lunedì 7 dicembre 2009

L'investitura

Il tram è fermo. Qualcuno scende, qualcun altro sale. In direzione opposta, sulla banchina, in attesa, due ragazze. Una - ho impresso vivida nella mente l’immagine dei suoi guanti, bianchi – è bella. Bellissima. Difficile non notarla. Mi rammenta, non so perché, delle donne ritratte da Gauguin, di Tahiti e della Polinesia. Indico la meravigliosa creatura ai miei compagni di viaggio descrivendola con un efficace sineddoche: “Che bella figa!”. Come scrive il Novalis, il poeta comprende la natura meglio dello scienziato. E poi succede un fatto inaspettato, una rivoluzione concettuale che riduce Copernico, Darwin e Freud a dei nani da giardino, a delle suppellettili inutili e insignificanti: lei, la dea dell’amore, la mia musa ispiratrice, l’equilibrio classico tra forma e contenuto, mi sorride, mi saluta e mi manda uno, due, tre e chi li conta più baci con la mano. L’ego del sottoscritto ringrazia. La mia fantasia, ruspante come non mai, si mette subito al lavoro e crea, in uno schiocco di dita, un romanzo epico in cui la parola “sesso” compare una riga sì e una no. Intanto, il tram riparte. Lei manda baci. Io sublimo. E sì, perché questo succede ad aver passato la vita tra libri e spartiti: il mondo platonico delle Idee fa grandi pernacchie alla praticità della vita quotidiana e, nello specifico della situazione, ti lascia lì, seduto, a guardare dal finestrino, concettualizzando chissà cosa, mentre la sana prosaicità degli amici – bastardi – si abbatte su di te come una scure sotto sembianze di una parola che non ti lascia scampo e che, tutto sommato, ha una sua verità innegabile: “Babbo!”. In realtà, questo è solo il pretesto per parlare di altro. Ammetto l’immensa utilità del prendersi in giro, un concentrato di onestà intellettuale e perverso masochismo che serve sempre a ricordarci che, per dirla alla Haim Baharier, siamo tutti claudicanti, anche se ognuno pensa che ci sia qualcuno che zoppica di più. Lo ammetto, ma perché infierire quando ho già amici pronti a sostenere la parte? Perciò, tornerò all’argomento che tanto caro mi fu. Le milanesi. Mi sono chiesto, che cosa sarebbe successo se la stessa scena fosse successa a Milano? Come minimo, sciopero dei mezzi, e la storia finisce qui. Supponiamo, quindi, che funzioni tutto come dovrebbe funzionare. Io guardo la ragazza. La milanese si accorge dell’attenzione e: 1) intanto pensa che sono uno sfigato, perché prendo i mezzi pubblici lenti, affollati di immigrati, barboni, adolescenti brufolosi e puzzolenti e vecchi catarrosi e dal naso perennemente colante che ti attaccano la suina. Lei va in giro con lo scuter con la ‘u’. Scuter. La borsetta di Gucci, nel tram, mi si affloscia. 2) Se riesce a oltrepassare questa barriera invalicabile, cerca di capire se le posso interessare oppure no. Se non le piaccio, si volta dall’altra parte ed è finita lì. Se le piaccio, pur di non farmelo capire, si genuflette in direzione della Mecca, rilegge i messaggi degli ultimi tre anni, parla con il tombino e si esibisce in riti propiziatori. Tutto, pur di non farti capire assolutamente nulla. La conquista, per il milanese, nella sua città natale, è un passaggio all’età adulta fatto di fatica, sudore, dolore, umiliazione, eroismo, sopportazione, resistenza. E soldi, parecchi. La ragione? L’educazione, immutata da secoli, che si trasmette di generazione in generazione. La milanese, la mamma della milanese, la nonna della milanese e così, a ritroso, fino ad Eva che non era milanese però stronza di sicuro, viene cresciuta da sua madre come una principessa. La principessa. E il padre, che al fascino femminile non è in grado di sottrarsi, è complice della creazione del mostro, questo Golem griffato dell’ape, della santa triade di Santa, Forte, e Curma e del uicchendino perché la domenica mi rompo i coglioni. La principessa, che è la più bella, la più intelligente e la più insopportabilmente viziata dell’universo, comanda sovrana nel suo regno. Impara l’arte del dispotismo. Tiranneggia. Quando, improvvisamente, la natura entra prepotentemente nella sua vita, rendendola mensilmente ancora più imprevedibile e dittatrice, la madre sa che è venuto il momento. L’appuntamento con la storia. La prende per mano e la porta nel modesto salotto di duemila metri quadrati, parquet, marmo, tappeti persiani, divani di velluto e cinema con poltrone e biglietteria annessa. Lì, sotto il ritratto gigante dell’avo, il grande filantropo, l’arcivescovo, il mercante di schiavi, il colonizzatore, l’inquisitore, il santo, l’erudito, il nobile, il mistico, l’amico di papi e crociati, l’umanista lì, la fa inginocchiare e, appoggiandole la borsa gigante di Fendi sulla spalla, che fagocita la piccolina, pronuncia una frase. Una sola frase, dalle conseguenze, però, nefaste. Una sola frase su cui è stata costruita la nosta amata e odiata città. Una sola frase che, pare, la prima volta che è stata pronunciata, abbia creato un collasso gravitazionale: “Ce l’hai solo tu”. Ed è la fine. Per noi, l’inizio di un incubo da cui non ci potremo mai risvegliare.

p.s: si scherza, lo sapete e poi, lo dico in particolare alle mie amiche, generalizzare è sempre sbagliato: credo che ci siano almeno un discreto numero di milanesi che non sono affatto, affatto, come le ho descritte. Sono molto peggio.

2 commenti:

Unknown ha detto...

Si vede come raggio di luce che trapassa il buio della coscienza che questo tipo di fanciulla tira, fantasizza, fa sbavare e sognare come mai potrebbe una meschineddra che col tram si accompagna e che con mano libera (orrore!) da pitonata borsetta ancorchè floscia fà ciao ciao al mondo. "Poveraccia" sarebbe il risaputo commento se qualche giovane rosa si azzardasse a salutare il giovin rampante di turno il quale se proprio proprio devastato da lunga e forzata astinenza, al massimo, commenta come deve (io quella me la faccio a colazione). Eppoi un rutto. L'investitura, che ridurrà la polla ad una schiava della propria stessa tirannide, è quanto di più amorevole possa sperare il mundualdo medio italiota che regalandole una Fendi luccicante potrà opportunamente nascondere l'opacità di una fantasia che non si rinnova e non può più farlo- la nuova sottomessa dovendo diventarlo con la solita monotona e rassicurante femminilità la cui protervia ne costituisce indispensabile corrollario. Siamo al feudalesimo e facciamo ipocrita nostalgia di ciò che nel nostro misero feudo neppure arriva all' anticamera dell'attenzione. E allora lo dichiaro, da donna emancipata e pertanto frustrata fino al fondo della Fendi che non possiedo: ne voglio una, almeno, una, prima di morire almeno una...

David A.R. ha detto...

Eheh...