lunedì 21 febbraio 2011

Siamo tutti fritti-g

Odio il lunedì. Il martedì, anche di più. Il lunedì, infatti, quando suona la tanto odiata sveglia, mi alzo e, con rassegnazione, mi preparo ad andare in ufficio. Ma quello che, poco dopo, è seduto davanti a un computer, non sono io. È un automa. Un essere privo di coscienza. Di volontà. Un vegetale con il pollice opponibile. Uno zombie con gli auricolari nelle orecchie. Un ectoplasma appesantito da excel e microsoft project. Il martedì, invece, è tutta un’altra storia. Il martedì, è il risveglio, nel senso buddhista. Il martedì, cade il velo di Maya. Il martedì, c’è la presa di coscienza. È solo martedì. Devo scalare montagne di mail, esplorare progetti abissali, sopportare torrenziali meeting. E sono due anni che devo mettere le tende in camera, maledizione! Poi uno si domanda perché la gente si droga o guarda ‘Uomini e donne’. Prendiamo martedì scorso. Uno come tanti altri. Il suono di ‘Sunday morning’ dei Maroon 5 mi ricorda tre cose: uno, che non è domenica mattina, perché l’ultima volta che mi sono alzato di domenica mattina è stato quando mi hanno tolto l’appendice a cui ero molto affezionato e credetemi, era un sacco di tempo fa; due, che la sventola che mi spupazzavo, ahimé, era solo un sogno; tre, che è ora di cambiare sveglia. Il lunedì, quando mi alzo, sono distrutto. Il martedì, in genere, necessito di un defribillatore. I soliti dieci minuti per trovare il coraggio di alzarsi. Le ciabatte sono sempre un mistero in casa mia. Una è sotto il pianoforte, l’altra è data per dispersa. Evacuazione della vescica e abluzione mattutina stando sempre ben attento a evitare lo specchio delle mie brame che non mente mai. Passaggio rifocillatore in cucina, spazzolata a incisivi e canini e via, pronti a farsi nobilitare da quell’attività che richiede dedizione, impegno e una certa dose di talento. No, non è il sesso. Prima di uscire, prendo le camicie che giacciono abbandonate nel cesto della roba sporca da ormai più di un mese. Missione lavanderia. La lavanderia è gestita da due simpatiche vecchiette zurighesi affette, ipotizzo, da avanzata demenza senile. Entro. Dlin dlon! Il campanello automatico riattiva per qualche secondo i miei neuroni assopiti.

“Grüezi!”

Per chi non lo sapesse, questo è il tipico saluto in svizzero tedesco. Il loro gutturale ‘Salve’. Per pronunciarlo alla perfezione, bisogna prima fumarsi un paio di sigarette, espettorare e fare uscire con impeto la parola. Non è facile credetemi. Ricambio il saluto e appoggio le camicie sul bancone. La signora si curva pericolosamente e con l’aiuto di un pallottoliere inizia a contare. Poi mi guarda.

“Foif”, declama con veemenza – credo si scriva füf, o qualcosa del genere. Io la guardo a mia volta. Del terrore è dipinto sul mio volto.

“Foif?”
“Ja. Foif”.

Ah be’, se la mettiamo così, io non ho nulla da obiettare – più tardi, in ufficio, scoprirò che ‘foif’ sarebbe il ‘funf’ in svizzero tedesco. Cinque. Al momento, però, sono indeciso se si tratti di un insulto o di una specie di mantra svizzero apotropaico. Andiamo avanti. La signora, sempre più curva, inizia a scrivere su un bigliettino.

“Frittig!”, e lo deve urlare, perché è talmente curva ormai che, ripiegata su se stessa, scrive infilata nel cestino sotto al bancone. No, guardi, il fritto a quest’ora lo trovo piuttosto indigesto. Magari dopo. Lei, però, è irremovibile. “Frittig!”. Solo un boccone, sono anche di fretta. “Frittig!”. Ma cos’è, la supercazzola prematurata? Sconfitto, sbiascico uno ‘Ja’ poco convinto – più tardi, in ufficio, scoprirò che ‘Frittig’ (si scrive ‘Fritig’) sarebbe il ‘Freitag’ in svizzero tedesco. Venerdì. Niente fritto. Peccato.

La signora, soddisfatta, prosegue nel suo interrogatorio monosillabico.

“Der name?”

Ah, questa è facile, questa la so! Schiaccio il pulsante.

“R.....erg!”

La signora fa cadere la penna e si tira su. No, non lo faccia! Sul suo viso compare quello che la mattina a Zurigo è impossibile vedere. Come a Milano. Un sorriso. No, no, ho già capito. Non lo faccia, la prego. Gradualmente, passa dal sorriso a una fragorosa risata che le provoca movimenti tellurici alla dentiera e uno sconquasso epilettico al seno giunonico. Lo so che lo sta per dire, ma non lo dica. Non anche questa volta. La prego! Lei, però, proprio come lava incandescente che cola dalle pendici di un vulcano in eruzione, è ormai inarrestabile. E allora mi preparo.
“Ahahah! R......erg?! R......erg?! Wie das Restaurant hier in der Nähe, R.....org!!!”. Come il ristorante qui vicino, R.....org. “Wussten Sie?”. Lo sapeva?

No. Come potrei. Sarà solo la decima volta che mi ripete la stessa battuta e con tutto l’alcol bevuto negli ultimi vent’anni la mia memoria ha qualche falla. Siccome i miei genitori hanno provato, con poco successo, a darmi quel minimo di educazione che ti serve per andare fuori a cena ed evitare, tra un piatto di spaghetti e una tagliata al sangue, di infilarti le dita nel caso e appiccicare il prodotto interno lordo sotto la sedia, rido a mia volta e ringrazio l’arterislerotica per la perla comica donatami. Amo però i miei post perché posso far lavorare la fantasia e scriverci quello che vogliò. Perciò, rido, dopodiché estraggo una pala e gliela percuoto sui denti, ottenendo una curiosa riarmonizzazione di ‘Fra Martino campanaro’. Saluto e, dopo aver visto l’autobus arrivare alla fermata, scatto come un centometrista sotto effetto di cannabis e mi accascio, poi, inerme, nella fila di sedili in fondo.

Be’? Niente, è lunedì. E con buona pace di David Hume, direi che è molto probabile che domani sarà martedì. Sempre che prima non mi cada in testa un meteorite, il che non toglie che in ogni caso domani sarà martedì e, al massimo, io sarò alto quindici centimetri e avrò un sacco di problemi per rifarmi un guardaroba. Perciò, cosa volete che vi dica? Di pazientare, che presto sarà di nuovo Frittig. Buona settimana a tutti!

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