martedì 21 dicembre 2010

Gang bangs of New York - parte seconda


Dovete sapere che Broadway è una via piuttosto lunga. 20 chilometri circa da un’estremità all’altra di Manhattan. Perciò, meglio sapere esattamente dove si deve andare. Esattamente. Dopo aver esaminato accuratamente la cartina, sollevo il capo e con gesto teatrale, puntando il dito in avanti, indico alle mie due ospiti la giusta direzione e le invito a seguirmi. Le sferzate del vento si fanno più violente ma io, tetragono ai colpi di ventura, non mi faccio intimidire.

“È lontano?”, mi domandano cortesemente.

“No, saranno al massimo dieci minuti a piedi”. Quindici, contando la brezza contraria. Quando di minuti, però, ne sono passati venti, sul volto delle due israeliane compare un’espressione di disappunto. Mi guardo intorno, controllo di nuovo la mappa e incito le compagne di viaggio a proseguire:

“Siamo quasi arrivati!”

Altri dieci minuti. Incomincio a notare alcune discrepanze tra ciò che è stato codificato su carta e le mie facoltà interpretative. Infatti, controllando i numeri civici, mi accorgo che abbiamo abbondantemente oltrepassato la meta designata. Di centocinquanta numeri. Tuttavia, a mia discolpa, posso dire che se la Niña, la Pinta e la Santa Maria fossero state attrezzate con dei navigatori satellitari, non avremmo mai potuto affondare le fauci in un doppio cheesburger ricoperto da strati di cipolla. Di tornare indietro non se ne parla neanche. Ci infiliamo in un negozio e chiediamo consiglio per dei locali in zona a una commessa che non avrà più di sedici anni. Lei, sfoderandoci un contagioso sorriso che mette in bella mostra il suo tecnologico apparecchio ortodontico, ce ne suggerisce uno proprio girato l’angolo. Così, ci ritroviamo al pian terreno di questo stabile, davanti a un bar deserto. E chiuso. Sull’ascensore è affissa una targa con alcuni nomi.

“Ah, guardate: penso che dobbiamo salire al quinto piano”. Per l’alcol mi trasformo in un segugio da tartufo. Le due seguono ciecamente il loro vate metropolitano, anche se incominciano a mostrarsi alquanto spazientite. Quando le porte dell’ascensore si aprono, davanti a noi appare una distesa infinita di abiti da donna ordinatamente appesi su delle grucce che occupano l’intero spazio del loft. Chissà dove sono le bottiglie di rum?

“Possiamo aiutarvi?”

Come tartarughe che allungano il collo fuori dal loro guscio per brucare un po’ di erba, ci sporgiamo dall’ascensore e vediamo che alla nostra sinistra, nascosti da un bancone in legno che gira loro intorno, sono seduti, davanti a dei computer, due ragazze e un ragazzo che ci guardano con aria interrogativa. Spieghiamo il motivo per cui ci troviamo lì. Sorridono e ci dicono che il bar è a pian terreno e che questo è un atelier. All’americana, etelia.

Quindi niente rum?

Tra una frase e l’altra, noto che il ragazzo soffre di un tic all’occhio sinistro. Una delle due israeliane si avvicina e mi sussurra all’orecchio: “Mi sa che gli piaci”. Quindi, non sono in un bar e il ragazzo non soffre di alcun tic. Niente è quello che sembra, tranne il fatto che io, in quel momento, sembro un idiota, anche se tutto fosse solo un sogno. Il sogno di un idiota.

Cerco di trarre a mio vantaggio la cosa. Schiero l’esercito di incisivi, canini, pre molari e molari e, con un’oratoria che nemmeno il Marco Antonio shakespeariano con il suo “Friends, Romans, countrymen, lend me your ears”, lo incito a sfoderare il sorriso imbattibile. Chiedo quindi al ragazzo se conosce un posto carino dove bere un bicchiere e magari mangiare pure un boccone. Lui, colpito da pulsioni sessuali innominabili, vacilla; poi, ripreso il controllo, armeggia con il computer e pochi secondi dopo mi porge non solo una pagina stampata con nome e indirizzo del locale – e quello in piccolo, in basso a destra, deve essere invece il suo numero di telefono –, ma anche il plastico del ristorante con tanto di Bruno Vespa allegato e un set di pentole smaltate che mi porto a casa a soli 49 dollari più spese di spedizione. Ringraziamo, salutiamo e ci rimettiamo in cammino. Altri dieci minuti di marcia. Il posto, che si nasconde dietro a una porta anonima, è davvero carino. E minuscolo: un bancone, cinque tavolini e un cesso. Con nostra fortuna, uno dei tavolini è libero e non importa se i posti a sedere sono solo due e me ne devo stare con metà culo fuori dal divanetto e le ginocchia incastrate sotto il tavolino. Ordiniamo. O meglio, ordino. Cozze alla marinara, un assaggino di questo, un assaggino di quello e una bottiglia di ottimo e costosissimo vino rosso italiano. Le israeliane cercano di impedirmi un tale sperpero di pecunia, timorose più che altro di dover pagare a loro volta il mutuo a fine cena, ma io, pervaso di spirito tafazziano, pronuncio una frase che alcuni critici hanno definito “Un epigramma che rappresenta con icasticità la vacuità esistenziale del suo autore”:

“Siete mie ospiti”.

La folla mi omaggia con un’ovazione e il coro greco raggiunge istantaneamente la catarsi. Non mi resta che accomiatarvi invitandovi a riflettere su un pensiero così profondo e rimandarvi alla prossima puntata, dove potrete leggere di possessioni diaboliche e tradimenti platonici. Buona settimana a tutti!


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