sabato 26 dicembre 2009

Lallazione multietnica

“Orno aide”. Così, la mattina, mi saluta il portinaio filippino di Milano, sfoggiando una lallazione che farebbe invidia a qualunque neonato. “Ona era, aide”. Sì, sì, buonasera. Se l’integrazione passa dalla lingua, qui siamo lontani anni luce. E da anni luce, lui, vive qui in Italia. Peggio con l’italiano credo abbia fatto solo Michael Schumacher. Certo, per aprire il portone, pulire cortile, scale e ascensore e controllare chi entra non è richiesta una padronanza linguistica da Accademia della Crusca. Almeno le basi, però! Saranno stati tre o quattro anni fa. Me ne sto davanti al computer, cercando di farmi venire in mente qualche copy decente da consegnare all’agenzia. Impresa ardua, perché la mattina, confesso, anche io sbiascico come un poppante, soprattutto se la sera prima ho bevuto qualche bicchierino di troppo. Quei quattro o cinque di troppo. Il mio labile stato di concentrazione viene affossato definitivamente dal citofono che suona. Chi osa disturbarmi alle dieci del mattino?!! Con uno scatto da bradipo raggiungo il citofono.

“Sì?”
Aide, bvino

Ecco, sono a posto.

“Eh?”
“Bvino, alire”

È più facile interpretare la scrittura cuneiforme.

“Il vino?”
“Bvino, alire!”
“No, senta, non abbiamo ordinato nessun vino
“Alire”
“E non lo faccia salire. Niente vino, capito?”

Mi rimetto al lavoro. Neanche trenta secondi, e suonano alla porta. Allora non capisce davvero un cazzo. Visibilmente irritato, vado ad aprire. Davanti a me, però, non c’è un garzone. Niente casse di vino. C’è, invece, un rabbino ultraortodosso, con tanto di barba chilometrica, peot e vestito nero di ordinanza con cappello a tesa larga che mi parla in ebraico. A essere sincero, preferivo di gran lunga il vino.

Questo succede a ritrovarsi con un portinaio allievo della scuola del grammelot. A Zurigo, mentre l’insegnante di tedesco mi domanda qualcosa di incomprensibile, ripenso, ogni tanto, al “Bvino” e alla “Ona era”. Ci ripenso, giusto un attimo, sorrido, abbozzo una risposta altrettanto incomprensibile e mi consolo sapendo che almeno buongiorno e buonasera, in tedesco, non sono più un segreto per me. Bei nächstbester Gelegenheit!

lunedì 21 dicembre 2009

Il rapinattore, ovvero la brutta recita di una rapina

Questa è la storia di una rapina. Una tentata rapina. A un mio amico. La fonte, però, è un altro mio amico. Quindi, questa è la storia di una tentata rapina dai toni fiabeschi che è andata più o meno così, più meno che più. Milano. R. cammina per le strade della città con il suo trolley da viaggio. Un perfetto uomo d’affari. Forse è sera, forse è notte, chi lo sa. Poche centinaia di metri lo separano dal portone di casa sua. Casa, dolce casa. L’amaro, però, è dietro l’angolo e assume le sembianze di un tizio che gli si para davanti e, con fare minaccioso, gli intima:

“Dammi tutti i soldi che hai, ho un cannone

Ora, di fronte a una frase come questa, che ha un certo senso compiuto e denota forse poca poesia ma molta praticità, non c’è molto su cui riflettere: si inizia subito con le monetine, che sono piuttosto fastidiose, e si finisce inginocchiati scongiurando il rapinatore di risparmiare la nostra inutile ma pur preziosa vita. Nel caso, io posso anche intrattenerlo con delle imitazioni e qualche barzelletta ebraica di effetto assicurato. Invece, R. è ozioso, pacato, riflessivo, perennemente in ritardo. Ha bisogno del suo tempo. Per prima cosa, la parola “cannone”, per lui, che ha vissuto gli ultimi otto mesi in Olanda, evoca subito sensazioni di pace e profonda, profonda calma. La cosa, in effetti, gli frulla per la testa. Il fatto, però, di trovarsi a Milano, lo riporta verso una realtà meno fumosa. La sua risposta – me lo immagino mentre, lentamente, si accende una sigaretta – ha un che di spiazzante e, a dirla tutta, esprime anche grande tracotanza. Ubris.

“Eh, sì, allora sparami, dai!”

Il balordo non se lo fa ripetere due volte ed effettivamente quello che tira fuori è più simile alla 44 magnum dell’ispettore Callaghan che all’involucro cartaceo ripieno di erba e tabacco. L’arrivo improvviso di un taxi, però, mette fine alla brutta avventura: il rapinatore si spaventa e se la dà a gambe. Quando si dice “un professionista”.

La reazione di R. mi ha fatto riflettere. Ho cercato di capire che cosa potesse averlo spinto a osare tanto. E l’ho capito, essendo chiaramente un genio. Sincerità, come canta quel fumetto di donna con gli occhiali. In un mondo di menzogne e tradimenti, la sincerità deve rimanere ancora un valore di riferimento per chi, tutti i giorni, si batte per un mondo migliore. La sincerità deve essere l’ethos minimo su cui basare il nostro vivere civile. E poi si sa, le bugie hanno le gambe corte e le gambe corte sono proprio brutte, specie con un tacco 15. Le bugie lasciamole ai politici e agli assicuratori. Noi vogliamo la sincerità. Ecco il perché di quella risposta: e se il delinquente allo sbaraglio non fosse stato altro che un millantatore? Se avesse tirato fuori una banana o un’enciclopedia e poi, magari, avesse tentato pure di piazzargliela? Questo sì sarebbe stato gravissimo. Perché la gente si fida e se non possiamo neanche più fidarci dei rapinatori, dove andremo a finire? Perciò, bravo R., sincerità, però, la prossima volta, e questo è un consiglio di amico, vai sulla fiducia, di rapinatori onesti è pieno il mondo.

Cambio di scenario. “Che tempo che fa”. Ospite di Fazio è Andrea Bocelli. Sullo schermo compaiono immagini del cantante che, dall’alto di un autobus, microfono in mano, si esibisce per le gelide strade di New York. Il conduttore, estasiato, vomita una serie mitragliata di “Guarda”, “Guarda qui”, “Guarda lì”, “Guarda su” e “Guarda giù” Guarda… A Bocelli?! Che cos’è, una barzelletta?!!

lunedì 14 dicembre 2009

Invecchiare costa

A Zurigo canta Tony Bennett. Non proprio a Zurigo. Diciamo che canta nel mio appartamento, anche se non è proprio così. Diciamo che canta nel mio iPod, anche se non è proprio così. Insomma, sto ascoltando Tony Bennett. E mentre lo ascolto e l’orchestra riempie con il suo accompagnamento caldo e avvolgente tutto il salotto – non che ci voglia molto, o me o il divano, tertium non datur –, mi trasferisco. Sì, sono da un’altra parte, in un mondo differente, dove tutti sono buoni e belli, dove le mamme sfornano irresistibili torte con le mele la domenica a pranzo, dove non ci sono guerre, dove le caprette fanno ciao a Heidi e Biancaneve non viene stuprata da sette nani minatori ucraini, dove gli uccellini cinguettano tutto il giorno e parte la musica di sottofondo quando una coppia si bacia, dove si può ancora sognare a occhi aperti e nessuno è lì a dirti “Svegliati, hai trentatre anni”. Svegliati, diventa una persona seria. Responsabile. Vestiti bene. È ora di sistemarsi. Cercati una brava ragazza. Ecco, gli standard americani hanno questo potere su di me: mi fanno evadere, per un momento da questa realtà, per catapultarmi in una realtà fiabesca. Molto sentimentale, lo ammetto, il livello del glucosio è schizzato alle stelle, però non ci posso fare niente: la domenica sono particolarmente malinconico e sentimentale. Il secondo effetto degli standard americani in versione orchestrata e patinata è quella di farmi sentire a New York, anche se non ci ho mai messo piede in tutta la mia vita. Sarà l’effetto Woody Allen. Anche qui a Zurigo. Certo, questa città, di Grande Mela, ha ben poco, però, sotto casa mia, c’è un chiosco che fa molto “Smoke”. Le analogie finiscono qui, dove inizia il mio post, perché in effetti è proprio di questo chiosco che volevo scrivere. Lo gestiscono dei tizi che secondo me sono turchi, non parlano una parola di inglese ma si esprimono in uno svizzero tedesco incomprensibile. Anche a loro. Il giro è losco, si parla di gente che entra, ritira soldi, cose strane, poco chiare. Tutte le domeniche scendo per comprare il Corriere. La cosa divertente è che mi chiedono sempre il prezzo: “Wie viel?” “Drei franken”, però, poi, come al solito, pago io. Se avete bisogno di sigarette, alcol, riviste, bibite e snack ipercalorici, il chiosco vi salva la vita, è aperto tutti i giorni, fino alle dieci, undici di sera. Non si può dire che ai gestori manchi il senso del commercio. Un giorno entro in cerca di vodka. Una vodka. Che non c’è. In tedesco maccheronico chiedo se, per caso, ne hanno magari una bottiglia. Di Grey Goose. Il tizio fa una faccia strana e mi si avvicina. Io temo che mi voglia menare e subito spiego che non lo stavo insultando ma è il nome di una vodka francese, al che la sua faccia si fa ancora più cupa e capisco che i francesi stanno proprio sul cazzo a tutti. Comunque, non ce l’hanno. Il giorno dopo, tornando dall’ufficio, passo davanti al chiosco e cosa vedo esposta in vetrina? La bottiglia di Grey Goose. Che figli di puttana, impossibile non amarli. Fino a ieri. Decido di invitare due o tre amici da me per bere qualcosa dopo cena. Verso le nove e mezza breve controllo: vodka, due bottiglie. Tac. Red bull? Tac, comprare. Rum, mezza bottiglia. Tac, comprare. Coca? Mezza bustina, tac! Scherzo, per chi dovesse subito credere a tutte le stronzate che scrivo. Coca, una bottiglietta. Tac, comprare. Mi avvolgo dentro strati di piumino in fiamme, perché fuori si gela davvero, ed esco in missione, faccio razzia di tutto quello che mi occore e, rapido e indolore, ritorno nell’accogliente tepore di casa. Tiro fuori il rum dal sacchetto e lo metto sulla mensola in cucina, di fianco all’altra bottiglia di rum. Meglio togliere il prezzo, non è educato mostrare agli ospiti di quanto si è svuotato il tuo conto in banca. Anche l’altra bottiglia ha ancora il prezzo bello in mostra e allora via anche quello. E… e mi accorgo di qualcosa di strano. Il nuovo acquisto mi è costato dieci franchi in più. Dieci. Controllo meglio. No, no, sono proprio dieci franchi in più. Dieci. Ora, la marca è la stessa. Quindi non è quello il problema. L’invecchiamento pure, quindi nemmeno questo è il problema. E allora? Penso o qualcosa di simile. La prima bottiglia l’ho comprata due mesi fa. Sarà l’inflazione? Impossibile, in Svizzera l’inflazione è vietata per legge. Forse il negoziante è un grandissimo figlio di puttana? Impossibile, perché i figli di puttana, a Zurigo, lavorano tutti in banca. Forse la domanda è talmente alta che giustifica un aumento sconsiderato del costo? Impossibile, perché il rum è troppo scuro per gli svizzeri, che bevono solo vodka. Forse non ci sono più le mezze stagioni? Questa non c’entra un cazzo ma in un discorso va sempre bene. E poi è arrivato l’eureka: il cielo si è aperto e la terra ha tremato. La bottiglia è invecchiata di sette anni, ma non è esattamente così. La bottiglia è invecchiata di due mesi in più dell’altra, è ovvio: 7 años y 2 meses. Semplice. Chiaro. Devo rammentare più spesso a mia madre che ha partorito un genio. La domanda a questo punto non può più essere procrastinata: quanto cazzo pagherò la bottiglia di rum tra un anno? Domani vado a chiedere l’aumento.

lunedì 7 dicembre 2009

L'investitura

Il tram è fermo. Qualcuno scende, qualcun altro sale. In direzione opposta, sulla banchina, in attesa, due ragazze. Una - ho impresso vivida nella mente l’immagine dei suoi guanti, bianchi – è bella. Bellissima. Difficile non notarla. Mi rammenta, non so perché, delle donne ritratte da Gauguin, di Tahiti e della Polinesia. Indico la meravigliosa creatura ai miei compagni di viaggio descrivendola con un efficace sineddoche: “Che bella figa!”. Come scrive il Novalis, il poeta comprende la natura meglio dello scienziato. E poi succede un fatto inaspettato, una rivoluzione concettuale che riduce Copernico, Darwin e Freud a dei nani da giardino, a delle suppellettili inutili e insignificanti: lei, la dea dell’amore, la mia musa ispiratrice, l’equilibrio classico tra forma e contenuto, mi sorride, mi saluta e mi manda uno, due, tre e chi li conta più baci con la mano. L’ego del sottoscritto ringrazia. La mia fantasia, ruspante come non mai, si mette subito al lavoro e crea, in uno schiocco di dita, un romanzo epico in cui la parola “sesso” compare una riga sì e una no. Intanto, il tram riparte. Lei manda baci. Io sublimo. E sì, perché questo succede ad aver passato la vita tra libri e spartiti: il mondo platonico delle Idee fa grandi pernacchie alla praticità della vita quotidiana e, nello specifico della situazione, ti lascia lì, seduto, a guardare dal finestrino, concettualizzando chissà cosa, mentre la sana prosaicità degli amici – bastardi – si abbatte su di te come una scure sotto sembianze di una parola che non ti lascia scampo e che, tutto sommato, ha una sua verità innegabile: “Babbo!”. In realtà, questo è solo il pretesto per parlare di altro. Ammetto l’immensa utilità del prendersi in giro, un concentrato di onestà intellettuale e perverso masochismo che serve sempre a ricordarci che, per dirla alla Haim Baharier, siamo tutti claudicanti, anche se ognuno pensa che ci sia qualcuno che zoppica di più. Lo ammetto, ma perché infierire quando ho già amici pronti a sostenere la parte? Perciò, tornerò all’argomento che tanto caro mi fu. Le milanesi. Mi sono chiesto, che cosa sarebbe successo se la stessa scena fosse successa a Milano? Come minimo, sciopero dei mezzi, e la storia finisce qui. Supponiamo, quindi, che funzioni tutto come dovrebbe funzionare. Io guardo la ragazza. La milanese si accorge dell’attenzione e: 1) intanto pensa che sono uno sfigato, perché prendo i mezzi pubblici lenti, affollati di immigrati, barboni, adolescenti brufolosi e puzzolenti e vecchi catarrosi e dal naso perennemente colante che ti attaccano la suina. Lei va in giro con lo scuter con la ‘u’. Scuter. La borsetta di Gucci, nel tram, mi si affloscia. 2) Se riesce a oltrepassare questa barriera invalicabile, cerca di capire se le posso interessare oppure no. Se non le piaccio, si volta dall’altra parte ed è finita lì. Se le piaccio, pur di non farmelo capire, si genuflette in direzione della Mecca, rilegge i messaggi degli ultimi tre anni, parla con il tombino e si esibisce in riti propiziatori. Tutto, pur di non farti capire assolutamente nulla. La conquista, per il milanese, nella sua città natale, è un passaggio all’età adulta fatto di fatica, sudore, dolore, umiliazione, eroismo, sopportazione, resistenza. E soldi, parecchi. La ragione? L’educazione, immutata da secoli, che si trasmette di generazione in generazione. La milanese, la mamma della milanese, la nonna della milanese e così, a ritroso, fino ad Eva che non era milanese però stronza di sicuro, viene cresciuta da sua madre come una principessa. La principessa. E il padre, che al fascino femminile non è in grado di sottrarsi, è complice della creazione del mostro, questo Golem griffato dell’ape, della santa triade di Santa, Forte, e Curma e del uicchendino perché la domenica mi rompo i coglioni. La principessa, che è la più bella, la più intelligente e la più insopportabilmente viziata dell’universo, comanda sovrana nel suo regno. Impara l’arte del dispotismo. Tiranneggia. Quando, improvvisamente, la natura entra prepotentemente nella sua vita, rendendola mensilmente ancora più imprevedibile e dittatrice, la madre sa che è venuto il momento. L’appuntamento con la storia. La prende per mano e la porta nel modesto salotto di duemila metri quadrati, parquet, marmo, tappeti persiani, divani di velluto e cinema con poltrone e biglietteria annessa. Lì, sotto il ritratto gigante dell’avo, il grande filantropo, l’arcivescovo, il mercante di schiavi, il colonizzatore, l’inquisitore, il santo, l’erudito, il nobile, il mistico, l’amico di papi e crociati, l’umanista lì, la fa inginocchiare e, appoggiandole la borsa gigante di Fendi sulla spalla, che fagocita la piccolina, pronuncia una frase. Una sola frase, dalle conseguenze, però, nefaste. Una sola frase su cui è stata costruita la nosta amata e odiata città. Una sola frase che, pare, la prima volta che è stata pronunciata, abbia creato un collasso gravitazionale: “Ce l’hai solo tu”. Ed è la fine. Per noi, l’inizio di un incubo da cui non ci potremo mai risvegliare.

p.s: si scherza, lo sapete e poi, lo dico in particolare alle mie amiche, generalizzare è sempre sbagliato: credo che ci siano almeno un discreto numero di milanesi che non sono affatto, affatto, come le ho descritte. Sono molto peggio.

lunedì 30 novembre 2009

Palo Alto

Sabato notte, le due circa. Domenica mattina, volendo essere precisini. Le due e un quarto di domenica mattina, se proprio vogliamo fare gli svizzeri – i secondi, purtroppo, non me li ricordo. Cammino in direzione dello Zukunft, dove mi attendono dotti studiosi di ermeneutica per discutere di “Gadamer e l’interpretazione del cuba libre”. L’inquietante e borghese silenzio della città viene interrotto bruscamente da urla di guerra. Mi volto e vedo, dall’altra parte del marciapiede, un gruppo di portatori sani di vacuum cerebris che, novelli cavalieri rosso crociati, si randellano con dei pali lunghi almeno un paio di metri. Sbraitano, tirano calci ai cestini, sghignazzano garruli e si randellano. Che siano anche loro invitati al convegno? La domanda è ragionevole, ma l’amara riflessione a cui giungo subito dopo lo è molto di più: la polizia, quando serve, non c’è mai. I miei neuroni non fanno nemmeno in tempo a riprendersi da questa fatica elaborativa che, da dietro l’angolo spunta, modello A-Team, il furgone della Polizei. Fanno il giro della piazza e si fermano proprio davanti ai facinorosi che, alla vista delle divise, assumono un contegno che Monsignor Della Casa avrebbe certamente potuto citare come esempio di perfetto galateo nel suo celebre libro. Non so come sia andata a finire, ma mi immagino qualcosa del genere:

Polizei: Cosa stavate facendo con quei pali?
Facinorosi, fischiettando con fare da gnorri,i pali “nascosti dietro la schiena: Quali pali?

Polizei: Quei pali!

Uno dei facinorosi: Ah, questi pali? Ci servivano per un esperimento filosofico. Io sono convinto che la realtà non esiste e che non siamo altro che cervelli dentro a una vasca. I miei amici erano convinti del contrario e hanno cercato di dimostrarmelo percuotendomi un palo sui denti. Non sono ancora convinto che tutto questo sia reale, ma nel dubbio ho già preso appuntamento col dentista.

Polizei: Multa! La realtà esiste così come i cantoni svizzeri, per quanto ne dica Woody Allen.

Non sto a giudicare. Credo ci siano modi migliori per divertirsi, e anche più intelligenti. D’altronde, anche scolarsi una bottiglia di rum e ballare fino alle otto del mattino non è un modo particolarmente intelligente di divertirsi. E sicuramente è molto più dispendioso. Perciò, ora vi saluto e vado su eBay a vedere se riesco a ordinare un palo di due metri. E una ballerina da metterci di fianco.

mercoledì 25 novembre 2009

Un post assolutamente inutile

Vorrei spezzare una lancia… in testa a chi ha inventato l’uso dell’“assolutamente sì”. Provate a farvi un giro su qualsiasi canale italiano e sentirete:

1. la conduttrice starnazzante, ispirata dalle musa: “assolutamente sì”
2. il politico moralista, esaltato da furor divino: “assolutamente sì”
3. il concorrente mono neurone del Grande Fratello, spinto dal fatto che sia l’unica parola che può pronunciare senza dover consultare il dizionario: “assolutamente sì”
4. Il calciatore a fine partita, ma solo perché glielo hanno suggerito: “assolutamente sì”
5. Topo Gigio: “assolutamente sì”, ma d’altronde, inutile pretendere di più da un topo che passa il giorno a lavarsi le mani per paura della suina

A volte muta. “Assolutamente no”. La sostanza, però, non cambia. Questo significa che non basta più essere d’accordo o meno con qualcuno o qualcosa, ma bisogna esserlo in modo assoluto. Un assolutismo poco illuminato, direi. Perciò, non si può più essere morti, ma bisogna esserlo assolutamente, perché correre il rischio di esserlo in parte sarebbe disdicevole. Per non parlare delle donne incinta. “Sei incinta?” “Assolutamente sì”, perché l’uso semplice del solo “sì” potrebbe causare nell’altro interlocutore l’idea di un essere incinta solo parziale. Il rischio è troppo grande. E al liceo? “R., oggi lei è impreparato. Tre. Anzi, assolutamente tre”. Dura, davvero.

Purtroppo, che ci volete fare, io sono ancora un democratico di vecchio stampo. Gli assolutismi non mi sono mai piaciuti. Perciò, a breve, chiederò un referendum per l’abrogazione dell “assolutamente sì” e “dell’assolutamente no”.

“Ma che, stai scherzando?”

Assolutamente sì.

venerdì 20 novembre 2009

Il portaborsone

L’avambraccio – che, a meno che non siate nati a Černobyl' nel 1986, è quell’arto compreso tra gomito e polso – è piegato e forma un perfetto angolo di novanta gradi con il braccio; il palmo della mano è rivolto verso l’alto. O verso il basso, a seconda. Il polso ciondola, inerte, senza vita. No, non ci troviamo in piazza del Duomo e su quell’avambraccio non è appollaiato uno stuolo di piccioni cagatori pronti a essere sfamati con briciole, noccioline e cassoeula. No, quello che vi trovate davanti è il tipico esemplare di femmina milanese. Dall’avambraccio, infatti, penzola in genere una griffatissima borsa capace di contenere un intero gurdaroba. Una volta si usava la spalla per trasportare borse, borsette e borsoni. La spalla era fatta apposta per quello. La spalla era fatta solo per quello. Le più ardimentose si azzardavano ad usare la mano. Coraggiose. Poi… poi arrivò lei. Paris Hilton, immortalata dai paparazzi. E scoppiò la moda. Ora, il problema è che la Hilton è un prodotto commerciale plastificato che serve a pubblicizzare la catena alberghiera omonima. Non è umana. Il suo avambraccio è bionico: potrebbe attaccarci un’altalena con sopra un elefante cavalcato da Mike Tyson alla guida di un Hummere per lei sarebbe lo stesso. Riderebbe e continuerebbe a scoparsi mezzo mondo. È finta. Ma le ragazza milanesi? Le vedi che riempono le palestre, tirano su pesi, fanno pilates e tutto per cosa? Per far penzolare il borsone dall’avambraccio. Le vedi che si trascinano per la città, cercando di mantenere l’equilibrio e di non essere sopraffatte dal borsone. È una lotta per la sopravvivenza della milanese dura e incazzosa, è la dura legge della griffe. Ma voi avete mai visto cosa c’è dentro a quelle Louis Vuitton ipertrofiche, a quelle pantagrueliche Prada, a quelle Marc Jacobs titaniche? Di tutto: libri, mazzi di chiavi, cani, lucidi da labbra,cellulari, sedie, barche a motori, il catalogo dell’Ikea. Pare addirittura che, una volta, una di queste borse sia stata utilizzata come rifugio da Saddam Hussein. Insomma, bisogna avere il fisico. A volte, quando il caso lo richiede, il borsone si trasforma in una borsetta mignon, quella per intenderci capace di ospitare solo la carta di credito, che tanto loro non usano mai. Con quella, cambiano aspetto: i lineamenti del volto si distendono, il fisico si rilassa, compare forse un sorriso. Scompare invece dalla faccia del compagno, che ha già capito come andrà la serata. Come sempre: e io pago!

Non ho nulla contro borse, borsette e borsono, di marca o no. Semplicemente, non mi piace questa moda degli ultimi anni alla Paris Hilton. La trovo demenziale. Ho descritto la milanese perché è la tipologia di ragazza che conosco meglio, ma la globalizzazione non risparmia nessuno: stamattina, qui a Zurich, sceso dall’autobus, mi sono accorto di avere davanti a me un plotone di ragazzine starnazzanti. Starnazzanti alla svizzera. Tutte con il borsone. Sull’avambraccio. La differenza? Be’, sono quasi sicuro che qui in Svizzera, questa cosa, sia regolata da una legge. Buon fine settimana a tutti!

lunedì 9 novembre 2009

Spegnetemi il dj


Tunz tunz tunz.
Sono le sette di mattina.

Bum bum bum.
Sono le sette e un quarto di mattina. E il dj? Continua a suonare.

Tunz tunz tunz.
Sono le sette e venti.

Bum bum bum.
Sono le sette e mezza. Il mio amico ha detto che si fa chiusura. E il dj? Il dj è uno stronzo, perché continua, imperterrito, a suonare. Ci saranno dieci persone in pista che ballano completamente fuori tempo e lui è ancora lì, cuffia in testa, braccio che mulina in aria, tunz tunz e bum bum.

Tunz tunz tunz.
Sono le otto di mattina.

Bum bum bum.
Sono le otto e mezza. E il dj? E’ nel mirino del mio fucile. Bang bang bang, ma è solo un sogno.

Tunz tunz tunz…
Sono le nove di mattina. M. e io ci lanciamo uno sguardo di intesa. O meglio, il mio è di disperazione, il suo di completa rassegnazione.
“E se andassimo?”. Lampi di genio che squarciano il buio di menti offuscate dalla stanchezza. Niente più bum bum bum. Si torna a casa.

Sonno breve, corto, troppo corto. L’orecchio destro sibila, mi fischia, cartellino rosso, espulso. Fuori grigio, freddo, pioggia, silenzio. Passano i tram. Qualche macchina. Qualche passante. Usciamo in cerca di cibo, attratti dagli odori, dai sapori. Dalla pancia vuota. Dalla fame chimica. Camminiamo, avvolti da strati di vestiti, le mani in tasca, mentre… ma, scusate, e il dj?

Il dj, mi sa tanto, è ancora lì. Che suona. Tunz tunz tunz. Bum bum bum.

lunedì 2 novembre 2009

Incontenibili... emozioni



La lettura di questo post è vietata a chi possiede un quozientedi intelligenza superiore a 75. Può avere effetti collaterali, prima dell’uso consultare un ottimo psichiatra.

Sabato sera: una stanza, qualche collega, poche sedie. E lei. La bottiglia di vodka. Era lì, che aspettava, tra un bicchiere di vino e l’altro. La sua vita è stata breve, ma intensa. Ha donato gioia, serenità, amore. Ci mancherà. Ci mancherà?

Non credo. Quando abbiamo lasciato l’appartamento erano le dieci di sera. Io sono rientrato a casa parecchie ore dopo. Forse erano le sei, forse le sette. Non mi ricordo. Quello che mi ricordo, però, è che abbiamo continuato a bere vodka. Tanta vodka. E tanta red bull. Ho qualche vuoto, però mi vedo camminare per la strada deserta in stato altamente confusionario discorrendo da solo ad alta voce, concatenando parole senza un filo logico in un monologo degno di citazione nel DSM. Pura follia, e lo intendo per davvero. Il peggio, però, doveva ancora succedere.

Riflesso condizionato. Avete presente Pavlov e il cane sbauscione, quello che produceva ettolitri di saliva al semplice suono di un campanello? Ecco, io, invece, al ritorno da una notte brava, non appena infilo la chiave nella serratura della porta, provo un impellente stimolo che mi spinge con forza verso la tazza del cesso e mi obbliga, il più velocemente possibile, a svuotare la vescica. Questo quando sono ancora in grado di controllarlo, lo stimolo. Domenica mattina, invece, è stato lui a prendere il sopravvento. Ho provato a slacciare i bottoni, ma non ne ho avuto il tempo. E così, due minuti dopo, ero sdraiato sul pavimento, uno straccio in mano, nel tentativo di lavare il pavimento. Visto che la posizione non era poi così scomoda, lì per terra, ci sono rimasto anche più del dovuto.

Ho avuto serate migliori. Risvegli migliori. Mi sono detto, come centinaia di altre volte, che questa era l’ultima volta. Ho provato a sentirmi in colpa, e ci sono anche riuscito, ma tanto so che non servirà a nulla, perché sono umano, troppo umano. Perché l’anima è una scintilla divina, ma il nostro corpo è fatto di polvere. Il mio più di vodka che di polvere, ma comunque.

Epilogo. Se volete una morale da tutto ciò, non l’avrete. Però, magari, la prossima volta esco con un pannolino.

lunedì 26 ottobre 2009

Aspetta un attimo che alzo la voce


Venerdì scorso, tardo pomeriggio, ufficio di Milano. Con il cervello avvolto dalla nebbia meneghina, anche i concetti più semplici appaiono vette intellettuali irraggiungibili. Il sottoscritto decide perciò di utilizzare la tecnologia per ottenere delucidazioni direttamente da Zurigo. Prima, però, vediamo se la persona in questione è raggiungibile telefonicamente e non è, invece, in ritiro spirituale pre riunione. Apro una conversazione in Skype. Lei la chiamerò X. Avrei potuto chiamarla anche A o B, ma volevo far vedere che conosco le lingue straniere.

D: Posso chiamarti X?
X: ?????
X: Con il Telefono?
X: Con Skype?
D: In ufficio
X: A voce?
D: So che ti chiami X

Ammetto che la costruzione di una frase ha una sua logica che io, purtroppo, non conosco.

X: Da Milano è difficile che ti senta
D: Porc…

Il dialogo è sospeso tra ironia, surrealismo e stanchezza del fine settimana. Ogni riferimento a fatti realmente accaduti o a persone realmente esistite o esistenti è puramente casuale. Nessun animale ha subito maltrattamenti nella realizzazione di questo post.


lunedì 19 ottobre 2009

Il piccione e il viaggiatore

Vorrei tornare un momento sull’argomento piccione. La scorsa notte, stimolato dal gelido freddo di una stanza priva di riscaldamento in una Zurigo sotto zero, ripensavo al prodotto interno lordo e pure netto che il volatile immondo, qualche giorno fa, ha depositato sul mio balcone. Ora, è nota la componente acida del guano – pensate alle scagazzate statue milanesi –, tant’è che la mia immediata azione igienizzante ha impedito all’escremento diabolico di creare un buco nero che avrebbe potuto risucchiare l’intera Svizzera, cioccolato compreso. In un certo senso, sono un eroe, ma la mia proverbiale modestia limita ogni tentativo narcisistico di autocelebrazione. La domanda è: ma cosa mangiano questi piccioni? Hanno il colon irritabile? L’intestino pigro? E poi, li avete visti? La maggior parte sono obesi, deambulano con difficoltà, hanno il doppio mento e si librano in volo a fatica. Sono un problema per la società: qui urge del sano Bifidus Actiregularis e movimento, vo-la-re!

Quante probabilità ha un milanese trasferitosi a Zurigo di incontrare a Londra delle ragazze milanesi conosciute una notte a Zurigo? Visto che la domanda è discretamente retorica, vi farò quest’altra: quante probabilità ha un milanese trasferitosi a Zurigo, poco dopo aver incontrato delle ragazze milanesi conosciute una notte a Zurigo, di essere approcciato in una pista da ballo – “pista da ballo” è veramente un termine poco gggiovane” – da una ragazza che lo molesta sessualmente per un paio di ore e, una volta placato il suo appetito amoroso, scopre essersi appena trasferita da Zurigo, sua città natale? Chiaro che il milanese in questione non devo essere per forza io. Magari un amico. Anzi, ho un cugino che…


Discorso in inglese. Circa.
“Quanti anni hai?”
“Trentatre”
“Trentatre? Wow, e come fai ad avere ancora un fisico così alla tua età’?”

Be’, cosa avrei mai potuto rispondere?

“Me l’hanno conservato in una teca fino a stamattina: in giro dovrebbe esserci anche Tutankhamon!”

martedì 13 ottobre 2009

Che stronzo!

Dicono che è colpa dell’aria fredda proveniente dalla Russia. Dicono. Dicono che durerà almeno fino a venerdì. Dicono. Insomma, fa un cazzo di freddo. Non so dove stiate voi, ma qui a Zurigo significa cinque, sei, sette gradi di massima e la colonnina del termometro sotto lo zero di notte. Figuriamoci se i maniacalmente precisissimi sfizzeri decidono di anticipare l’apertura degli impianti di riscaldamento: meglio ghiacciare che sgarrare. Ieri sera, in effetti, in casa mia si avvertiva una certa brezzolina, anche se poteva darsi benissimo che i brividi fossero provocati dalla visione di Porta a Porta. Nel dubbio, ho cambiato canale e ho pensato bene che fosse il caso di chiudere le persiane. Sprezzante del pericolo, coperto solo di un bue e un asinello che mi alitavano addosso, sono uscito del balcone, deciso a compiere la mia missione. Fuori, silenzio. Freddo. Buio. Mentre spostavo la persiana, mi è sembrato di scorgere qualcosa muoversi. Mi sono voltato e sul tavolo, appollaiato, c’era un piccione. Un piccione?! Sul mio tavolo?!! Ho sfoderato immediatamente le mie tecniche di combattimento mortale e il piccione, pavido e codardo, ha sbattuto le ali e se n’è volato via. D’altronde, quando ci si trova davanti a David Albert Rosenberg, non si può agire altrimenti. Poi, il mio sguardo è stato attirato verso il basso: eh sì, quello che occupava abusivamente buona superficie del balcone era proprio un gigantesco, schifosissimo stronzo. Uno stronzo colossale. Uno stronzo che, fidatevi, così non lo avete mai incontrato, neanche in ufficio. Ho pensato al piccione. Ci ho pensato e mi son detto che se avesse fatto “muuuuuu”, ecco, non avrei avuto nulla da ridire.

martedì 6 ottobre 2009

Io e tettesco ezzere cozì, ja!


Stamattina, a lezione di tedesco, non eravamo molti. Tre, contando l’insegnante. Dei due studenti, uno si chiamava David, e l’altro ero io. Anzi, l’altro era Devid, io uguale ma David. In pochi secondi siamo stati ribattezzati David eins e David zwei, il che non lo trovo giusto perché, essendo io più vecchio, non mi meritavo di certo il titolo di clone della giornata. La lezione è densa: si scrive, si legge, si conversa e tutto incredibilmente in tedesco. O quasi. A un certo punto però… i nostri cervelli ricevono un terribile colpo di arresto. Uno stop. Una Caporetto neuronale. “Er ist sehr berühmt”: non ce la possiamo fare, davvero. Io alzo bandiera bianca. David, anzi Devid, pure. La frase è oscura, misteriosa. Forse subdola. Cosa vorrà mai significare? Lei prova a spiegarcelo: Michael Jackson era berühmt. Mhh… Michael Jackson… era tante cose… berühmt… ce l’ho sulla punta della lingua, ma mi scivola sull’umlaut. La nostra insegnante, però, è una tipa tosta e non demorde: Obama è berühmt.


“Ahh, ja ja!!!”, esclamo, in preda a una non comune euforia, ma si sa, il lampo di genio produce questi effetti. “Berühmt ist black!”. Nero!!! Facile: Michael, Obama. Taac!


Lei mi guarda e viene colta da riso isterico, singulti, lacrime. Credo che ora sia in qualche reparto con una flebo nel braccio.


“Nein”, dice, con la bocca che nel frattempo è diventata un raccoglitore per le lacrime, “berühmt ist famous”. Famoso.


Eh già, sono proprio un idiota: Obama è abbronzato e poi, diciamoci la verità, che, Michael Jackson era nero?!!

mercoledì 30 settembre 2009

No chiavi? No parti, ja?!!


Quando, a maggio, mi hanno consegnato le chiavi, ho pensato: “Che figata”. Sì, perché a Zurigo la tecnologia la fa da padrona: niente mazzi di chiavi grossi come meteoriti da trasportare con il carrello della spesa. Una chiave con un codice per aprire la porta dello stabile, quella del proprio appartamento, il garage, il lucchetto della valigia e, credo, anche le macchine parcheggiate entro un raggio di due chilometri. Efficienza svizzera. Precisione. Economizzazione. Ogni condomino ne riceve quattro copie. Io, sempre con la testa tra le nuvole, ho pensato bene fosse il caso di affidarne una ai miei genitori e una al mio vicino. Metti che rimango chiuso fuori. L’ultima copia vagante, riposta nel cassetto della scrivania, viene utilizzata, con un sistema ingegnoso, dall’uomo delle pulizie - ebbene sì, da due settimane a questa parte ho finalmente qualcuno che passa l’aspirapolvere, lava i pavimenti e fa odorare di civiltà quel buco del mio appartamento - : io lascio la mattina le chiavi nella cassetta della posta che lui, poi, passerà a ritirare. Quando rincaso, la sera, apro la cassetta, recupero le chiavi e così via. Fino a ieri: le chiavi si sono volatlizzate. Panico. Panico reale, perché nel caso le avessi perse, devo cambiare, a mie spese, serratura del garage, del portone, di casa mia e, con molta probabilità, dell’appartamento di ogni condomino. 12 appartamenti. Si parla di migliaia di franchi. Forse milioni. Forse la galera. Forse sarò compagno di cella di Roman Polanski. La prima cosa che mi è venuta in mente è stata: forse lui si è dimenticato di lasciare la chiave nella cassetta della posta. SMS immediato. Risposta: ho lasciato la chiave nella cassetta. Porca puttana. Io, però, non ne sono così sicuro. Ricordo, giovedì scorso, di essere tornato a casa. Ricordo di avere aperto la cassetta. Ricordo di avere preso una busta cablecom e ridcordo anche di avere moderatamente imprecato perché quella sicuramente era un’altra fattura da pagare. Ricordo di avere fatto il bucato, di essermi mangiato una pesca, di aver fatto una gira volta e di averla fatta un’altra volta, ma non mi ricordo affatto di quella chiave. Tuttavia, non avendo prove del contrario, prendo per buona la sua versione. Dunque, la chiave deve essere per forza nel mio appartamento, da qualche parte. Ieri notte, perciò, è iniziata la ricerca. Ho controllato dovunque: cassetti, tasche dei pantaloni, tappeti, persino nel frigorifero e dentro le calze. Niente. In più, venerdì sono tornato a Milano, quindi non posso neanche pensare che me la sia mangiata in preda ai fumi alcolici. Poi, il colpo di genio: ho lavato i pantaloni con la chiave dentro. Eccerto, ecco risolto l’enigma! In pigiama e ciabatte, mi precipito giù per tre piani, scalino dopo scalino. La stanza è immersa nel buio. Romantico, ma io preferisco la luce. Eccola, la lavatrice. Eccola, l’asciugatrice. E la chiave? Niente. Porca. Puttana. Stamattina ho ricominciato le indagini. Nessun esito. Necessito di RIS e perito nominato dalla Procura. La situazione, al momento, è questa. Ora, non ho nessuna intenzione, almeno non ora, di ammettere la mia colpa davanti al tribunale dell’agenzia immobiliare, né, tantomeno, di farmi prosciugare il conto in banca. La “figata” iniziale ha mostrato il rovescio della medaglia. Purtroppo, prima o poi, tutti i nodi vengono al pettine - almeno fino a quando non diventate completamente pelati -, perciò mi sto preparando, nel caso mi venga posta la fatidica domanda: e la quarta chiave?


* Mi spiace, non capisco il tedesco

* Quale quarta chiave?

* È stata rapita dagli alieni

* Ha fatto le valigie e se ne è andata via questa mattina

* Ma è qui, non la vedete anche voi?

* Parlo solo in presenza del mio avvocato

* Era giunto il suo tempo, ma ha vissuto una vita piena e serena

* Se volete rivederla viva, seguite attentamente le mie istruzioni

* Voi volete sapere troppo

* È a un festino con Papi

venerdì 11 settembre 2009

C'è chi si adatta e chi no


Io ho un problema e non è l’ipocondria. Almeno, non solo. Tempo fa mi sono abbonato a cablecom, svizzero fornitore di servizi internet, programmi digitali e via cavo. L’offerta televisiva non manca: canali svizzeri, tedeschi, francesi, italiani, inglesi, americani, turchi – sì, proprio quelli che fumano tanto –, serbi, croati, russi, polacchi, ungheresi e persino un canale coreano. È bello non capire niente in tante lingue, ti dà quel senso di ignoranza globalizzata. La sera mi sdraio sul divano e rimango così, ipnotizzato davanti allo schermo, lo sguardo vagamente ebete. Ora, ci sarebbe anche la possibilità di ordinare, su richiesta e a pagamento, dei film. Il catalogo è piuttosto variopinto: da “Madagascar” a “Lei suona il piano, lui la tromba”. Già, peccato che abbia tentato in tutti i modi, senza successo, di ordinarne uno – Sbatman e Trombin mi ispirava molto. Che fare? Chiamiamo il servizio clienti.


“Per il tedesco digitare uno. Per il francese, digitare due. Per l’italiano, digitare tre. Per il bagno, sempre in fondo a sinistra”. Dopo una decina di minuti di attesa durante i quali sono riuscito a imparare a memoria “Home” di Michael Bublé, posso finalmente parlare con un operatore, a cui espongo minuziosamente il problema.

Ha per caso l’adattatore VOD?”, mi domanda, con un accento che farebbe invidia a Huber, Gervasoni e Rezzonico. Di brutto brutto butto, eh!

“Eh?!”, ma avrei potuto solo scrivere “?!”, solo che al telefono viene male.

“Video on demand, è un adattatore fatto apposta per questo tipo di servizio”

“Non credo. Ho un adattatore, ma non so se sia VOD o no”

“Può controllare?”“Non sono a casa in questo momento”

Com’è il suo adattatore?”

Boh, com’è? Carino? Insomma, l’andazzo è questo per altri cinque minuti. Il VOD, comunque, non ce l’ho. L’operatore dice che me lo invierà a breve per posta. Meno male, potevo rimanere offeso!


Tornato dalla settimana milanese, trovo un foglietto nella cassetta della posta. Viene da cablecom, devo andare in posta a ritirare il VOD. E così faccio: vado, ritiro, trono a casa e apro la busta. Eccolo qui, il famigerato VOD. Lo attacco alla presa, poi prendo i cavi del modem e del decoder e… e niente. Non entrano. Spingo, ma non ne vogliono sapere. Le provo tutta, anche con la vaselina, ma ho la sensazione che ci sia qualcosa che non va. Anzi, ne ho la certezza. Non mi resta che andare fisicamente al servizio clienti e chiedere delucidazioni.


Il giorno dopo, uscito dall’ufficio, mi reco al servizio clienti, situato al primo piano di un negozio di elettrodomestici. Dopo aver superato con coraggio un’ardua rampa di scale, percorro alcuni metri fino a quando mi ritrovo davanti un bancone con la scritta “cablecom”. Che sia questo? Dietro al bancone un tizio paffutello sulla quarantina, con più peli nel naso che in testa, sta cercando di capire se sia meglio cedere all’abbiocco, decifrabile dal suo sguardo vispo, o continuare a sfogliare il giornale. Per non farlo consumare nel dubbio, arrivo in suo soccorso:

“Do you speak English?”

“Nein”Ah. Momento di panico. E adesso, come glielo spiego tutto l’ambaradan? Posso chiedergli come sta, dov’è la fermata del tram o se ha voglia di darmi un altro bacio, ma come gli spiego di cavi, prese e adattatori?

“I can translate for you”

Mi volto. Il mio salvatore ha le sembianze di un biondo ragazzo che, a sua volta, sta aspettando il turno per lamentarsi con cablecom. Inizio a esporgli il caso. Lui, mano sull’auricolare, traduce. Non capisco una parola, ma credo che dica qualcosa del tipo: “Sono molto onorato di essere qui, amo il vostro paese, w la pace nel mondo”. L’impiegato rotondetto annuisce col testone. “Ja, ja”. Poi, inizia il suo monologo pieno di ch, tz e unt. Stavolta, ad annuire sono io. “Yes, yes”. Il ragazzo mi spiega che quello di cui ho bisogno sono degli adattatori per le prese dell’adattatore. Ah! Un meta adattatore, fichissimo, sehr gut!


Venti minuti più tardi sono a casa con i miei due fichissimi adattatori. Super fichissimi. Infilo l’adattatore nella presa. Infilo gli adattatori nelle prese dell’adattatore. Non entrano. Riprovo. Non entrano. Spingo. Non entrano. Ma… ma i super fichissimi adattatori? Ma… ma vaffankulen!!!

mercoledì 9 settembre 2009

In Gamba!!!


Il dolore, più che altro un fastidio, ha iniziato a farsi sentire circa tre mesi fa. Gamba sinistra, vasto laterale. Sospendo gli allenamenti per un periodo, un po’ di riposo non può che farmi bene. Dopo un mese, però, le cose non sono affatto cambiate: la gamba è sempre la sinistra, il dolore è ancora localizzato lì, nel vasto laterale. Vasto laterale… adoro imparare nuove parole. Sembra il ruolo di un giocatore: c’è il terzino e c’è il vasto laterale, che però parte dalla panchina. A Milano, un caldo giorno di fine luglio, decido di farmelo vedere, questo vasto laterale. Il mio ortopedico, il dottor Gamba – nomen omen – è in vacanza. Così, armato di buona volontà, inizio il giro degli ospedali.

Auxologico: solo su appuntamento, peccato che mi vogliano appuntare la settimana dopo e io devo tornare a Zurigo

Gaetano Pini: al momento il pronto soccorso non è attivo, potete morire da un'altra parte.


Il Fatebenefratelli mi accoglie a braccia aperte, ma solo perché sono ingessate. Nella sala d’attesa siamo in tre. Bene, penso, mezz’ora e me ne torno a casa. Invece, ecco arrivare il cinese con una caviglia gonfia come un pallone aerostatico; ecco la nonna moribonda sulla sedia a rotelle; ecco la sciura che non riesce a muovere nemmeno un dito ma riesce, però, a parlare un’ora di filata al cellulare. Due ore dopo entro nello studio. Il medico, dopo avere abusato della mia gamba, sentenzia: “È uno stiramento. Per stabilire l’entità del danno, ho bisogno di una ecografia. Perderai un po’ di forza da quella gamba. Fai l’ecografia, poi telefona e prendi un appuntamento”


Sono un invalido, ho capito.

Passa l’estate. Torno a Milano. Faccio l’ecografia. Vado dal dottor Gamba. “È una contrattura”. Miosite distale al vasto laterale. O, miosite al vasto laterale distale. O qualcosa del genere. Niente stiramento, niente perdita di forza. “Devi fare un ciclo di tre onde d’urto”

A Zurigo, di fianco al mio ufficio c’è una clinica di medicina dello sport. Eccellente. Munito di ecografia e reperto, faccio il mio ingresso trionfale.


“Du iu spic inglisc?”

“Ies ai do” Inizio il mio racconto zeppo di dolore, visite, ecografie, dottor Gamba e onde d’urto.

“Uot?”

“Scioccueivs, ai thinc this is iz neim in inglisc” Silenzio. Provo a spiegarmi meglio. Silenzio. Mi esibisco in una pantomima. Silenzio.

“Hev iu got scioccueiv?”. Silenzio. Silenzio assenso? O silenzio assenzio, lobotomizzata da chissà quali sostanze?

“Scioccueivs cam from Suitzerland. Itz laic e littel gan with e sort of piston det meic bum bum bum bum bum. Du iu anderstend?”. Bisogna essere prorpio ottenebrati cerebralmente per non capire una spiegazione scientificamente così ineccepibile. La ragazza mi guarda, persa nel bum bum bum bum bum. Forse sta pensando a qualcos’altro. Una volta riavutasi dall’effetto dell’acido e dei pensieri impuri, mi fa:“Iu nid to visit e doctor hiar. Den, hi chen prescraib e tritment. We send de tritment tu iour insciurans, so iu dont hev tu pey for de tritment” .E non me lo poteva dire prima? E le scioccueivs? E l’ecografia? E il dottor Gamba? Quindi, ricapitolando, lunedì prossimo dovrò pagare un dottore che mi dirà che ho una contrattura al vasto laterale e che devo fare un ciclo di tre onde d’urto. Me lo dirà in tedesco, così io non capirò un cazzo. Speriamo almeno che non si chiami doktor Bein*…

*gamba, in crucco, ecchevelodicoaffare!

giovedì 3 settembre 2009

Dica "Trentatre"!


“Gentile Sig. Rosenberg, questo giorno le appartiene. Se lo goda appieno. Orange la augura buon compleanno.”.


Quando uno riceve sul suo numero svizzero un messaggio del genere, capisce che è arrivato. Comunque, quando è suonata la sveglia, ho sentito tutto il peso dei miei 33 anni. Alzarsi, lo ammetto, è stato faticoso. Mi ci è voluto circa un secondo più del solito. Sono cose che ti segnano. Fuori dalla mia stanza mi si presenta una scena apocalittica: polvere, roba accatastata dovunque, calcinacci, un paio di mutande che camminano. I picconatori, in una pausa di demolizione, si scambiano starnuti e frasi di circostanza in pugliese stretto. Mia madre sta parlando con un tizio alto, grosso e con la barba bianca che o è Babbo Natale o è il capo di tutta la baracca. Probabilmente è Babbo Natale. Di fianco a lui un ragazzo, quello delle porte. Cioè, si prende cura delle porte: le leviga, le pittura e le mette a letto dopo le otto e mezza.


“Tanti auguri, tesoro!”


“Grazie”, rispondo, con bacio, abbraccio e le palpebre ancora incollate.


“Cento di questi giorni”, mi urla il barba, felice come pochi ho visto a queste ore del mattino.


Ora, non ho ancora capito come prendere questo augurio. In teoria bene. Però… Cento giorni sono davvero pochi. Tre mesi e qualcosina. E poi? Ci ragiono su. Ho la tendinite a entrambi i polsi, una contrattura alla gamba sinistra e la sinusite: in questo caso cento di questi giorni sono davvero una enormità.


E giungiamo all’epilogo, perché c’è sempre un epilogo. Come mi faceva notare prima l’amico Freddi, qualcuno, molto tempo fa, a 33 anni suonati, resuscitava. E questo mi porterebbe a fare alcune considerazioni. Diverse. Per esempio, che Alessandro Magno, a 33 anni, concludeva a Babilonia la sua avventurosa vita. E Mozart componeva i suoi ultimi capolavori, Schubert, Keats e Shelley manco ci arrivavano e un tale che mia sorella si ostina a chiamare papà diventava padre del sottoscritto e prendeva la sua seconda laurea. Considerazioni, pensieri. Così penso, e penso, e penso ancora, e… e tutto sommato, riflettendoci bene, non posso affatto lamentarmi: io, almeno, ho gli auguri della Orange…


Tanti auguri a me e a tutte le persone a cui voglio bene.


martedì 1 settembre 2009

Ma oltre alla tua fidanzata c'è un altro cesso? Il mio lo stanno ristrutturando...

Stamattina mi sono svegliato avvertendo violenti movimenti tellurici. Tremava tutto. Una volta aperti entrambi gli occhi e assunta la tipica posizione dell'homo sapiens – quella dell’homo sexual, invece, è tutta un’altra storia e assomiglia di più a quella dell’homo impiegatus e, ahimè, ultimamente, a quella dell’homo rossonerus – mi sono imbattuto nella cruda verità: alcuni uomini prendevano a picconate il bagno di casa dei miei. Il sogno di una vita. Uomini pagati per demolire una casa. La nostra. Pensare che io lo avrei fatto gratis… Comunque, torno da Zurigo una settimana per cercare di rilassarmi e mi trovo in una casa messa sotto attacco. Ottimo. E questa è la buona notizia. Ora passiamo alla cattiva. Dialogo tra mia madre e il sottoscritto, sempre che si possa chiamare “dialogo” quella serie di vocali e consonanti sbiascicate che la mia bocca è in grado di emettere prima di mezzogiorno.

“Mhhhhhh?” Traduzione: “Mamma, non è che questi vengono a rompere i coglioni anche il fine settimana?”

“No, non dovrebbero”

“Uhhhhhh!” Traduzione: “Ah, meno male!”


Ore undici e quarantacinque del mattino, il mio cellulare vibra sulla scrivania: è quasi peggio delle picconate al bagno. Mia madre. Sono impegnato, però, in un’altra conversazione piena di “mhmh”, “ahah” e “yes”. Richiamo.


“Mamma, mi hai ahahmhmh?”. Quasi mezzogiorno, le mie frasi iniziano a essere molto più elaborate.

“Sì. Niente, volevo solo dirti che gli operai verranno a lavorare anche sabato

“A casa?”. Sì, lo so che non è una domanda molto intelligente, ma la speranza è l’ultima a morire. “Mi spiace… se vuoi farti ospitare da qualcuno…”


Ecco, come direbbe il mio amico Sandro, il pezzo è fatto. Magari vi fate anche due risate e, sappiatelo, ridere sulle disgrazie altrui non è affatto divertente. E se qualcuno vuole ospitarmi a casa sua venerdì notte, è il ben accetto.

martedì 25 agosto 2009

Ma il tartufon è sempre si bon?

Sapete qual è il posto più popolato di francesi dopo la Francia? Il Clara di Tel Aviv: francesi che ballano sui tavoli, francesi che pisciano nei bagni, francesi che rimorchiano delle francesi che rimorchiano altri francesi, francesi i pierre pronunciato alla francese e francesi puri i biglietti che paghi profumatamente all’entrata. Profumo francese. Siccome sono un tipo raffinato e la mattina intingo le lumache dentro al café au lait, pago, entro, faccio un giro e bevo rum e coca colà, voilà! A pochi metri da me una ragazzà, seduta su uno sgabelloné, la gambe incrosciaté, richiama la mia attensione con un sgesto très chic della sua maninà. Ici, ici. Io non me lo fascio ripetere due fois e mi avviscino con lo sguardo pieno di amour, vedi alla parola baguette.

Tu parle français”?A Tel Aviv è la prima cosa che mi verrebbe in mente di domandare.

“Un petit peau”

“Hai un po’ di erbà?”, in franscese, ça va sans dire

“No, désolé”


Si volta e, con la meme maninà di prima, mi fa segno di allontanarmi. Vite, vite!Ma come, e l’amour? E io che sgià mi vedevo sulla tourre Eiffel a cantar vive la France al suono dell’accordeon, scene a lume di candela e bolliscine di champagne?!! Non mi resta che il rum e coca colà: anche ici ci sono le bolliscine, solo che i rutti, con questi, sono pas très chic!

martedì 4 agosto 2009

La maglia rosa, la maglia gialla e la maglia... nera

Venerdì, ore cinque del mattino. Cinque e zero uno, tanto per ricordare che siamo in Svizzera. Dopo fondamentale tappa acquisto doner kebab per lenire fame chimica da sbronza acuta, ci si avvia verso casa. In bici. Perché questa è la geniale idea partorita da menti offuscate alle cinque e zero tre e qualche secondo – due, per la precisione. N. è pronto a scorazzarmi su e giù per le strade di Zurigo. Io, che di certo non mi tiro indietro, appoggio il mio sedere appesantito da qualche bicchierino di vodka di troppo sul portapacchi, saluto con la manina e via, si parte. Non avremo fatto neanche duecento metri – centonovantanove e ottantacinque – quando ci si affianca una macchina della polizia: il poliziotto lato passeggero abbassa il finestrino ed emette strani suoni gutturali che, qui mi dicono, prendono il nome di svizzero tedesco.

“What?”“You can’t ride a bicycle in two. Get off !”


Sembra piuttosto incazzato. Scendo. La macchina riparte, svolta a sinistra e sparisce. Io salgo di nuovo sulla bici. Tempo di due o tre pedalate – erano tre, sicuramente – e questa volta ci si affianca un furgoncino della polizia. Sembra uno scherzo ma giuro, è tutto vero. Il poliziotto a lato passeggero, più grosso, rasato e incazzato di quello di prima, inzia ad abbaiare delle consonanti e delle vocali che, qui mi dicono, prendono il nome di svizzero tedesco.


“What?”“You can’t ride a bicycle in two. Get off !”
Deve essere l’unica frase che imparano in inglese. Scendo, mi avvicino al furgoncino sbiascicando qualcosa del tipo: “Really?”Per molto meno c’è chi qui in Svizzera è stato trasformato in un Emmenthal.

“Yes. Get off and walk!”

Per scendere, comunque, sono già sceso.


Il furgoncino riparte, svolta a destra e sparisce. Io salgo ancora un’altra volta sulla bici. Ripartiamo. Niente più macchine della polizia, niente più furgoncini. Penso. Penso a cosa potrebbe succedere se ci fermasse lo stesso poliziotto di prima. A cosa avrebbe potuto succedere. Il pensiero dura esattamente un millesimo di secondo: in fondo, chissenefrega!!!

lunedì 29 giugno 2009

La torta che non passa mai di moda


Potrebbe succedere dovunque. Però, succede a Milano. Sabato sera, locale della movida meneghina. Un centinaio di persone riunite in festeggiamenti di compleanni, tante tante bollicine. Una torta Sacher grossa circa come il disco volante di “Incontri ravvicinati del terzo tipo” fa il suo ingresso trionfale. Adagiata sul tavolo, attende di essere tagliata e servita. Catalizza l’attenzione. Io aspetto, fremente. Mi si avvicina una ragazza. Una bella ragazza, quella che in genere, con una sineddoche di ricercata eleganza, viene definita una bella figa. La parte per il tutto. Purtroppo, mai arte retorica fu più azzeccata come in questo caso. Attacca bottone. Mi dice che pensava si cenasse, e invece. Ha fame. Poi…

Ma la torta Sacher è di moda, no?”
Mi sa che non ho sentito bene
“Cioè, è fashion, no?”
Ho sentito bene
“Guarda, ti dico la verità: la Sacher è davvero trendy”, e lo dico con una “e” aperta alla milanese. “Treendy”
“Eh, infatti, mi sembrava”
Mi sembrava cosa? Mistero delle sinapsi
“Certo, non è come la Bar**** di Mo****”
Non è fashion?
Dopo venti minuti infila tra le fauci il terzo pezzo di torta. Tutto quel fashion in mezzo ai succhi gastrici. Che spreco, no?

lunedì 15 giugno 2009

Il pranzo sul Cisalpino sarà servito con quindici minuti di ritardo, ci scusiamo per il disagio


Partire è un po' morire. Partire il lunedì mattino lo è davvero. La consolazione è che, una volta sistemata la valigia e individuato il proprio posto, ci si può tranquillamente abbandonare a tre ore e quaranta di sonno, ritardo più, ritardo meno. Sì, perché il Cisalpino delle nove e dieci del mattino va diretto a Zurigo. Niente scomodi cambi a Lugano. Così, mi preparo: iPod e corso di tedesco, sicuro che mi addormento entro dieci minuti. Peccato l’annuncio.“Ricordiamo a tutti i viaggiatori che questo treno termina la sua corsa a Lugano. I viaggiatori diretti a Zurigo troveranno la coincidenza sulla stessa piattaforma”Ma come, da quando?! Spengo l’iPod, chiudo il libro: se qui mi addormento, sono rovinato. Intanto maledico il Cisalpino, Trenitalia e, già che ci siamo, pure gli svizzeri. La ragazza davanti a me non capisce una parola di italiano e continua a leggere, beata, il suo Harry Potter. A me, invece, esce il fumo dalle orecchie. Passano tre minuti. Altro annuncio.“Ci scusiamo, ma l’annuncio di prima era sbagliato. Questo treno prosegue fino a Zurigo e si ferma a Como, Chiasso, Lugano, Bellinzona, Arth-Goldau e Zug”L’importante è che si decidano. La ragazza davanti a me legge sempre, beata nella sua ignoranza. Io riavvio l’iPhone. Riapro il libro, eins, zwei, polizei. Tempo cinque minuti e il treno si ferma. Si ferma e non si muove. Catatonico. Terzo annuncio. “Causa guasto a passaggio a livello, il treno subirà un ritardo di quindici minuti”: certo, un ritardo di quindici minuti sul ritardo.La palpebra si fa pesante, molto. È ora. Peccato che una ciurma di bambini tra i sei e i dieci anni continuino a correre, urlando, da un vagone all’altro. Piccoli bastardi. Mi giro e mi rigiro.Devo essermi addormentato. Quando riapro gli occhi vedo uno di quei bambini piegato di fianco a me. Sta vomitando. Una cosa così mi ricordavo di averla vista solo ne “L’esorcista”: ragazzi, che potenza di getto. Un mostro. Mi giro dall’altra parte, ormai rassegnato. Quando arrivo a Zurigo il treno ha accumulato un ritardo di quaranta minuti. Scendo, il tempo fa schifo, un signore mi passa il trolley sul piede. Ed è solo lunedì, cazzo!

mercoledì 27 maggio 2009

La potenza - svizzera - è nulla senza il controllo

Traslocato, finalmente: ho un letto, un guardaroba, un tavolo da cucina con due sedie, un mobile per la televisione con libreria annessa,una scala con due soli gradini, qualche lampada, piatti, posate, asciugamani, lenzuola. Venerdì arriva il resto. Non è di questo, però, che volevo scrivere. O almeno, non solo. Casa nuova, residenza nuova. Mi tocca tornare al consolato. Ahia… Non è di questo, però, che volevo scrivere. O almeno, non solo. Comunque, stamattina, una temperatura per niente primaverile – qui si passa dalla torrida estate a pieno inverno in un solo giorno – e un cielo grigio grigio. Sono sul tram numero 2, auricolari infilati nelle orecchie – mi sembra il luogo più appropriato –, sbadiglio compulsivo ed espressione instupidita dal sonno. Tre fermate dopo, fermi tutti, salgono i controllori. Le vocali e le consonanti escono a casa dalla loro bocca, ma il senso lo capisco ugualmente: con svizzero senso civico metto mano al mio abbonamento mensile e lo mostro al baffuto controllore, che abbozza un sorriso di approvazione. Bene. Andiamo avanti. Arrivo al consolato. Tizio parla con guardia – un’altra, non quella dell’ultimo post. Ecco l’imperdibile scambio di vedute:“Prego, documenti”“Eh… non ce li ho”“Patente, qualcosa?”“Niente, ma ho appuntamento”“Va bene, ma ho bisogno di un documento”“Ho appuntamento con (dice qualche nome di donna)”“Mhh”“La conosce, no?”“Sì, sì, la conosco, ma non conosco lei”“Eh…”“Va be’, vada, va” E facciamolo andare. Salgo al primo piano, munito di bigliettino. Numero: 007, capito? Nella sala di attesa non c’è nessuno. NES-SU-NO. E quindi, giustamente, aspetto venti minuti. Fortunatamente l’impiegata è gentile e simpatica, il che non serve però a placare i miei istinti omicidi nei confronti degli uffici pubblici italiani. In cinque minuti sbrigo la pratica. Bene. Non è di questo, però, che volevo scrivere. O almeno, non solo. Passeggiata fino a Bellevue, fermata del tram numero quattro. Due minuti dopo sono comodamente seduto, auricolari ancora infilati nelle orecchie. Tre fermate e... fermi tutti, salgono i controllori. Ancora?! Solite vocali e consonanti a caso. E poi lo vedo. Lui, il controllore baffuto. Mi si avvicina. Lo guardo.“Excuse me, sir, but you’ve already checked my ticket before”“Was?”Ho capito. Metto mano al mio abbonamento mensile e lo mostro a quello, quello baffuto, che abbozza un sorriso. Mi sa che stavolta, però, è un sorriso di presa per il culo…

venerdì 22 maggio 2009

A posto così


Noi italiani sappiamo sempre come farci riconoscere. Purtroppo. Circa un mese fa, spinto da nostalgia canaglia, decido di fare una visita al consolato italiano. Tradotto: devo cambiare residenza e iscrivermi all’AIRE, Anagrafe degli Italiani Residenti all’Estero. Così, pieno di belle speranze, mi alzo di buon mattino – ma neanche tanto – e, in compagnia delle prodi colleghe Di Gianfrancesco e Manini, parto in missione. Arrivati in Tödistrasse, ci mettiamo alla ricerca dell’edificio. Pochi secondi e ci ritroviamo davanti all’ingresso, sorvegliato da un temibile comodino da letto con gambe e braccia e che, con sguardo truce e in un italiano stentoreo e dal forte accento meridionale, ci intima di mostrargli i documenti. Poi, ci fa salire. Bip, il metal detector. Bip bip, il metal detector. Bip, bip bip!“Eh, per questa volta faccio finta di niente”Ma sì, chissenefrega, facciamo finta di niente. Ineccepibile. Grazie a Google Maps, non facciamo nessuna fatica a rintracciare l’ufficio di competenza. Prendiamo il nostro numerino, e aspettiamo. Saremo sì e no cinque persone in tutto, eppure io attendo per più di mezz’ora. Incredibile. Finalmente tocca a me. Mi avvicino allo sportello, sfodero sorriso, passaporto, carta di identità, permesso di soggiorno e un’enciclopedia, nel caso potesse interessare.“Dovrei fare il cambio di residenza”Io. David Albert Rosenberg.Cinque minuti e la pratica è risolta.“A posto così?”“A posto cos씓Non devo fare nient’altro?”“No. Le arriverà poi a casa una lettera del comune di Milano”“Perfetto, grazie mille, arrivederci”“Arrivederci”Tre giorni fa ecco comparire nella mia casella di posta una lettera. Provenienza: comune di Milano. La apro, fiducioso. Non devo fare nient’altro. A posto così.“Si comunica che si è proceduto alla Sua iscrizione nell’Anagrafe degli Italiani Residenti all’Estero di questo comune a decorrere dal 20.04.2009 iscritto AIRE, in seguito…” e bla bla bla. Intestazione della lettera:“EGR. SIG./RAROSENBERG NATHALIE”Mia sorella. Iscritta all’AIRE. Non devo fare nient’altro. A posto così. Chiamo il comune di Milano. Sono vagamente alterato.“Mi scusi, potrebbe spiegarmi come è potuto succedere?”“Eh… è successo”Già. E allora? Mi mette il cuore in pace, tanto non devo fare nient’altro. A posto così!

sabato 16 maggio 2009

Piacere, io sono E.


Venerdì notte, in un noto locale milanese. Solita sfilata di nani e ballerine, solo che i nani sono in media alti un metro e novanta e le ballerine starebbero meglio dietro a un palo per la lap dance che sul palco della Scala. In compagnia del barattolo terribilmente pettinato e del farmacista più bello di Milano – così dice lui – concentro le poche forze rimastemi nell’aspirare con una cannuccia il coca rum gentilmente offertomi dall’unica donna volenterosa che ha deciso di sacrificarsi e passare con noi la serata. Succede tutto in un attimo: dal nulla ecco comparire tale E., cliente affezionata del farmacista, quello bello.
“Piacere, E.”, tendendomi una mano addormentata dall’alcol.
“Piacere, David”
Passano sì e no due minuti ed ecco che la ragazza, colpita da arteriosclerosi fulminante, si presenta un’altra volta.
“Piacere, E.”, tendendomi questa volta la mano sinistra, visto che l’altra regge qualche intruglio pieno di benzina.
“Ci siamo appena presentati”
“No, mi sono presentata con i tuoi amici. Comunque piacere, io sono E.”
“Piacere, David”. Non è difficile.
Mi si avvicina all’orecchio. Speriamo che non abbia intenzione di staccarmelo con un morso.
“Cosa fai nella vita?”
“Lavoro a eBay”
“Ah, e cosa vendi?”
“No, lavoro per la compagnia”
“E cosa compri?”
“Sì, compro anche, ma lavoro per la compagnia. L’azienda.”
Soddisfatta della risposta, sorride e rimane con quella espressione per dieci minuti. Sorrido anche io e intanto cerco una via di fuga. Lei, però, si avvicina un’altra volta.
“Piacere, E. Tu come ti chiami?”
Incomincio a nutrire qualche dubbio anche io. Deve essere la problematica filosofica dell’apparente identità dell’io. Forse aveva ragione Locke quando parlava dell’identità come di qualcosa legata alla continuità della memoria. Mi sa proprio di sì.
“David, ci siamo presentati prima”
“E cosa fai nella vita?”
Ho uno strano senso di déjà vu.
“Lavoro per eBay”
“Ahh! Io conosco un sacco di persone che lavorano per eBay!”
“Sì? Tipo?”
“M***”
“Non l’ho mai sentito”
“Lui si è proprio arricchito, ha venduto…”
Salvatemi
“No, è un venditore, io invece lavoro per la compagnia. La società. L’azienda.”
“Ah, e poi conosco un sacco di gente che lavora per eBay”
Sorrido. Sorride anche lei. Sorrido e mi volto. Lei sorride e crolla per terra. Io sorrido. Lei sorride e si alza. Si avvicina.
“Ciao, io sono E, piacere”
“Io non lo so più, però nella vita non faccio un cazzo, bevo cuba e scusami, ma devo andare su eBay, c’è un amico che ci lavora e se sono fortunato mi vende un nuovo nome a metà prezzo”

Be’, il finale è un po’ di fantasia, ma va bene lo stesso. Alla prossima.

lunedì 27 aprile 2009

A tutta birra - rigorosamente svizzera


In genere la domenica mattina, diciamo verso le sette, le persone normali se ne stanno sotto le lenzuola a dormire. In genere. Io, invece, esco dai locali. Non sempre, e quando non lo faccio è perchè non sono riuscito ad entrarci. Comunque, puzzolente come solo può essere un portacenere colmo di mozziconi - purtroppo, qui nella civile Zurigo la legge sul fumo non è ancora passata - mi avvio con fatica verso la fermata dell'autobus. Dall'altra parte del marciapiede c'è una macchina della polizia ferma: due poliziotti, etilometro alla mano, stanno facendo il test a tre tizi. Non vedo altre macchine oltre a quella della polizia. Non vedo scooter. Non vedo nemmeno biciclette. Quelli sono tre pedoni. PE-DO-NI. Allora cerco di capire, di trovare un senso, una ragione, un perché. Voglio dire, che danni può provocare un pedone ubriaco, a parte esalare mefitiche zaffate alcoliche e sbiasciare parole incomprensibili? Ecco le risposte più plausibili che sono riuscito a trovare:


1 Forse l'unico ubriaco ero io: i due poliziotti facevano parte dei Village People e l'etilometro era pieno di whiskey


2 Mettiamo che il pedone, in preda ai fumi alcolici, attraversi la strada e non si accorga dell'arrivo dell'autobus: pam, impatto assicurato. Ritardo dell'autobus. Tragedia nazionale. Giusto fare l'etilometro ai pedoni.


3 La Svizzera non può permettere che i propri cittadini, abili e arruolati fino ai quarant’anni, vaghino ubriachi da un cantone all’altro: e se scoppia una guerra? Troppo alto il rischio. Giusto fare l’etilometro ai pedoni


4 I tre guappi sono stati sottoposti a etilometro perché stavano superando i cinquanta chilometri orari. Può capitare quando si è di fretta e si allunga il passo, perciò giusto fare l’etilometro ai pedoni


5 Gli ubriachi erano i due poliziotti. I tre tizi erano solerti zurighesi che, prontamente, hanno fatto accostare la macchina e hanno provveduto al test di rito. In ogni caso, è giusto fare l’etilometro ai pedoni


Alle otto sono a letto. Ho pensato "Ma se un pedone non ha la patente e lo trovano positivo all'etilometro, che cosa gli ritirano, i punti della Migros?". E con questo interrogativo inquietante mi infilo sotto al piumone e bunanotte a tutti.



venerdì 24 aprile 2009

Formiche operaie ovvero l'esproprio del mio appartamento


Otto e un quarto, suona la sveglia. Otto e venti, suona la sveglia. Otto e venticinque, e quanto cazzo suona questa sveglia?!! Mi alzo, piscio due litri di birra della sera prima, torno in camera, apro un occhio e poi pure l'altro. Qualcosa attrae la mia attenzione e non è una quarta abbondante: sul pavimento... Guardo meglio... sembrano... sono... formiche!!! In momenti come questo non serve pensare, bisogna agire. Afferro una scarpa e pam, stecchita! Pam pam, stecchite! Pam pam pam pam: è una strage. Missione compiuta. Apro l'armadio: formiche. Nanutissime, microscopiche formiche in fila indiana si muovono tra magliette, jeans e camicie. Che stronze, fuori im-me-dia-ta-men-te. Niente, non mi ascoltano. Chiudo l'armadio. Altre formiche. Si moltiplicano. Si riproducono. Stronze. Mi sposto in cucina. Formiche dovunque: sul tavolo, sopra le mele, sotto le mele but the apple is on the table, sul frigorifero, dentro il frigorifero, sopra i fornelli. La cosa peggiore è che sono formiche svizzere. Fanno cucù, ne sono certo. Vado all'agenzia immobiliare. Espongo il mio problema. Dettagliatamente. Li rendo partecipi. Ridono. Rido anch'io, ahahah. Esco, non c'è un cazzo da ridere. Vado in banca, pago tre mesi di deposito per l'affitto del nuovo appartamento. La cassiera non ride, ma potrebbe farlo. Io non rido e non potrei farlo. Attendo alla fermata del tram. Penso. Penso alle formiche. Penso che mi spacco il culo tutto il giorno per pagare l'affitto e comprarmi qualcosa da mangiare mentre loro sono là che scorrazzano divertite per il mio appartamento, sui miei vestiti, sul mio cibo. E' proprio vero che non ci sono più le formiche di una volta...

giovedì 16 aprile 2009

Noi volevam savuar l'indiriss...


"Entschuldigung, bitte, wo finden ich einen bancomat"?
"Was"
Cazzo, ho sbagliato qualcosa? Forse ho declinato male...
"Eine bancomat..."
Sguardo spento della signora
"Do you speak english?"
"Nein"
"Bancomat"
"Ja"
"Yes"
Gesticola con le mani
"There?"
Punta il dito
"Geradeaus"
"Sì, e... trovo il bancomat? Die Bankomat? There?"
"Ja"
"Ok, viele danke!"

Il tedesco non ha più segreti per me

lunedì 6 aprile 2009

Cinque motivi per e cinque motivi per non, terza


Cinque motivi per diventare un criminale


1 Non sei costretto ad andare in ufficio tutti i giorni


2 Conosci sempre gente nuova


3 Non importa se ti dimentichi il codice del bancomat


4 La crisi? E chissenefrega!


5 Se proprio va male, hai vitto e alloggio assicurati


Cinque motivi per non diventare un criminale


1 La mensa della prigione serve la pasta scotta


2 C'è tanta gente che vorrebbe sempre vederti. Dentro, però


3 I giudici, in genere, sono prevenuti nei confronti dei delinquenti


4 La mamma, se no, sta sempre in pensiero


5 Perché fare il parlamentare è veramente un lavoro palloso

mercoledì 25 marzo 2009

Prima vera? No, finta

Marzo, a casa mia, significa primavera. Non a Zurigo. Qui siamo in pieno inverno. Qui il cielo è grigio, nevica e soffia un vento gelido. Qui si va in giro con il giaccone da montagna e la mani infilate dentro le tasche. Guardo fuori dalla finestra: piove. Nevica. Piove. Le rondini, qui, indossano la pelliccia. Gli uccellini non fanno cip cip, ma cucù, e se ne stanno rintanati dentro agli orologi. Gli ormoni - quelli degli altri - sono ancora in letargo. Due settimane. Nevica. Piove. Nevica. Piove. Piove. Freddo. Oggi, miracolo: il sole. Cip cip. Giacche aperte, mani fuori dalle tasche, testosterone rinvigorito. Quasi quasi ci credo, ma mi tocca tornare a Milano. Treno: leggo, dormo, leggo, iPod. Arrivo a Milano. Piove. Ma vaffanculo!

lunedì 16 marzo 2009

A Zurigo le ore sono piccole piccole


Ecco un elenco di quello che ho fatto il mio primo fine settimana a Zurigo.



Venerdì sera:



  1. Allenamenti di nuoto



  2. Lauto piatto di pasta con parmigiano annesso - scorte nel frigo fino a giugno 2015



  3. Festa a casa di collega pazza insieme a: collega bisessuale, collega fattone, amico spagnolo della collega pazza, amico giapponese molto molto gay della collega pazza - scolati litri di vodka red bull



  4. Tutti allo Zukunft, noto club underground: trovo anche un mio amico di Milano insieme a un tizio nottambulo che ama portarsi a casa due donne alla volta



  5. Il giapponese balla in pista con addosso un kimono femminile rubato dall'appartamento della collega pazza. Il mio amico lo nota da lontano e mi fa: hai visto quel frocio che balla in pista?



  6. Cuba libre, cuba libre, cuba libre. Tanti cuba libre



  7. Una ragazza si mette a ballare di fianco a me, poi arrotola la lingua con un ragazzo e, non contenta, la arrotola anche con l'amico del ragazzo



  8. E' il momento di entrare in azione. E' normale che le pareti si muovano?



  9. Sbiascico. Magari rimando a domani



  10. Sono le sette. Usciamo. Il club è ancora aperto. Siamo ubriachi. Saliamo sull'autobus. Facciamo cagare.


  11. Ore otto, svengo sul letto


Sabato, verso mezzogiorno. Apro gli occhi. Mi alzo. Per mezz'ora sono incapace di intendere e volere. La porta è aperta, ho dormito così, ma fa niente, siamo in Svizzera. Colazione. Esco e, in successione:





  1. Vado all'Orange, firmo il contratto, esco con l'iPhone


  2. Vado in palestra: Holmes Club, pieno centro, all'ultimo piano dello Jemoli, l'Harrod's di Zurigo - si fa per dire


  3. Ma quelli che si allenano all'Holmes cosa mangiavano da piccoli?


  4. Comunque è tanto per provare, perché per pagare il club dubito che mi basti lo stipendio. Quello annuale


  5. Mi scolo due litri di acqua. Mi sa che ho sete


  6. Mi incontro con un'amica che mi porta a mangiare un molto poco kasher Bratwurst. Il molto poco kasher Bratwurst è molto fottutamente buono


  7. Torno a casa. Faccio una telefonata. L'appuntamento per stasera è alle otto. Mangiati. Cazzo, devo fare la lavatrice!


  8. Sei e mezza: telefonata chilometrica con madre oppressa dal senso di lontananza del figlio. Lavatrice - che qui è condominiale, con fantastico asciugatore annesso


  9. Pasta. Asciugatore. Bresaola. Ritiro panni


  10. Sono in ritardo di un'ora, ma recupero subito il numero di drink idoneo


  11. Si cambia bar. Ci sono più donne.


  12. Molte più donne. Tantissime donne


  13. Verso l'una il gruppo si divide: una parte a casa, una parte ancora in giro


  14. Io, ovviamente, sono ancora in giro, accompagnato da due baldi colleghi


  15. Taxi. Ci intrufoliamo in una festa privata. Si beve. La festa fa cagare e anche la festeggiata


  16. Di nuovo allo Zukunft. Ribecchiamo i due amici della notte prima


  17. Cuba libre.

  18. Cuba libre

  19. Cuba libre

  20. Sono le tre e tutto va bene

  21. Sono le quattro e tutto va bene

  22. Sono le cinque e tutto va bene

  23. Sono un carico di testosterone esplosivo

  24. Cinque e mezza: passo in mezzo alla pista e una squinzia mi sbottona la camicia

  25. Mezz'ora dopo le sono appicicato come una ventosa

  26. Fumo come una ciminiera. E domani sera dovrei allenarmi. Ma contro il testosterone parto in svantaggio

  27. Cerco di portare la squinzia a casa mia. Lei mi dice che deve svegliarsi alle nove e mezza per andare a lavorare. Io non demordo

  28. Alle sette usciamo insieme. Mi chiede di accompagnarla a casa. Io la invito a casa mia. Lei mi dice che deve svegliarsi alle nove e mezza per andare a lavorare. Io non demordo

  29. Venti minuti dopo siamo sotto casa sua. A questo punto cerco di farmi invitare a casa sua. Lei mi dice che deve svegliarsi alle nove e mezza per andare a lavorare

  30. Lei allunga le mani dove può e dove non può. Io pure.

  31. Mi saluta, mi da il suo numero e mi chiede se la chiamerò. Sì sì sì sì

  32. No

  33. Ore otto e dieci. Aspetto l'autobus. Cinque minuti.

  34. Sull'autobus mi addormento tre volte. Sbaglio fermata. Devo tornare indietro

  35. Sono le nove. Faccio schifo, qui in Svizzera si fuma dappertutto e i miei vestiti sembrano fabbricati con la nicotina. Ho sonno. Stramazzo al suolo. Non posso cedrto dire di non essermi divertito.

Siete tutti caldamente invitati a venirmi a trovare. E intanto mi godo il fine settimana milanese: niente male, no?