martedì 26 aprile 2011

All Nam Long

Londra. Un venerdì sera come tanti altri, se non fosse che siamo ai primi di aprile, non piove e vengo accolto da una piacevole e inaspettata temperatura primaverile che gli inglesi hanno già scambiato per tepore estivo. Sono seduto dentro a un taxi insieme ai miei compagni di avventura: L di L&L, meglio noto ormai come Lord-enzo, e V, introdotto in un post precedente come fiorentino trapiantato a Milano, spostato a Sankt Moritz, spedito a New York e ricevuto impacchettato a Londra. Manca Mr X, una delle tante incarnazioni del satanasso, quella più malefica, che, a causa di una lieve indisposizione, è stato costretto a rimanere a casa a ravvivare le fiamme dell’inferno. Siamo diretti al Nam Long, un bar e ristorante situato in Old Brompton Road che pare eserciti una certa influenza su Lord-enzo, anche se gli scienziati non sono stati ancora in grado di analizzare il tipo di influenza. Virale credo sia l’ipotesi preferita. Il proprietario è un vietnamita sui 65 anni che deve aver fatto i soldi gestendo bordelli durante la guerra del Vietnam. Forse prostituendosi. O forse imitando un chihuahua che imita un dobermann e credetemi, se ve lo trovate davanti, questa è una cosa che gli riesce particolarmente bene. Quando arriviamo, noto un discreto capannello di persone intorno all’entrata. Il commento più ottimistico che mi titilla il timpano è ‘Non ci faranno mai entrare’. Io, però, non perdo le speranze: sono così da quando, il 29 luglio del 1981, all’età di quattro anni, cadendo dalla poltrona su cui ero appollaiato per guardare il matrimonio di Carlo e Diana, andai a sbattere violentemente la faccia per terra provocandomi:

1 una insanabile frattura morale
2 uno tsunami neuronale che si riversò fuori dalle orecchie, rendendo la scatola cranica una terra desolata
3 un’ingiustificata convinzione che la logica fuzzy non avrebbe avuto alcuna ripercussione sulla vita sessuale delle lumache

Attendiamo dietro a tre pupe infilate dentro a tubini ripieni delle loro curve che a stento si reggono in equilibrio su tacchi, a onor del vero, più simili a trampoli. Alcuni avventori escono. No, non è corretto. Alcuni avventori provano ad uscire, ma appena la punta delle loro scarpe lucidate spunta fuori dalla porta, il buttafuori, un pachiderma modello babbuzzo pazzo grosso che sembra uscito da uno dei film di Guy Ritchie, li afferra per l’avambraccio lanciandoli con una tecnica invidiabile almeno un paio di metri più in là. Poi, inizia la parte surreale. Dietro all’uscio fa la sua comparsa un tappo isterico che sbraita con una vocina che un uomo normale può produrre solo quando i suoi testicoli sono stati pressati un paio di ore dalle ruote di un tir. Cosa che capita piuttosto di frequente. L’urlatore eunuco, a detta di Lord-enzo, è il proprietario. Il fastidioso abbaiare è indirizzato a un cliente che, prima viene spintonato dal chihuahua vietnamita, e poi viene lanciato in stile donna cannone dall’energumeno, che si rivelerà alla fine un gigante buono e vagamente idiota. Il proiettile umano non pare per niente contento del trattamento ricevuto e protesta vivacemente con l’armadio umano che, per tutta risposta, lo abbraccia, cerca di calmarlo e, anche davanti a frasi rivelatrici di nobiltà d’animo come ‘Tu sei solo grosso, adesso le prendi’, non perde la calma e cerca di elargire amore sussurrando al malcapitato parole dolci come ‘trottolino amoroso du du da da da’. Il capo, però, non ha ancora finito di sfogare la sua rabbia lillipuziana. Continuando a vomitare inudibili ultrasuoni, se la prende con il tizio della sicurezza, che allontana dal locale con sonori calci nel culo. Il buttafuori sbattuto fuori. Geniale. Anche quest’ultimo non la prende bene e, dopo i soliti fuck di circostanza che, insiema al fish and chips, alla birra e ai cappellini della regina, contribuiscono a creare l’immaginario collettivo di un’intera nazione, cerca di fermare un taxi sradicandogli la portiera. Con i denti. Nel frattempo, al Nam Long, si accorgono di un piccolo problema: alla porta non c’è nessuno. Il proprietario fa un tentativo, ma il fallimento è dietro l’angolo: il buttafuori deve essere qualcuno che la gente sia in grado di vedere senza l’ausilio del telescopio. Così, suo malgrado, il vietcong è costretto a richiamare indietro il bestione, che sta brucando intanto da qualche parte. Del cemento.

L’entrata costa cinque pound, niente moneta, banconota pronta tra le mani. “Se no si arrabbia”, mi spiega L di L&L, riferendosi al gorilla all’ingresso. E noi non vogliamo farlo arrabbiare. Così, paghiamo ed entriamo. La prima cosa che noto è l’arredamento, quello tipico da locale orientale da quattro soldi con annesso orrendi quadri kitsch appesi alle pareti. La seconda cosa che noto, o meglio, ascolto, è l’inconfondibile rumore di un motore Ferrari che viene diffuso dalle casse ogni volta che qualcuno ordina un Flaming Ferrari.

Breve digressione sul Flaming Ferrari

Il Fleming Ferrari non è un cocktail. Il Flaming Ferrari è un intruglio pieno di ogni tipo di alcol servito in un bicchiere delle dimensioni di un bidet. Lo dico io, perché gli inglesi ignorano l’esistenza del bidet. Cari inglesi, sappiatelo, il bidet deve stare in bagno e non sulla mensola della cucina. Il costo della pozione magica è proibitivo. Una volta però finito di berla, il prezzo sarà l’ultimo dei vostri problemi. Prima di poter degustare il carburante da Formula uno, il barista da fuoco al bicchiere. Se siete sfortunati, in mezzo alle fiamme potreste scorgere il viso di Mr X che vi fissa con il suo ghigno diabolico. Il Fleming Ferrari non è per tutti. Bisogna avere fegato per berlo. Per questo è impossibile berlo una seconda volta. Il Fleming Ferrari non risolve i problemi nel mondo. Aiuta ad andare oltre. Qualche temerario, negli anni, ha avuto l’ardore di scolarsi la bomba chimica tutta di un fiato. Gli effetti possono essere pericolosissimi:

1 sudorazione eccessiva. Della camicia
2 visioni mistiche che vedono come protagonista il divino Otelma. Senza Louise
3 desiderio incontrollabile di fare l’amore con un cactus

Il Fleming Ferrari viene anche usato per guarire i disturbi bipolari, tipici della politica italiana, e la girellite, anche se sull’ultimo punto nutro severi dubbi. In ogni caso, ricordatevi: assumetelo con molta, molta prudenza, casco ben allacciato e luci accese anche di giorno.

Fine digressione sul Flaming Ferrari

Puntiamo il bancone in fondo e ordiniamo. Niente Flaming Ferrari perché il dottore mi ha sconsigliato di abusare della lavanda gastrica. Una volta al mese è abbastanza. Mentre ciarliamo del più e del meno con il nostro bel bicchierone di cuba libre – tranne V, rigorosamente astemio da quando un meteorite lo colpì sulla zucca –, veniamo infastiditi da alcuni spifferi d’aria fredda. Mi volto e mi accorgo che il proprietario, con la sua voce da contralto, sta cercando di dirci qualcosa. Gli passo un megafono, così è più facile. Indicandoci la sagoma inconfondibile di un divano, ci invita gentilmente ad andare a sederci dall’altra parte del locale, in una zona meno affollata. Almeno, secondo lui. Ovviamente noi accettiamo l’invito di buon grado, perché non abbiamo nessuna voglia di finire catapultati fuori da babbuzzo pazzo grosso. Non facciamo nemmeno tempo a sistemarci che veniamo allietati dalla presenza di tre simpatiche signorine, di età indefinita ma compresa probabilmente tra i cinquanta e i novant’anni, che decidono di sedersi sul divano proprio di fianco al nostro. Il divano dove V, per mancanza di spazio sul nostro, aveva deciso di sorseggiare la sua arrogante bibita analcolica. Ora, se in un canapé che dovrebbe accogliere comodamente due persone, vi prendono posto quattro persone, capite bene che lo spazio vitale si riduce e la comodità diventa più che altro una fatua speranza. Se poi ci aggiungiamo il fatto che le tre simpatiche signorine sono dotate delle tipiche sinuose forme del lanciatore di peso, si fa presto a immaginare la situazione di travaglio esistenziale in cui viene a trovarsi il nostro caro avvocato fiorentino, chiuso all’angolo come un pugile suonato e riempito di gomitate al fegato dal peso massimo a lui più vicino che gesticola così tanto che, in confronto, lo stereotipo dell’italiano medio si incarna nella Venere di Milo. E non è finita qui. A un certo punto, o forse era un punto e virgola, la sua compagna di divano, la lottatrice di sumo, estrae dalla borsetta una spazzola con cui cerca di porre ordine alla foresta che si ritrova sulla crapa. Poi, probabilmente investita da un repentino e quanto mai fuori luogo senso materno, allunga il braccio e spazzola con veemenza i capelli di V a cui, inorridito, non resta che attendere con impazienza la fine dell’immonda tortura. Fine che arriva quando i suoi capelli assumono la stessa forma che prenderebbero se esposti per un paio di giorni al trattamento del tunnel del vento. Lo spettacolo mi ridà speranza nel genere umano, anche se non ne comprendo il motivo. Finiamo i nostri drink, salutiamo King Kong alla porta– che con la sua stretta mi spezza qualsiasi tipo di ossa possa esistere nella mano di un uomo– e ci incamminiamo verso altre mete, naviganti senza patria, esploratori dell’ignoto. Esploratori alcolizzati, per lo più. All Nam long. Buona settimana a tutti!

p.s: alcune fonti dicono che stanno bombardando Gheddafi e le sue truppe con del Flaming Ferrari. Sinceramente, lo trovo inverosimile: mi sembrerebbe una crudeltà davvero eccessiva. Ciao!

p.p.s: per il titolo, sono debitore nei confronti di Lord-enzo e della sua ottima intuizione creativa

giovedì 7 aprile 2011

L'importante è partecipare


Quando avevo sei anni i miei decisero che era giunto il momento di farmi praticare qualche attività sportiva. Da parte mia l’entusiasmo fu minimo. Avevo già le idee chiare e sapevo che volevo diventare un alcolizzato. Altro che sport. Mio padre avrebbe voluto che diventassi un rugbista. Mia madre un dottore, ma visto che i libri di anatomia pesavano troppo e soffrivo già allora di scoliosi, scelsero una via di mezzo e mi sbatterono in piscina a imparare i rudimenti del nuoto. Odiavo nuotare. Pesavo venti chili e pativo il freddo. Tremavo come quei chihuahua da borsetta che sembrano sempre prossimi al collasso. Tre anni più tardi papà, convertito alle filosofie orientali dopo aver visto in televisione un feroce combattimento tra Kato e l’ispettore Clouseau – era lui che compose ‘Il cielo in una stonsa’? – mi iscrisse a un corso di karate. Odiavo il karate. Non riuscivo mai ad allacciarmi la cintura e durante il saluto c’era sempre qualche criminale che impestava l’aria con letali flatulenze. Da allora ne è passato di tempo. Del karate mi è rimasta una certa impostazione marziale che si nota soprattutto quando sferro attacchi mortali contro le zanzare e trangugio beveroni alcolici. Sono cintura nera di cuba libre. Il nuoto, invece, non l’ho più abbandonato. Fare trenta volte cento metri mi infonde quella incredibile sensazione di nullità esistenziale che posso ritrovare altrimenti solo in qualche trasmissione televisiva. Questo, però, non è l’unico vantaggio che deriva da un’attività concettualmente complessa come quella del fare avanti e indietro in una vasca generalmente riempita d’acqua – senza, la virata diventa un ostacolo insormontabile. Per esempio, l’altra sera. Sono a una festa, impegnato in un’amabile conversazione con una graziosa signorina. A un certo punto, e non chiedetemi il perché, la graziosa signorina poggia la sua graziosa manina sul mio braccio. D’altronde, la gente fa un sacco di cose senza una ragione apparente. C’è chi ascolta Al Bano, che musicalmente parlando sarebbe meglio si chiamasse Al Bando – certo, de gustibus non disputandum est, ma a volte sputandum sarebbe meglio. Vero anche che una volta ho ascoltato un pezzo di Stockhausen che mi ha provocato una gastrite per un mese. Comunque, la signorina, tastandomi l’arto, rimane colpita dalla tonicità muscolare. Che pepita! Io gonfio il petto, bullandomi da vero vanesio:


“Nuoto”. Tipo sintetico a posteriori. “Ah... be’, io non faccio sport, però anche il mio braccio è piuttosto muscoloso.”. Un dialogo filosofico degno dell’Accademia platonica. “Faccio le seghe a mio marito”. Scusatemi il francesismo. E pure il marito. Sul momento, applico il metodo dello scetticismo radicale: questa conversazione non è mai avvenuta, il mondo non esiste, lei non esiste e io sono solo un cervello – poco sviluppato – in una vasca. Una vasca da cinquanta metri, e questa è una allucinazione provocata da una serie massimale di 100 metri stile libero. Superato il trauma iniziale, passo alla fase analitica. Se ci fosse del vero, io dovrei avere avere un braccio da culturista. Supponiamo, però, che l’enunciato sia dotato di senso. Intanto, vorrei capire se lo sfregamento della parte intima maschile possa essere considerata un’attività sportiva a tutti gli effetti. Se sì, allora dobbiamo porci subito alcune domande: come raggiungere determinati risultati? Quante volte bisogna allenarsi? Che influenza hanno le dimensioni sulla performance? Qual è il metro di giudizio che si dovrebbe applicare a un’ipotetica competizione? Il porno è doping? Potremo presto vedere la masturbazione alle Olimpiadi? (se hanno ammesso il curling...) L’importante è partecipare? E perché l’essere piuttosto che il nulla? Come vedete, la questione è piuttosto intricata. Non è stato facile continuare la serata. La potenza evocativa di quella frase, sussurratami all’orecchio, non mi ha dato pace. Sono andato a ballare, ma non riuscivo a liberarmene. Ho conosciuto una ragazza e le sue papille gustative, ma non riuscivo a liberarmene. Mi sono fatto una lavanda gastrica di vodka, ma non riuscivo a liberarmene. Ho preso l’autobus per tornare a casa insieme a un mio collega con cui ho discusso del più e del meno, anche se non in questo ordine, ma non riuscivo a liberarmene. E allora, varcata la soglia del mio appartamento, ho preso una decisione. A due mani: nel dubbio, alleniamoci. Buona settimana a tutti!