lunedì 31 ottobre 2011

Volare con la fantasia

Non mi piacciono gli aeroporti. Non parlo dal punto di vista estetico, anche se non ho mai sofferto della sindrome di Stendhal mentre mi aggiravo per il duty free. No, le ragioni sono altre. Intanto, perché pullulano di uomini d'affari. Li riconosci subito. Sulla quarantina, capello brizzolato, vestito inamidato, bagaglio a mano, valigetta 24 ore e borsa a tracolla nera con computer incorporato. Sempre troppo dopo barba addosso. Passano il tempo a inviare mail importantissime con il blackberry. O a organizzare riunioni importantissime con il blackberry. O a partecipare a importantissime - e fastidiosissime- conversazioni con il blackberry. Cerco di starci il più lontano possibile, di solito sono contagiosi. Non sempre, purtroppo, ci riesco, dovendo viaggiare anche io per lavoro.

E arriviamo al secondo motivo per cui detesto gli aeroporti: il furto di un'allegoria. Ora mi spiego meglio - prima però ho bisogno di cinque minuti per andare a cercare 'allegoria' sul vocabolario. Quando ero ragazzino e non c'erano i social network e nemmeno i cellulari e Fabio Volo (l'ho preso solo per il cognome) non scriveva ancora libri - ah, ma scrive libri? - e per invitare una ragazza dovevi passare prima sotto il torchio parentale e il più delle volte quando sentivi una voce bassa e profonda e clic mettevi giù e poi provavi nuovamente a telefonare e clic mettevi giù un'altra volta e la storia andava avanti fino a quando lei non rispondeva e ti chiedeva se eri tu che avevi provato a chiamare prima un centinaio di volte e tu no no no negavi fino alla morte e clic, insomma, un discreto numero di anni fa, ero affascinato dagli aerei. Ogni volta che, in lontananza, udivo quel rombo, alzavo la testa e scorgevo, su, in alto, una minuscola sagoma in movimento che, in pochi secondi, spariva, inghiottita dal cielo o da qualche nuvola di passaggio, pensavo a come sarebbe stato bello, in quell' istante, mollare tutto, lasciarsi alle spalle un'adolescenza che sembrava non volesse mai terminare e partire, osservando il mondo in miniatura con la testa appoggiata sull'oblò. L'aereo erano le vacanze studio in Inghilterra, le isole della Grecia, il lungomare, le luci e i profumi di Tel Aviv. Era un'attesa che durava nove mesi, un parto di speranze, sogni, desideri. Un sabato del villaggio che invece della donzelletta pullulava di hostess e noccioline da sgranocchiare. E ora? Ora è già domenica con il solito cerchio alla testa. Ora è il volo per Heathrow delle sette del mattino. Ora sono gli sbadigli dell'attesa, le occhiaia di una notte troppo breve. Le città ridotte a un ufficio. E a volare, con me, sempre di più, è il tempo. Così, giorno dopo giorno, la prosaicità del colletto bianco ha sostituito quel pizzico di poesia che c'era in quello sguardo ormai passato rivolto verso il firmamento - il fanciullino in salsa melensa, sopprimetemi. Nessuna cura, a parte l'aforisma di Oscar Wilde, che ho citato nel primo post del mio blog e che ripeto ossessivamente dentro di me, "La vita è una cosa troppo seria perché si possa parlarne sul serio".

Terzo motivo per cui odio gli aeroporti: recuperare, dopo i controlli di sicurezza, le monete sparse nella vaschetta e, soprattutto, rinfilarmi la cintura, operazione resa complicata dall'arrivo in massa di altre borse e vaschette e che riesco a portare a termine con l'aiuto di 20 gocce di Lexotan. Solo cercare parcheggio a Milano il sabato sera mi mette più ansia. E guido uno scooter.

Tutta questa ouverture di lessemi per introdurre il tema del post che, più che con l'aerodromo, riguarda il nostro Paese. Un giovedì sera, verso le nove, volo British Airways partito da Londra in direzione di Milano Linate. Dopo tre giorni di intense riunioni e primi colpi di tosse, sono di ritorno alla mia amata odiata città per un altro evento di lavoro. Il cappuccio della felpa è stato un ottimo compagno di viaggio, il perfetto piumone in cui avvolgere la testa ciondolante di un uomo vinto dal sonno e da un raffreddore che ha preso pieno possesso del suo naso. Ora di ritornare nel mondo reale. Non l'avessi mai fatto - occhio non vede, cuore non duole. Sta per iniziare la fase di atterraggio. Le luci si fanno più soffuse e le hostess controllano che tutti i passeggeri abbiano le cinture di sicurezza allacciate e, soprattutto, i cellulari e tutti i dispositivi elettronici spenti. Nella fila di fianco alla mia, dove io giaccio esanime, sprofondato nel sedile, ci sono tre o quattro tizi intenti a sferragliare su vari blackberry e iPod. Le solite, importantissime mail - d'altronde, Camping, che ha toppato clamorosamente, aveva predetto la fine del mondo per il 21 ottobre e, giustamente, loro lavoravano in previsione della nefasta eventualità -, pagine dense di business planning (scusate l'inglesismo) ed excel gonfi di dati. Roba da narcotizzare un cocainomane. L'hostess, durante il giro perlustrativo, si rivolge a ognuno di loro chiedendo cortesemente - all'inglese, ovvero un ordine perentorio pieno di please, could e do you mind - di spegnere cellulari e ammennicoli vari. Una sinfonia di sì che, non appena la graziosa signorina si volta e torna alla sua postazione, si concretizza in un nulla a procedere, l'incarnazione mostruosa del furbastro italico, il me ne fotto con contorno di pizza e mandolino che tanto mi ricorda gli anni trascorsi alle elementari, quando la maestra si azzardava a infilare un piede fuori dalla porta e si scatenava un nubifragio di gesti dell'ombrello all'unisono che produceva un boato pari al terzo grado della scala Richter:

"Cos'è questo rumore?!!"

Sul taxi che sfrecciava per le strade semi deserte di Milano eravamo in tre: il tassista, io e il carico di amarezza per un certo atteggiamento culturale che, purtroppo, è ancora decisamente radicato nella nostra bella e incasinata Italia. O almeno, in una buona parte di essa. E allora, sì, protestiamo, protestate, scendete pure in piazza e scandite i vostri slogan, ma ricordatevi, ricordiamoci che, se vogliamo che le cose cambino, siamo noi i primi a dover cambiare. Basta aspettare Godot, è sempre in ritardo, c'è sciopero generale dei mezzi. E gli slogan, quelli lasciamoli alle merendine del Mulino Bianco. Buona settimana a tutti. Io, domani, me ne vado a Londra. Volo delle sette. Viva gli aeroporti!

p.s: dopo Milano sono rimasto a casa una settimana con l'influenza. L'influenza italiana, pieni di neutrini che si aggirano a velocità insondabili per un tunnel che si estende dal gran Sasso al Cern. Germi che si propagano grazie al loro ministro della coltura, la Germini.

Nessun commento: