lunedì 23 luglio 2012

Salto con l'asta-gione

“Vorrei una quattro mezze stagioni”

“Mi scusi?”
“Una quattro mezze stagioni”
“… Mi spiace, ma…”

Ma non ci sono più le mezze stagioni. Lo sappiamo. Ce lo ripetono da anni. Eppure, io non ho mai capito che cosa siano. È un concetto sfuggente, come l’attimo – perché diciamocelo, l’attimo non è fuggente, ma sfuggente, come la vita che, più che a fuggire, tende a sfuggirci, e anche velocemente. Un gennaio in fiore è una mezza stagione? E un gelido aprile? Cosa dire poi di un luglio piovoso e di un ottobre piegato dall’afa – da qui il famoso vattene afa in culo? Quesiti destinati a rimanere senza risposta, a meno che qualche temerario non decida di pubblicarli so Yahoo! Answers, a cui ho già largamente dedicato dello spazio. Eppure, pare che le persone ne sentano la mancanza. Quando è argomento di conversazione, dentro un ascensore, le mura dell’ufficio o il negozio di un barbiere, il periodo delle mezze stagioni viene rievocato come un periodo aureo. Se ne deduce che, il fatto che non ci siano più, costituisca una perdita incolmabile per l’umanità, quasi come la sempre più prossima scomparsa del congiuntivo. Non mi capacito allora di come Vivaldi abbia potuto dedicare una serie di concerti alle sorelle maggiori, dimenticandosi completamente delle minori e causando ai tempi, ne sono certo, chiacchiere di circostanza in tutte le bettole del veneziano

Ma non ci sono più le mezze stagioni. Solo meste stagioni, intristite da un Assoluto meteorologico che nega loro un graduale divenire, dalla potenza all’atto. Strano che, con la crisi economica, i governi non abbiano provveduto a tagliare anche le stagioni. Allora il tutto avrebbe assunto un senso, ma di assunzione, in tempo di crisi, non se ne parla, così brancolo nel buio del non senso, doppi non sensi compresi.

Ma non ci sono più le mezze stagioni. E, a dirla tutta, non ci sono più neanche le stagioni. Se l’espressione ebete dipinta ora sui vostri punti simboleggia un punto di domanda, spiego subito che cosa ho voluto intendere, ma non volere. Alcuni giorni fa, a Zurigo. Dico Zurigo perché ormai vivo qui da più di tre anni, ma avrei potuto dire Milano. Se avessi detto Milano, però, sarebbe stato tanto per fare un esempio in generale. Quindi Zurigo. Nell’arco di tre, quattro giorni, le temperature sono passate dai ventitré gradi primaverili ai trenta decisamente estivi per ripiombare il giorno dopo a dei freddi, invernali tredici gradi di massima. E poi mia madre si stupisce che viva in uno stato di perenne salute precaria – si sa, in Svizzera, di precario c’è solo la salute. Il fenomeno, per quanto bizzarro, ha un nome scientifico. Salto con l’asta-gione. Un giorno calzi gli infradito e il giorno dopo sei un salame con pollice opponibile – che per alcuni è opinabile – infagottato dentro a un piumino. Un meccanismo impazzito in un’epoca in cui niente è certo, a parte la mamma. O le mamme, se il vostro nucleo famigliare è particolarmente aperto e progressista. D’altronde, questo è il prezzo da pagare per la libertà: anche le stagioni si affrancano da un monotono destino rigidamente regolato, dal cartellino timbrato ogni tre mesi. Le conseguenze? Nessuna. Però, niente più centro di gravità permanente, che Battiato continua a cercare insieme ai suoi gesuiti euclidei. Piuttosto, abbiamo un centro di gravosità permanente, di pesantezza umorale che ci ammorba il fine settimana: cazzo, è maggio e si gela!

Ma non ci sono più le mezze stagioni. Come le mezze misure. Provvedimenti drastici. Decisioni risolute. Scarpe troppo grandi o strette. Bianco o nero. Si fuma ma non si sfuma. L’eclissi della logica fuzzy. Io, invece, me ne rimango qui, a scrivere un post senza senso, indeciso sul mio presente, perplesso sul mio futuro. Fuori, un grigio tetro. Piove. Me ne rimango qui, a fissare il nulla, annichilito. E completamente sfumato. Buona settimana a tutti!

p.s: data la brevità del post, lo dedico espressamente a Corrado

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