lunedì 1 febbraio 2010

Apriti sesamo!


Sembra che, quando si starnutisce, sia impossibile tenere gli occhi aperti. Bene, negli ultimi giorni ero così raffreddato che, quando starnutivo, ero il mio vicino a chiuderli, gli occhi. Comunque, venerdì sera, imbottito di medicinali, decido che il tempo della mestizia è finito, perché come è scritto nel Qoelet – l’Ecclesiaste -, c’è un tempo per ogni cosa, e così me ne vado a una festa che racconta di ruscelli di vodka, fiumi di rum e torrenti di birra. “Mangiate, amici, bevete/inebriatevi, o cari.”. Anche a quei tempi già lo sapevano che un bicchiere tira l’altro e così mi ritrovo verso le cinque del mattino davanti al portone di uscita. O a quello di entrata, ma non vorrei scomodare Frege per niente. Con fatica afferro la maniglia e tiro. Niente. Allora spingo. Niente. Tertium non datur, quindi c’è un problema. Il mio è l’alcol, e quello del portone? Alla mia sinistra, sul muro, in bella evidenza, noto un campanello. Ah! Con aria trionfante lo premo. Tiro. Niente. Spingo. Niente. Un’espressione corrucciata si dipinge sul mio volto. Schiaccio di nuovo il pulsante, tiro, spingo, schiaccio, tiro, spingo, mollo un calcio. Non succede assolutamente niente. La battaglia è persa. Andrò a chiedere delucidazioni. Mi volto e, esattamente dalla parte opposta, vedo un altro portone. Mi giro a destra, portone. Sinistra, portone. Destra, portone? Sinistra, avanzo. Spingo. Il passaggio si apre davanti a me. L’uscita. I tratti del viso si rilassano, lasciando spazio alla tipica espressione dell’idiota. Esco. Il portone di entrata è il portone di uscita e settimana prossima mi rileggo Frege. Domanda: a chi cazzo ho suonato per cinque minuti?!

Il risveglio è pessimo. Mal di testa, stomaco in subbuglio. Sono ancora ubriaco. Pilotato da un appetito che necessita di agnello sacrificale per essere placato, mi alzo e barcollo fino al frigo. Non potete capire il dolore che ho provato nel constatarne l’esiguo contenuto. Mi armo di tutto il coraggio possibile e parto in missione spesa. Dopo cinque minuti passati a fissare dei barattoli di cetrioli, mi si avvicina un dipendente del supermercato e, vomitandomi addosso dei suoni gutturali, mi chiede se ho bisogno di aiuto. Gli sorrido e mi smuovo per qualche istante dalla sosta catatonica. Non credo di aver mai passato così tanto tempo in un supermercato. Sfiancato dallo sforzo epico, finalmente arrivo alla cassa. Inserisco il bancomat e… nulla, anche lì. Lo inserisco una seconda volta. Non riesco a pagare. Alla terza mi accorgo che quello che stavo infilando non è il bancomat, ma la tessere dell’assicurazione sanitaria: per forza non riesco a pagare, con tutta la spesa ipercalorica che ho fatto! Questa volta tiro fuori la mia bella carta gialla. E il codice? Non me lo ricordo, cazzo! Ce l’ho segnato sul cellulare, ma ovviamente il cellulare giace sul comodino di camera mia. Intanto la fila dietro di me, che arriva al casello di Melegnano, incomincia a dare segni di impazienza. La cassiera, che non si capacita del fatto che tutti i drogati del quartiere debbano sempre capitare a lei, mi fissa allibita. Una cosa così, in Svizzera, non la vedono dai tempi di Zwingli. Esploro i meandri più reconditi del portafoglio e, accartocciate in modo indegno, trovo le banconote che mi salvano dal linciaggio. Sorrido, torno a casa, mangio, sto ancora più male e vengo abbattuto sul letto da un mal di stomaco canaglia che mi lascia privo di sensi per altre tre ore. Una merda, certe volte, ha più dignità.


Vi ricordate il Woody Allen di “Hollywood ending” che interpreta un regista colpito da cecità psicosomatica? Mi è tornato alla mente leggendo un articolo su un film che stanno girando a Tel Aviv e interamente pensato, diretto e recitato da non vedenti: regista, attori, tecnici. Non so quanto sia passata la notizia. A me, lo confesso, ha fortemente impressionato. All’inizio avevo pensato di scriverci sopra qualcosa di divertente, ma poi mi sono ricreduto. Lo trovo in qualche modo eroico e romantico. So che non c’entra niente con la logica di questo post, ma volevo accomiatarmi non con l’immagine di un me sbavoso sopra un materasso, ma con l’idea che i sogni, il talento, la passione, ci rendono ancora più umani e così, più vicini all’Assoluto - “Siamo fatti della stessa materia/con cui sono fatti i sogni”. W. Shakespeare -. Buona settimana.

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