Dopo un lungo e ininterrotto periodo in ostaggio dello svizzero
tedesco, decido che è tempo di dare sollievo alle mie orecchie e tornare
qualche giorno a Milano. Così, mercoledì sera di un fine ottobre
particolarmente mite, con la pila di giornali internazionali sotto il
braccio pronti ad assistermi per quattro ore di viaggio all'interno di
quel mezzo di pocomozione - perché, in genere, pochi minuti dopo aver
lasciato la banchina, si ferma, per motivi ignoti a noi mortali,
parcheggiandoci in un limbo di sospensione spazio temporale - conosciuto
con il nome di Cisalpino, mi ritrovo alla stazione di Zurigo, davanti
al tabellone delle partenze. Scorro con lo sguardo e lo vedo, il mio
treno, quello delle svizzere diciannove e zero nove e non un secondo di
più. E, purtroppo, leggo anche, di fianco al numero del binario, una di
quelle parole tedesche che sono entrate subito nel mio vocabolario:
ersatz. No, non è un ordine nazista volto alla soppressione fisica di
altri esseri umani. Semplicemente dice che, al posto del treno in
questione, ne parte un altro.
Mi dirigo al binario. Onde
evitare di ritrovarmi in qualche sperduto villaggio elvetico dove gli
indigeni si nutrono di fondue umana, chiedo al capotreno se quello è il
convoglio ferroviario diretto a Milano.
'Sì signore', mi
risponde, imitando alla perfezione il Rezzonico di Aldo, Giovanni e
Giacomo. 'Purtroppo, a causa di un guasto, il Cisalpino è rimasto in
Italia. Deve cambiare però a Chiasso.'. Poi, mi sembra abbia aggiunto
'Cavolo, potevo rimanere offeso di brutto!'.
Vi assicuro,
il fatto di dover spendere tre ore su un treno svizzero, invece che sul
Cisalpino, lo considero alla pari di una vincita al super enalotto. Il
cambio a Chiasso è il pegno da pagare.
Trovo subito da
sedere. Poca gente: un uomo d'affari a inizio vagone, immerso nella
poesia di un excel; una coppia di anziani coniugi che bisbigliano parole
e me incomprensibili; due signori italiani, sulla cinquantina. Rispondo
a qualche mail. Intanto, il treno parte. I due italiani iniziano a
sgranocchiare patatine e a parlare ad alta voce, così che chiunque, nel
raggio di un paio di chilometri, possa seguire il loro arguto scambio di
opinioni.
’Shhh!’, si sente echeggiare dal profondo di un
sedile. La cosa non sortisce nessun effetto sulla coppia di miei
connazionali, che continuano imperterriti con le loro dissertazioni
filosofiche sul nulla che nulleggia. Passano pochi minuti e davanti a
loro si staglia, imponente e minacciosa, l’avvizzita figura dell’anziana
coniuge, ovviamente svizzera, che con il dito impostato nella funzione
predicozzo, in un italiano stentoreo, rammenta ai bifolchi che ‘questo è
fagone ti szilentzio’. Quindi, torna dalla mummia che le siede davanti e
richiude il sarcofago. I due ridacchiano per alcuni secondi, fino a
quando un silenzio spettrale scende nello scompartimento. Sento la mia
testa diventare sempre più pesante e trasformarsi, insieme al collo, in
un metronomo che ciondola a destra e a sinistra, due battiti al minuto.
Mentre
combatto la mia personale battaglia tra sonno e veglia , vedo un paio
di figure sfrecciare avanti e indietro per i vagoni, probabilmente alla
ricerca di una risposta la cui domanda non possono capire perché è in
svizzero tedesco. Queste ombre che popolano il mio dormiveglia
provengono dal paese di colui che alza giapponesi per diletto, il
sollevante. Finalmente, le due anime in pena trovano la pace, che ha
assunto le sembianze di due posti proprio di fianco alla coppia di
vetusti coniugi. Neanche il tempo di far vibrare le loro corde vocali
che la nonnina elvetica, intercettando il movimento labiale, emette uno
‘Shhh’ del settimo grado della scala Richter, zittendo i vicini e
instaurando il regno del terrore. ‘Questo è fagone ti szilentzio. Se
volete parrrlare, antate da altra parte!’. Davanti a questo ennesimo
sopruso mi rimane solo una cosa da fare: dormire.
‘Fifuu.
Fifuu. Fifufifuu’. Questo zufolio intermittente, fendendo l’aria, giunge
fino al mio timpano e lo percuote, causando come inevitabile effetto
secondario l’apertura di una dalle mie palpebre. ‘Fifuu. Fifuu.
Fifufifuu’. Chi è che si è portato dietro la gabbia con il canarino? Con
fatica, riemergo dall’oblio nella nuova veste di ornitologo, alla
ricerca del pennuto fischiatore. Qualche fila dietro di me, la turista
giapponese, sdraiata su due sedili, non dà segni di vita. Spero non
abbia fatto seppuku dopo l’onta della ramanzina in salsa Rosti. ‘Fifuu.
Fifuu. Fifufifuu’. Lo so cos’è: un cardellino. Cardellino rosso,
espulso. E poi lo vedo. Dall’altra parte del vagone. Il giapponese, che
cerca disperatamente di attirare l’attenzione della moglie. ‘Fifuu.
Fifuu. Fifufifuu’. Se non si tratta di un rituale di accoppiamento,
direi che sta cercando di aggirare in qualche modo la regola del
silenzio senza attirarsi le ire funeste della vetusta rompicoglioni. Per
tirare fuori dal coma la moglie, però, mi sa che gli conviene emulare
il barrito di un elefante.
Tutta questa selvaggina mi ha
messo un certo appetito. Il vagone ristorante è lì apposta per
levarmelo. Mi butto nello studio matto e disperatissimo del menu, sempre
lo stesso da quando ho memoria della tratta Zurigo - Milano, ma la mia
concentrazione è messa a dura prova da provocatori disseminati a caso
nel vagone per distrarmi con i loro vaniloqui e impedirmi di ordinare a
mente lucida, lanciandomi subliminali messaggi di kase fondue. Il primo
disturbatore ufficiale è un ragazzo brasiliano, alla mia sinistra,
impegnato in una chilometrica telefonata che si perde nella notte dei
tempi. La parlantina a raffica con cadenza san paolo/genovese origina
una mitragliata di sputi carichi di ettolitri di saudade. Alla mia
fervida immaginazione ci vogliono pochi minuti per metterlo a tacere con
dei mirati colpi di okuto che gli espandono il già voluminoso testone
fino a raggiungere il livello esplosione.
Al tavolo di
fronte al mio, una ragazza conversa con un tizio appena conosciuto e gli
racconta che è originaria di Napoli ma è cresciuta in Trentino e che
ora vive a Milano dove ha la sua attività di comunicazione ed eventi -
tanto per cambiare - e che è cento volte meglio che farsi spremere come
impiegata in qualche azienda, certo, a meno che non si occupi una
posizione importante. Certo. Sul finale vengo colpito da sordità
fulminante che, per un istante, mi libera dal velo di Maja.
In
fondo al vagone tre ragazzi di qualche zona remota dell’ est Europa che
parlano come Brad Pitt in The snatch cercano di ordinare in una lingua a
me ignota tendente all’inglese una bottiglia di vino al cameriere che,
di alfabeto, conosce - male - solo quello italiano. Il traduttore
simultaneo fornito dal Cisalpino incoraggia il dipendente di Trenitalia:
aiutato da un gesticolare frenetico che contribuisce ad aumentare
l’entropia nell’ universo, indossa le vesti del pigmalione per aiutare i
babuzzi pazzo grosso a fare la scelta giusta. Considerando che la lista
contiene tre o quattro bottiglie, il compito non deve essere poi così
arduo. A stappo avvenuto, i tre tirano fuori il violino e si lanciano in
pirotecniche danze zigane. Se la memoria non mi inganna.
Arriviamo
a Chiasso con il classico quarto d’ora accademico di ritardo che il
freccia bianca dello scorso millennio su cui salgo per raggiungere
Milano riesce, come per magia, a raddoppiare. Infatti, sbarco in suolo
italico alle undici e venti, trenta minuti dopo rispetto alla tabella di
marcia. Mi fiondo sul primo taxi. Il conducente, dopo aver appurato che
vivo a Zurigo, mi rende partecipe di essere appena ritornato a vivere a
Milano, avendo speso gli ultimi tre anni della sua vita in Thailandia,
dove si è fidanzato e ha comprato casa, non ho capito bene in quale
ordine. Purtroppo, e qui inizia la parentesi melodrammatica, la sua
ragazza non riesce a ottenere il visto per venire in Italia.
’18 voli intercontinentali negli ultimi due anni, ti rendi conto? Diciotto.’. DI-CIOT-TO.
E allora lì, be’, non ce l’ho fatta più. Mi sono sporto in avanti e gli ho detto:
‘Zio, io ho speso gli ultimi cinque anni a viaggiare sul Cisalpino’.
Abbiamo pianto insieme. E con queste lacrime, auguro a tutti una buona settimana!
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7 anni fa
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