lunedì 7 giugno 2010

Psicopatologia della vita d'ufficio quotidiana

Giro come una trottola. Londra. Berlino. Milano. Ancora Londra. La sveglia non è un incubo perché non faccio nemmeno in tempo a sognare. Suona sempre troppo, dannatamente presto. Trolley pronto. Zaino pronto. Si parte. Casa, autuobus, treno, aeroporto, taxi, ufficio, albergo, taxi, aeroporto, treno, autobus, casa. Manager azzimati con 24 ore e financial times, banchieri incravattati, donne algide in tailleur ingessati e tacco dodici. Indescrivibile noia mortale. In tutto questo girovagare, gli assoni giocano brutti scherzi. Dopo quattro ore di sonno, abbandono la piovosa Zurigo e vengo accolto da un’insolita calda e soleggiata capitale inglese. Azzarderei ‘estiva’. Sono commosso. Il taxista mi fa da Cicerone e gli dimostro il mio apprezzamento con degli sbadigli che impressionerebbero il più audace dei domatori di leoni. Dopo essermi sorbito un’ora e dieci di traffico e chiacchiere letargiche, arrivo finalmente – si fa per dire – in ufficio. Tempo di accendere il computer, aprire la posta, bere un bicchiere di acqua e sono già in riunione. Entro nella stanza, stretta di mani. Lui, il responsabile del progetto per cui sono stato costretto a prendere l’ennesimo volo, è un bell’uomo dall’inglese fluente e il marcato accento tedesco. Omosessuale. Irrilevante, ma non per la mia storia. Andiamo a pranzo. Comodamente seduti su un paio di gradini, mastichiamo un panino ripieno di pollo e pomodoro e ingurgitiamo coca. Coccolati dal tepore del meriggio, osserviamo il lento e antico fluire del Tamigi. Il tedesco mi parla della sua vita. Professionale. È di Amburgo. Quando si dice il caso: proprio in mattinata avevo conosciuto un altro ragazzo di Amburgo. La tentazione è troppo forte e infatti, non resisto.

“From Hamburg? Really? You know, there is also another gay that…”

Cosa ho detto? Cosa cazzo ho detto?!!

Il tempo collassa. Lo spazio pure. Non capisco cosa stia succedendo. Mi sto rimpicciolendo? Brunetta mi guarda dall’alto e fa ciao ciao con la manina, io continuo a rimpicciolirmi. Litigo con un battere, mi scontro con un microbo e vengo abbattuto da un paio di nerboruti globuli bianchi.

Non posso averlo detto. E invece sì. Caro Freud, sarà pure un lapsus, ma il fatto di saperlo non mi aiuta a evitare l’immensa figura di merda. Stratosferica. Galattica. Aiutatemi con le iperbole, grazie.

Colpo di tosse nervoso. ‘Ehm, a guy that comes from Hamburg’

Lui non lascia trapelare nulla. Il suo volto è una tabula rasa di emozioni. Io, intanto, sto cercando una voragine in cui sprofondare. Non la trovo, ma intanto mi tocca assistere allo spettacolo orripilante di una ragazza inglese cresciuta a fish and chips e bevande caloriche che affonda le fauci in quattro chili di hamburger mentre il suo giro vita straripa dalla diga di contenimento della tenda che usa come maglietta. Direi che, come punizione per il mio linguistico atto mancato, può bastare.

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