 marzo 2012

Ufficiale: gentilomo



Lo so, non scrivo da giorni. Settimane. Mesi. Scusate, ero impegnato a soffiarmi il naso. Tuttavia, una settimana di permanenza a Londra ha risvegliato in me il desiderio di tediarvi. Perciò, mettetevi comodi, fate un bel respiro e, se avete fortuna, cercate un metodo più veloce e indolore per suicidarvi.

Venerdì sera. Di qualche tempo fa. Il ristorante spagnolo di cui varchiamo la soglia intorno alle dieci è concepito secondo il tipico algoritmo iberico tapas y topas che qui a Londra va per la maggiore: si spilucca qualcosa circondati da belle ragazze e cameriere carine. Tavoli liberi, neanche a parlarne. Decidiamo di ingannare l’attesa sorseggiando un bicchiere di buon vino. Davanti al classico dubbio amletico ‘Rioja o Ribera?’, recitato con maestria da una delle cameriere, Lord-enzo opta per il Rioja, anche se confessa che avrebbe preferito del vino rosso. Deve essere l’effetto del riscaldamento che, tenuto a un livello eccessivamente elevato, ha inaridito temporaneamente i campi neuronali del brizzolato più famoso del suo condominio. Mentre degustiamo, noto sulla parete opposta una mia foto in abiti da torero. Mi avvicino e l’identità si tramuta in forte somiglianza: a giudicare dall’espressione del suo volto, direi che il fotografo ha colto esattamente l’attimo in cui il toro gli sta estraendo chirurgicamente i testicoli con una poderosa cornata. E vi assicuro che io, lì, ho ancora tutto attaccato, anche se solo per fini decorativi.
Pochi minuti di attesa, che in quella sauna finlandese camuffata da ristorante si dilatano in modo perverso, e ci fanno accomodare. Quello che succede al nostro tavolo è poco interessante: io mangio e bevo tanto, Lord-enzo mangia tanto e beve tanto, V mangia poco e non beve nulla: stato terminale dell’indipendenza alcolica. A due tavoli da noi, Harry Potter del Missisipi ce la sta mettendo tutta per accoppiarsi con la babbana che gli siede di fronte, sfoderando un classico trucco del repertorio da maghetto: non dice una parola per tutta la cena, ma in compenso fa di tutto affinché il bicchiere della prosperosa ragazza sia costantemente pieno. Diversi bicchieri più in là la vediamo ondeggiare pericolosamente verso il bagno, sbronza. Barcolla, ma non la molla. Di fianco a me, invece, una pupa da copertina, che scopriremo presto essere metà svedese e metà cinese, scambia monosillabiche opinioni con un ragazzo franco egiziano che si diverte a essere in costante disaccordo prima con lei, poi con la popputa babbana e infine con se stesso. Io non ci sto! Lei, al contrario, ci sta eccome e lascia che la mano villosa del suo cavaliere la pratichi una ceretta epidermica sulla coscia. Poi, inaspettatamente, il franco egiziano ci rivolge la parola. Il suo orecchio francofono deve avere carpito qualche commento sessualmente esplicito che usciva dalle nostre bocche da circa mezz'ora. La solita trafila di convenevoli. Così, scopriamo che la bambolina di fianco a me è svedese con qualche spruzzata di cantonese. Lord-enzo, professionista della scivolata a gamba tesa, non si lascia sfuggire la ghiotta occasione:

"Suo nonno", indicando me, "è di Göteborg". Silenzio. Neuroni al lavoro. Dopo due minuti di orologio, lei mi domanda "Allora tu sei metà milanese e metà svedese?"

Una domanda pertinente, soprattutto dopo aver subito un elettroshock. Lasciamo i due concludere il rituale dell'accoppiamento, paghiamo e ce ne andiamo al Nam Long, due metri avanti. Adrian, babbuzzo pazzo grosso, il buttafuori che sembra essere uscito direttamente da The Snatch, ci fa entrare, dopo averci estorto i soliti cinque pound che, per il tipo di locale, sono assolutamente ingiustificati. Considerando però lo spettacolo a cui, se si è fortunati, si può assistere, sono soldi spesi bene. Tutto sommato.

Inizia il primo giro. Il riscaldamento. Quant'e bella giovinezza che si fugge tuttavia, del diman non c'è certezza, a parte il mal di testa. La nostra conversazione, pregna di argomenti elevati, che vertono dall'estetica delle escort che ci circondano al perché esista qualcosa piuttosto che il nulla e questo qualcosa ha un paio di bocce decisamente nichiliste, viene interrotta dall'ingresso di Adrian. Questo menhir dotato di arti e pollici - credo - opponibili si avvicina, molla un cinque a tutti e tre, procurandoci una scossa di grado sette della scala Richter, e ci sbiascica delle frasi in un inglese incomprensibile il cui unico vocabolo pronunciato in maniera intellegibile è 'shag', parola che eviterei di ripetere se dovessi mai trovarmi di fronte alla Regina per farmi autografare la tazza di Kate e William. Poi, scoppia a ridere e noi con lui, onde evitare qualsiasi rischio di frattura scomposta. Rizzi-goal, baldo e temerario, lo accomiata con un 'Adrian, vai a trovare X!'. Il fuck lo capiamo. Il resto si perde in una miscela di vocali e consonanti che ci lascia indifferenti, tetragoni ai colpi di ignoranza. Non ai suoi, purtroppo.

Secondo giro. Iniziamo a ragionare. Al bancone notiamo una ragazza che, indifferente alla marcatura a uomo dei due impomatati bellimbusti che la attorniano, sta cercando di ipnotizzare V. Sbattendo le ciglia, utilizza un sofisticato codice morse il cui significato è facilmente intuibile. Lord-enzo, con una mossa a sorpresa attualmente oggetto di severo studio alla commissione europea, sottrae la graziosa pulzella a un destino di noia con la camicia a righe, la impacchetta e la appoggia su un vassoio che io umilmente porgo a V. L'ereditiera australiana, almeno questo è quanto ci pare di avere capito da chiacchiere di circostanza, inizia la sua personale lotta contro i mulini a vento. A suo onore, le prova tutte: si passa la lingua sulle labbra; attorciglia una ciocca dei capelli sul dito; ondeggia il bacino; sorride ebete; si accarezza le gambe; gli fa un pompino. Normale routine. V, però, niente. Inamovibile. Colpito da omosessualità fulminante, si attacca a futili pretesti - ha le doppie punte e il colon irritato. E noi che già lo vedevamo a bordo di un trattore, nel nulla di un immenso podere australiano, birra, Gazzetta e un paio di koala che gli pendono dagli zebedei. Non ci possiamo credere. Non ci vogliamo credere. Tentiamo di persuaderlo e, con un faro, di illuminargli il cammino dell'eterosessualità. In risposta, la cecità più totale. Viene convocato l'ambasciatore italiano a Canberra. Incidente diplomatico. Subito attivate le pubbliche relazioni. Decenni di reputazione spazzati via da un momentaneo stato confusionale. Una tragedia nazionale. Un insulto a orde di italici babbuini in calore che hanno collezionato anni di umilianti rifiuti e per i quali farsi una bella scopata rimane tutt'ora un futuro che mai si fa presente. La domanda, perciò, era già nell'aria, e lei non fa altro che renderla udibile:

"Are you gay?"

Dopo traduco per chi avesse problemi con la propria sessualità.

L'uomo medio, posto davanti a un tale dilemma, reagirebbe battendosi il petto, colpendo la ragazza in testa con una clava e ritirandosi nella sua moderna grotta trascinandosela appresso. V no. Lui è un gentiluomo. O gentilomo, ancora da capire. La sua risposta è sintetica a priori: "No".

Proviamo ora a entrare dentro al cervello di una ragazza carina che è stata appena rifiutata:

"Sono una ragazza carina di solito sono i ragazzi che mi cercano e io esercito il mio potere di donna li rimbalzo faccio yoga non bevo mai un paio di volte all'anno oggi è una di quelle volte stasera sono ebbra e mi piace questo ragazzo o mio dio c'è un buco di 0,2 millimetri nel mio collant sono abbastanza carina? domani devo andare in palestra sono ingrassata mi piace questo ragazzo ma lui è omosessuale? o mio dio no non lo è allora sono brutta? devo mettere la crema mi stanno venendo le prime rughe o mio dio non sono abbastanza carina? o forse…"

E sì, perché l'orgoglio ferito ha un ultimo sussulto prima di stramazzare al suolo, come quei soprani all'opera che, colpiti mortalmente, gorgheggiano per venti minuti e a morire fa prima il pubblico che sbadiglia sprofondato nelle poltrone.

"Are you deeply in love?"

Che offesa. CHE O F F E S A. Io non avrei avuto esitazioni. Piuttosto, avrei confessato un'inesistente omosessualità. Ma V è un romantico. Un personaggio da Colazione da Tiffany. Un Harry Burns con l'accento fiorentino. Così, dopo aver congedato l'ombra di quella che, una volta, era una esuberante damigella australiana, ci siamo ritrovati a dover concludere la serata con un finto innamorato che, calatosi nella parte in perfetto stile Stanilslavskij, ormai ci credeva per davvero. E si è pure commosso, pensando a quanto lei le mancasse, ora che lui vive qui a Londra da più di un anno. Misericordia… Auguro a tutti una buona settimana!

p.s: Non sarei onesto se non dicessi che, il giorno dopo, V, nel tentativo di riacquistare il saluto da parte nostra, si è riscattato a spese della cameriera del ristorante spagnolo dove avevamo cenato la sera prima. Con onore, è ritornato nel gruppo degli italici babbuini in calore non praticanti. E io gli voglio ancora bene. Forse.